Notizie storiche intorno all'origine di Prato/Del Sacco di Prato del 1512

Cap. VI - Del Sacco di Prato del 1512

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Attentato di Musciattino e tentato furto del 20 Gennaio 1871, ossia l'ultimo miracolo Capitolo VII
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CAPITOLO VI.


Del sacco di Prato del 1512


A rammentare un saccheggio, e brutale qual fu quello di Prato, parrebbe che la mente dovesse portarsi a quei secoli detti barbari, a quel medio evo, che è stato giudicato il ricettacolo di ogni atrocità non meno che della più grossa ignoranza. Ma la data del 1512 fa accorti che tal enormità fu consumata in quel sì celebrato secolo decimosesto in cui l’Italia si abbellì di una cultura la più splendida che si vedesse dai giorni di Pericle ai nostri. È pur troppo vero che in faccia a tanto lume di scienze, lettere e arti, le storie di quel tempo ci narrano una serie intricata di tradimenti, di scelleratezze, d’infamie, di atrocità. Delle guerre di sterminio, basti rammentare la battaglia detta de’ Giganti [p. 90 modifica]che due giorni durò e fece ventimila cadaveri: dei saccheggi, i tre che furon dati nel corso di quindici anni, a Brescia dai Francesi, a Prato dagli Spagnuoli, a Roma dai Tedeschi e Spagnuoli. Ma è vero altresì che siffatte atrocità non vennero da Italiani contro Italiani, sì bene da stranieri. Che se, quanto al sacco di Prato, si volesse dire che la tradizione locale lo ha chiamato il sacco dei Papalini, noi affermiamo, non esservi storico del tempo o posteriore, che non dica spagnuolo l’esercito, e l’eccidio non attribuisca agli Spagnuoli: mentre la presenza del Legato del Papa e alcune bande pontificie, le quali si erano unite all’esercito che veniva contro Firenze, rendono bastante ragione di questo errore popolare. Del resto per giudicare, se Italiani o Spagnuoli fossero tali da commetter le enormezze che in Prato vennero commesse, basti richiamare a mente quella con cui i secondi si erano infamati nell’America scoperta di recente. Perchè poi cotanta calamità toccasse alla nostra città (che in guerre rilevanti per [p. 91 modifica]proprio conto non ebbe parte), ne fu cagione la sua dipendenza dalla repubblica fiorentina. Perocché Prato, che fino dai primi tempi si era retto a comune, prima sotto un vicario imperiale, dipoi sotto la protezione dei re di Napoli, dalla regina Giovanna era stato ceduto proditoriamente come suo possesso a Niccolò Acciaiuoli suo Gran siniscalco, e da questo venduto per tanti fiorini d'oro alla repubblica di Firenze, che da un pezzo ne agognava la signoria. Per questa soggezione incolse a Prato tanto disastro: del quale per non ripigliare da troppo lontana origine le cagioni, ci moveremo dalla guerra suscitata da Papa Giulio II per ricuperare le province pontificie usurpate alla santa Sede dai vari signorotti. Questo pontefice d’indole bellicosa, già ricondotte colle proprie armi all’obbedienza varie di quelle città, non potea da solo risoggettare le rimanenti di cui si erano insignoriti i Veneziani. Perlochè collegatosi con Francia e Spagna, e fatta la celebre lega di Cambray, ridusse ben presto Venezia alle strette, ed [p. 92 modifica]ebbe agio di tornare in possesso delle sue province. Sennonchè di subito staccatosi dalla lega, levò il primo quella voce tante volte poi ripetuta: Fuori i barbari e si volse contro i Francesi per cacciarli d’Italia. E rafforzatosi coll’alleanza di Venezia, degli Svizzeri, degli Spagnuoli, e perfino dell'Inghilterra respinse i Francesi oltre i confini italiani. «Ma eran tutt’altro che cacciati, scrive il Balbo, tutti i barbari. Abbondavano Spagnuoli, Tedeschi, Svizzeri, e tiranneggiavano così che per dar loro una ricompensa delle vittorie procacciate alla lega, fu loro abbandonata una delle più nobili città e potenze Italiane, Firenze. Nella guerra che sopra, i Fiorentini, se non esclusivamente, eran pur sempre rimasti stretti con Francia; ed ora i vittoriosi di Francia posero alla repubblica una multa per quella fedeltà.»

Fosse grettezza di animo, fosse indignazione per quella taglia umiliante, i Fiorentini rifiutarono di pagarla. Ben vi era però chi l'avrebbe di buon grado pagata. I Medici le tante volte cacciati da Firenze, [p. 93 modifica]ove ai più era esosa la loro signoria, agognavano di tornarvi: e l'avean tentato più volte e in più guise, ma la repubblica erasi tenuta sempre sul niego, per mode rate che fossero le condizioni che proponevano. A Giuliano e al Cardinal Giovanni de'Medici (chè Piero già era morto) parve venuto il tempo di rientrare in casa, e patteggiarono con Raimondo da Cardona, vicerè di Napoli e capitano dell'esercito spagnuolo, che, se fossero rimessi in Firenze, pagherebbero essi la multa.

Fatto l'accordo, il viceré col Cardinale de'Medici in qualità di Legato di Giulio II, si moveva Ai Bologna, donde tolte alcune artiglierie € aggiunta al suo esercito la gente delle compagnie di Ramazzotto e dei Pepoli, scendeva a Barberino. Contuttociò il Cardona non conduceva seco gran forza di milizie: dugento uomini d'arme, cinquemila fanti e solo due cannoni. Tutto portava a credere che la spedizione fosse diretta immediatamente contro Firenze: ma o che credendola ben guarnita il viceré giudicasse poca la sua [p. 94 modifica]gente per assalirla, o che volesse infrattanto aspettare il resultato delle trattative che pendevano coi commissari della repubblica, o che finalmente la penuria di vettovaglia lo stringesse, da Barberino l'esercito prese a calar verso Prato. Prima che il Cadorna si movesse, parve che il Soderini Gonfaloniere di Firenze pensasse di fortificare e guardar Prato, prevedendo che là, prima che a Firenze, si volgerebbe il nemico; e al pratese Jacopo Modesti che era ricorso a lui per raccomandare la sua povera patria avea detto che non temesse, perchè come il campo degli Spagnuoli passerebbe Barberino, egli avrebbe messo in Prato diciottomila fanti con tutte le artiglierie ed esercito, «perchè la salute di Firenze era la guardia di Prato». Ma quest’uomo debole, che colla sua irresolutezza perdè sé e la repubblica, partendosi dal primo consiglio abbandonò Prato per salvar Firenze. Dico abbandonò Prato, perchè non vi spedi che forse quattromila fanti in tutto, gente «raccolta in fretta, da ogni arte od esercizi vili, e in tanto [p. 95 modifica]numero pochissimi esercitati alla guerra;» e per capitano Luca Savello, «vecchio condottiere, ma che né per l’età né per l’esperienza era pervenuto a grado alcuno di scienza militare.» Al Potestà della terra, che era a que’ giorni Batista di Braccio Guicciardini, furono aggiunti come commissari Bernardo degli Albizzi e Andrea Tedaldi persone di una stessa risma, e peggio, col capitano. Né punto migliori furono gli approvvisionamenti e gli apparecchi per le difese: artiglierie poche e di poca importanza; più scarsa ancora la munizione da trarre. Erano, è vero, stati inviati da Firenze bariglioni di polvere e di palle, ma furon dispersi per via da alcuni giovani della fazione medicea, che non era scarsa in Firenze; ed è questa la prima prova che nella sciagura toccata a Prato ebbe gran parte il tradimento.

Intanto il nemico che si avvicinava, era precorso da sì grande spavento, che prima tutto il Mugello e poi il contado di Prato presero a recare nella Terra le ricolte e le sostanze, stimando che vi [p. 96 modifica]sarebbero sicure, perchè gli Spagnuoli correvano e predavano per tutto. Ma gl’infelici andarono a mettersi da se in bocca al lupo: poichè l’esercito da Bar berino scendendo per la Val di Marina; assalita e presa in passando la villa di Panzano, si avvicinò a Prato.

Era la mattina dei 26 agosto 1512, quando alla porta fiorentina, in un’albereta che vi era presso, si presentò un trombetta con dodici cavalli, spacciatovi dal campo spagnuolo che erasi soffermato a Calenzano, e intimò, che se in termine di tre giorni non fossero aperte le porte all’esercito del vicerè e datagli in mano la terra, questa sarebbe stata posta a sacco. Fosse la speranza dell’aiuto promesso e aspettato da Firenze, fosse la lontananza dell’esercito che aggiunse animo alla guarnigione, fu risposto, all’ambasciatore con buone cannonate: e tosto cinquanta fanti si ordinarono entro le porte per uscire a scaramucciare coi cavalli del trombetta. Sennonché sopraggiunse il Potestà Guicciardini, e ordinato ai fanti di non muover [p. 97 modifica]passo, pena la forca, usci fuori della porta a parlamentare egli col trombetta: «il che non dette buona speranza al popolo.»

Di là a due giorni, cioè i 28 agosto, sulle prime ore del mattino, giunse l’esercito spagnuolo, e da prima pose il campo fuori della porta mercatale, e senza indugio prese a batterla con due falconetti. Non si stettero gli assaliti dal rispondere con buoni tiri di cannone, dei quali uno arrivò a s, Anna, ove era sopra un terrazzo il cardinale de Medici, e colse appresso di lui a tre braccia. Sperimentata inutile l’artiglieria fu posto fuoco alla porta, ed abbruciata; ma poiché, dietro a questa come alle altre, erano stati fatti dei bastioni in modo che restavano quasi murate; gli Spagnuoli si avvisarono di levar di colà l’alloggiamento e altrove trasportarlo, e così fecero nella notte. Scelsero allora quel tratto delle mura che è tra la porta del Serraglio e il convento di s. Agostino, perchè ivi un terrato o ripa addossata alla muraglia portava facilmente alla breccia che avrebbero potuto aprire [p. 98 modifica]coi falconetti. Con questi infatti incominciarono a batter le mura nel sito anzidetto; ma ai primi colpi uno dei falconetti essendosi rotto, supplirono collo spesseggiare tanto i tiri coll’altro, che pervennero ad aprire nelle mura una breccia di presso a dodici braccia. Vi salgono gli Spagnuoli e vi si affacciano, ma vedonsi ben alti da terra; né dentro vi era, come aveano supposto, la ripa, ma sì dirimpetto alla breccia un muro alto e lungo dell’orto del convento, lungo il quale erano stellate e distese le fanterie con le picche e gli archibusi, sicché facilmente potevan ferire e offendere quelli, che all’apertura si presentassero. Mutano allora disegno gli assalitori, e alcuni di essi dalla breccia salgono sulle mura e uccidono due dei fanti che vi erano a guardia. Bastò: que’ due morti tennero luogo di una disfatta, e furono il segnale di una vituperosa fuga per la guarnigione. La quale tutta e a tutte le porte ov’era distribuita, come vide il nemico sopra le mura, abbandonò senza più la difesa, e insiem col Savello e i [p. 99 modifica]Commissari cercò di scampo colla fuga. Ebbero agio allora gli assalitori di rizzar le scale alla breccia e alle mura, e di entrar nella terra (29 agosto).

Non vi fu più resistenza, e cominciò allora uno spettacolo dei più lacrimevoli. Gli Spagnuoli entrati nella Terra gri dando: «Ammazza, ammazza carne, carne,» presero a correrla, scannando quanti incontravano: non perdonarono ne a sesso nè ad età: trucidarono donne, uomini, grandi e piccoli, fino gl’infanti; i primi colpi davano sulla testa e così presto gli spacciavano: in un momento tutto fu pieno di grida, violenza, sacco, sangue, uccisioni. Non gli ritennero dall’eccidio le chiese, perchè quanti vi si erano rifugiati, specialmente nella Pieve, in s. Francesco e in s. Domenico furon fatti a pezzi. Dei monasteri, che erano molti allora, non andò salvo che quello di s. Vincenzio per un miracolo. Fu tanta la strage fatta dalle due pomeridiane, ora in cui entrarono le masnade, sino a sera, che mancò il suolo per seppellire i [p. 100 modifica]cadaveri, e fu forza la notte medesima gettarne, gran parte nei pozzi della città: in quello solo della Piève detto anche de’Guazzalotti, se ne gettarono circa mille dugento.

«Si può intendere, scrive in proposito il Pignotti, che una truppa che ha trovato gran resistenza, che ha veduto morir tanti compagni ed anela vendicarli, possa trascorrere in tali crudeltà; ma che soldati generosi si pongano, quasi a sangue freddo a tagliare a pezzi dei cittadini che non si difendono, appena si può concepire.» Eppure, mentre nessuno non potrà commiserare la sciagura dei Pratesi, a più di uno verrà alla mente il sospetto, che in essi fosse allora poco o nessun animo. Non si trova ricordo neppur di un tentativo di resistenza, ma si ch’ei si chiusero per le case e per le cantine. Resistenza senz’armi sarebbe stata vana è vero; ma che altro potevansi aspettar che la morte? Morti per morti: avrebbero potuto cader nobilmente invece di lasciarsi sgozzare come tanti capi d'armento.

Dopo essersi sbramate del sangue, le [p. 101 modifica]masnade si diedero al saccheggio che il vicerè aveva loro promesso prima di condurle all’assalto. Le sostanze dovevano esser molte in Prato, chi consideri lo stato di floridezza della nostra Terra a que’ giorni, e le raccolte e gli averi recati dai molti che vi si erano rifuggiti dalle vicine e lontane campagne. Si rifecero dalle chiese e monasteri, poi vennero alle case dei facoltosi e benestanti, ed è da credere, secondo le parole del Modesti, «che non rimase cosa preziosa nè sopra terra, nè sotto terra, d’oro d’argento o simile che non fosse manifestata e da loro tolta.»

Il valore delle robe perdute ascese a dugentomila ducati. Tra per l’istinto di ferocia che era in quella gente, e per la smania di estorcer confessioni di beni nascosti, inauditi furono i tormenti che diedero ai cittadini; e sebbene ne sien pieni i racconti contemporanei, l’animo rifugge dal riferirli parte a parte. Quali ne appiccarono al palco pe’ capelli, quali ne abbrostolirono o ne cossero nelle caldaie; ne batteron con verghe fino a farli morire, ne involsero in istoppa e vi poser [p. 102 modifica]fuoco. Aggiungendo poscia all’efferata barbarie scherni osceni, ne appesero alcuni capovolti e gli soffocaron col fumo, ad altri rasero la pianta de’ piedi, e questi con sale e aceto spalmati sopra a' carboni cossero. Le violenze e le brutture usate al sesso femminile, non sono da narrare, e argomentar si possono dalle enormità rammentate. Nel debol sesso per altro si parve il coraggio che nel virile era venuto meno, e ve ne furono esempi degni di Sparta e di Roma. Donne vi furono e coniugate e zittelle, che per salvar l'onestà, altre si lasciarono uccidere, altre si tolsero la vita. Fra queste sopra tutte è degna di onorevole memoria una donzella la quale alla perdita dell’onore antepose la morte. Le storie che ci serbano il nome di quel codardo, e forse più che codardo, traditore, che diè Prato in man de’nemici, han taciuto il nome di questa vergine eroica, e se ella fosse di alti o bassi natali: sebbene, qual danno da ciò? l'atto suo glorioso, meglio che la sua prosapia, la nobilita e in alto la leva, e ne raccomanda ai posteri la memoria. [p. 103 modifica]Racconta il Nardi come «era campata dalla morte una donna vecchia, la quale essendo stata presa nella propria casa, serviva ai comandamenti e servigi de’ vincitori. Costei in quel primo tumulto e furore avea nascoso una pulzella sua nipote in uno ripostiglio, e certo luogo segretissimo della casa sua, quali si sogliono alcuna volta edificare nelle private case per tali effetti; et in quello nascosamente la cibava per salvarla dall’insolenza de’ nemici insino alla partita di quelli. I quali non di meno essendosi accorti di ciò per alcune conietture et avendo ritrovato il luogo, ne trassero l’infelice fanciulla, la quale piangendo e piena di dolore era accarezzata e consolata dai detti soldati. Ma ella raccomandandosi, e dissimulando quanto più poteva la grandezza del dolore, accostatasi a poco a poco ad un balcone, di subito con un salto inaspettatamente si gettò a terra di quello: e così coll’acerbo rimedio della morte provvide alla conservazione della castità.»

Ecco uno de’ più pietosi episodi del [p. 104 modifica]miserando avvenimento, ma non certo il più lacrimevole, poiché gli storici narrano di donne che disperate si precipitarono nel fiume, di madri che per isfuggire ai tormenti, coi loro figli si gettarono nei pozzi.

É vero che il cardinal Giovanni il terzo giorno di questo eccidio, pose le sentinelle alla porta della chiesa maggiore, ove eransi riparate molte donne, per porger qualche difesa alla loro onestà; è vero che di ordine suo, molte furon tolte di mano alla brutal soldatesca, ma fu lieve rimedio a tanto male. «Egli testimone e cagione (noi crediamo involontaria) dell’orrendo strazio, tentò di assumere le parti di difensore del popolo. Da quella stessa residenza e in quella stessa chiesa, dove egli pacifico era entrato un giorno fra le pubbliche acclamazioni, udì miste alle grida ed ai fremiti de’ cittadini derubati ed uccisi, quelle dei feroci soldati, che da lui stesso erano stati condotti all’assalto; vide conculcato e straziato il pudore, la religione, l’umanità, e che ai cadaveri non bastavano le sepolture; conobbe che era impotente la voce e l'autorità sua ad [p. 105 modifica]abbreviare l’eccidio; ed inorridito e tremante corse a Firenze dove ne seppe il miserando compimento.»

Ventidue giorni si trattennero quelle masnade in Prato, e altrettanti può dirsi che durassero il saccheggio e la strage; perocchè dopo aver ucciso cinquemila seicento persone, rubato quanto vi avea di valore; quelli che dei miseri Pratesi sopravvissero furon fatti prigioni e poste sopra loro taglie inaudite (che in tutte ascesero a sessantamila ducati), e finchè queste non furon pagate, gli Spagnuoli fecer loro subire strazi e supplizi orrendi. Bastino per saggio quelli narrati da un cittadino che potea ben dire: Onorum pars magna fui. «Gli Spagnuoli vedendo che mio padre non venia colla taglia, ci messere legati ad un bastone per la gola, per le mani e per li piedi, e quivi stetti finchè si partiron da Prato.» Ad alcuni avvenne che dopo pagata la taglia, furon ripresi prigioni; e quando le masnade partirono, seco ne portaron via cinquecento, a cui trascinandoli per varie città d’Italia e per più mesi, fecer soffrire [p. 106 modifica]inauditi tormenti. Ma cessiamo da questa troppo lunga enumerazione di ferocie e brutalità, e concludiamo colla testimonianza di storici contemporanei: fra questi il Giovio lasciò scritto, che «nel sacco di Prato la crudeltà degli Spagnuoli avanzò quella dei tedeschi e dei Francesi al sacco di Brescia» e il Bonaccorsi lo chiama «cosa veramente orrenda e delle più crudeli che da molti tempi in qua sia seguita in paese alcuno del mondo di cui si abbia notizia.»

Che fosse questo per fermo un colpo a mezza vita per Prato facile e il comprenderlo, e lo comprova la popolazione, che ascendendo prima di quell’infortunio a dodici mila abitanti, dopo di esso diminuì della metà e andò anche dipoi scemando; lo conferma la miseria che durò poi tanti anni, e la perdita dei beni immobili che ai Pratesi fu forza vendere per pagar le taglie, e che non hanno mai potuto racquistare.