Noi arditi/La culla degli Arditi
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La culla degli Arditi.
Io li vidi dunque per la prima volta una notte del settembre 1917, sul San Gabriele. Fiamme al bavero, giubba aperta, maglione con teschio, tascone pieno di petardi, un pugnaletto affilato, un piccolo corpo muscoloso di belva, due occhi neri e decisi, poche parole.
A noi che giacevamo mezzo abbrutiti in fondo a una tana di fango e sassi, in una posizione dominata dove non si poteva lavorare di gravina senza attirarsi tempeste di fuoco, quello stuolo di demonii scatenati, fieri ed intrepidi, che venivano ad assaltare il truce nemico nei suoi insidiosi rifugi-labirinti, fece l’effetto di una ventata di liberazione; poi che difatti era il nostro affrancamento spirituale che noi vedevamo in costoro, era il ritrovamento di noi stessi e delle nostre virtù più profonde: era l’espressione del nostro stile più sincero, il realizzarsi delle nostre aspirazioni più prepotenti.
Il loro assalto fu breve, improvviso, silenzioso, velocissimo. Senza fuoco d’artiglieria, senza allarmi, dopo un rapido scambio di ordini a bassa voce, come un gruppo di congiurati densi di distruzione, ognuno mosse alla sua mèta; strisciò, balzò, colpì con una fulmineità che non fece udire neppure il gemito delle vittime. Poi, nel mattino pallidissimo, insonne, febbrile, davanti alle caverne del « Fortino » in cui era annidata una resistenza infernale, guizzarono i mostruosi lanciafiamme, perfidi serpenti incandescenti che raggiungevano il nemico nei suoi recessi e gl’impedivano di usare le sue armi.
L’azione degli Arditi aveva del miracoloso, per la precisione, il silenzio, la sicurezza con cui era condotta. Non uno restava indietro. Il comandante (sempre un bel tipo di scavezzacollo) in testa, poteva avanzare tranquillo, perchè i suoi uomini lo seguivano tutti, con una meccanica infallibile in cui a ognuno era assegnato il suo piccolo settore di lotta, il suo austriaco da colpire.
E l’azione riusciva sempre, alla perfezione. Ma gli Arditi hanno avuto dei precursori. S’intende che non voglio rifarmi nè ai Veliti romani, truppe leggiere d’assalto, nè alla Compagnia della Morte della battaglia di Legnano, contro la quale l’aquila dei Barbarossa spuntò i suoi artigli di grottesco animale nordico. No. È roba troppo lontana, troppo diversa da noi.
In questa stessa guerra, un anno prima che fossero create le Fiamme, un ufficiale di spirito garibaldino, di grande fegato e fascino personale, e di profondo fiuto psicologico, il capitano Baseggio, mentre il nemico nella primavera del 1916 scendeva baldanzosamente di monte in monte verso la pianura maliosa del vicentino, mentre i nostri reggimenti accorrevano a ricacciarlo e cozzavano disperatamente contro la marea straripante, pensò di organizzare un’azione staccata di volontari coi quali pungere, irritare senza tregua i fianchi dell’invasore, e raccolse per questa specie di guerriglia una banda varia e pittoresca di uomini di ogni arma ed età, a cui fu dato il nome di « Compagnia Esploratori della Morte ».
Poca disciplina formale, nessuna burocrazia, un’approssimativa gerarchia. Una squadra di sottufficiali poteva essere comandata da un soldato, il più ardito ed astuto. La compagine della banda era saldata unicamente dal fascino personale del Comandante, e l’onore individuale, l’orgoglio del successo, la sete di gloria, e sopratutto l’amor di patria, tenevano il posto del senso del dovere. Era in quegli uomini, oltre a uno sfrenato bisogno di libertà, un enorme disprezzo per il nemico e per la propria vita, un bisogno di battersi volontariamente, senza costrizioni, senza sanzioni: l'unico premio a cui aspirassero era il «bravo!» del loro Baseggio, e, se scampavano, tre giorni di permesso per andare a bere un litro di valpolicella al focolare di qualche bella tosa, giù in retrovia. Ma al nuovo appuntamento nessuno mancava.
Sapevano che non si sarebbe fatto nessun appello, che non si sarebbe denunciato a nessun tribunale di guerra il mancante: eppure nessuno mancava.
— Pronti, capitano! Dove andiamo?
Come tutto questo è italiano!
E gli austriaci impararono a mente il nome del leggendario capitano, e quando lo udivano gridare da trincea a trincea, fremevano e fuggivano, essi, i disciplinatissimi soldati di un Impero di ferro! Intanto, volendosi premiare e distinguere dalla massa i più valorosi, quelli che affrontavano tutte le pattuglie e le piccole azioni di sorpresa, ogni reggimento, che aveva già le sue squadre di «Esploratori» e «Tagliafili», istituì dei Nuclei di soldati che per essersi distinti in fatti di guerra vennero battezzati «Arditi» e a cui venne dato un contrassegno da portare sulla manica della giubba: un «V» ed un «E» intrecciati e sottolineati dal nodo di Savoia.
Fu questo il primo passo timido verso l’inevitabile rivoluzione cui tendeva il nostro organismo militare.
Esso tendeva sopratutto a separare nettamente la massa combattente in due categorie: quelli che avevano più attitudine per l’attacco; e quelli che meglio si adattavano alla resistenza. Da una parte i più giovani, gli spensierati, gli scapigliati, gli spregiudicati, gli irrequieti, i violenti, gli scontenti, i superatori, i passionali, i frenetici e gli sfrenati, i ginnasti e gli sportmen, i mistici e gli sfottitori, gli avanguardisti di ogni campo della vita, i futuristi di cervello o di cuore o di muscoli. Dall’altra gli anziani, i padri di famiglia, i lenti, i pesanti, i passivi, gli sfiduciati, i pigri, magari in gran parte buoni soldati, ma più adatti all’obbedienza che all’iniziativa, più fermi al loro posto che impazienti di scattare, ottimi puntelli per le trincee, ma poco idonei allo sbalzo in avanti. I primi venivano in generale dalle città, gli altri più specialmente dalle campagne.
Gli Arditi dei reggimenti furono dunque istituiti con un criterio di distribuzione nelle fatiche della guerra. Essi infatti non montavano di vedetta in trincea, ma restavano di riserva presso il Comando di Battaglione o di Reggimento, avevano un soprassoldo speciale, un rancio migliore ed erano impiegati per le pattuglie e per la cattura dei posti avanzati nemici. Non erano vere e proprie truppe di assalto. Ma questo strano e suggestivo nome di « Arditi » si era già diffuso in tutto l’esercito, dando improvvisamente il senso che si fosse scoperto un nuovo tipo di soldato, le cui prerogative morali suggerivano il suo stesso nome. Per la prima volta in un esercito si battezzava un corpo non in base ai suoi mezzi e modi speciali di offesa (granatieri, bersaglieri, bombardieri, ecc.), ma in base al singolare valore dei suoi elementi. Per la prima volta il coraggio, veniva a sostituirsi al cimiero, la fiamma d’amore prendeva il posto delle mostrine, la personalità umana aveva l’onore di un titolo ufficiale.
La costituzione definitiva dei Reparti d’Assalto è dovuta alla audace e moderna genialità di un generale, che oltre ad un raro uomo di guerra, era uno psicologo acuto, e un cervello agilmente arricchito d’idee generali: Luigi Capello.
Fu lui che intuì il ruolo specialissimo che si sarebbe potuto assegnare a queste truppe leggermente irregolari, la funzione decisiva che sarebbe stata affidata a della gente non abbrutita da lunghi turni di trincea, lanciata fresca e « in forma » nella battaglia.
Il generale Capello, allora comandante della 2ª Armata, di quella magnifica Armata che si coprì di gloria sulla Bainsizza, sul Santo e sul S. Gabriele (gloria che nessun Caporetto potrà mai cancellare) e alla quale mi vanto di avere appartenuto, il generale Capello creò nella primavera del 1917 i primi due Reparti d’Assalto, con elementi giunti da reggimenti varii.
La loro prima sede fu a Subida, nei dintorni di Cormons, e il generale ne affidò la costituzione al generale Grazioli, allora comandante di Divisione, che un anno dopo doveva diventare Comandante del Corpo d’Armata d’Assalto sul Piave.
Il comando dei due Battaglioni fu assunto dal colonnello Bassi, che divenne poi famosissimo fra gli Arditi per la sua spiccata personalità di soldato e di capo.
Non esito a dire che, dopo, ben pochi hanno compreso l'importanza, l’alta significazione e il carattere vero degli Arditi, come lo compresero il generale Capello e il colonnello Bassi: l’ideatore e il primo addestratore del nostro gloriosissimo Corpo.
Nel minuscolo campo di Subida ebbe principio quell'istruzione «all’ardita», che fu poi adottata da tutti i Reparti d’Assalto, e che destò la meraviglia e l’ammirazione di quanti vi assisterono: a cominciare dal Re d’Italia, dal generale Cadorna e dalle missioni militari estere.
Dopo l'azione del maggio, i Reparti d’Assalto divennero sei (di mille uomini ciascuno), e, il campo di Subida non essendo più sufficiente a contenerli, si trasferirono a Sdricca di Manzano, sul Natisone.
Le loro esercitazioni avevano sopra tutto il carattere di ginnastica di guerra. Li addestrava un ginnasta di vedute pratiche e moderne, il capitano Racchi. Egli aveva trovato varii modi ingegnosi di preparare il soldato al combattimento evitandogli la noia delle lunghe istruzioni teoriche. Aveva popolarizzato certe forme di giu-itsu che meglio si adattavano al tipo di guerra degli Arditi. Li esercitava al corpo a corpo, così: un soldato teneva un fucile orizzontale, stretto nei due pugni; un altro doveva cercare di strapparglielo di mano. La lotta si accendeva rabbiosa, quando, all’Alt! dell’istruttore, essi dovevano fermarsi di scatto e restare sull’attenti. Violenza disciplinata.
La scherma di pugnale fu pure iniziata allora. Ogni uomo aveva davanti a sè un corpo qualunque da colpire: una balla di paglia o un sacco di stracci in piedi. Contro questo bersaglio esso si scagliava col suo pugnale, e a volte la foga e l’ardore erano tali che l’uomo aveva gli occhi iniettati di sangue e finiva per considerare davvero come un nemico il malcapitato bersaglio.
Una scuola di coraggio curiosissima, che ricorda la leggenda di Guglielmo Tell, consisteva nel mettere un soldato immobile sull’attenti, e nel fargli sfiorare il capo da una specie di pendolo formato da una grossa palla di piombo, che veniva lanciata dall’istruttore e che gli portava via il berretto. Colui che, vedendosi scaraventare contro la fronte quella massa metallica minacciosa, riusciva a non muoversi o piegarsi, mostrava di avere un fegato indiscutibile.
Anche il salto in corsa era fatto con criterio di applicazione bellica. Non si saltava la fune tesa o il fossetto di mezzo metro, bensì un ostacolo di reticolati aggrovigliati.
L’istruzione per l’assalto, che fu poi messa in voga presso tutti i Reparti, era delle più pericolose e interessanti: una vera scuola di coraggio.
Si trattava di prendere d’assalto una collina tipo, fortificata a difesa, con reticolati, trincee caverne, camminamenti, nidi di mitragliatrici. Alle spalle degli Arditi erano postate delle mitragliatrici e dei cannoncini. Questi battevano col loro tiro il primo ordine di trincee, contro il quale si scagliavano gli Arditi facendo un primo lancio di petardi. Non appena l’ondata d’assalto era per giungere su questa linea, gli artiglieri e i mitraglieri allungavano il tiro, e battevano la seconda. Gli Arditi, dopo una sosta brevissima, riprendevano la corsa sotto l’arco della traiettoria. E così per due o tre volte ancora.
L’istruzione era pericolosa, non lo nego, ma fucinava gli eroi: la finta battaglia differiva così poco dalla vera, c’era tanta affinità di emozione e di rischio, che, quando ci si trovava in presenza dell’austriaco, quasi non ci si accorgeva di questa presenza.
C’erano anche dei feriti, nell’istruzione, e talvolta dei morti. Ma questo avveniva più per eccesso di ardimento nei soldati che per imperfezione dell’esercizio. D’altra parte nessuno s’impressionava di questi incidenti, che erano quasi a «di stile» e previsti.
Alle istruzioni del campo di Sdricca venivano ad assistere truppe di tutte le armi, ufficiali di altre armate, e ufficiali alleati. L’ammirazione era concorde in tutti. Il colonnello Pavone, comandante gli Arditi della 3ª Armata, venne più volte a Sdricca e si giovò moltissimo di quel modello.
Nell’azione di agosto sul Santo e la Bainsizza, i Reparti d’Assalto vennero impiegati per la prima volta largamente. La caratteristica che li distinse subito fu la violenza dell’attacco, nella quale essi trovavano un elemento di difesa personale.
Gli ufficiali austro-ungarici, fatti prigionieri in quell’azione, fecero grandi elogi spontanei degli Arditi, che essi qualificavano «diabolici» (Teufelmenschen): «arrivano ovunque strisciando quando meno si aspettano e di dove nessuno crederebbe vederli spuntare: pugnale tra i denti — bombe alle mani — occhio sfavillante — ordine perentorio di alzar le mani». (Bollettino n. 2184 del 29 agosto 1917 del Comando 2ª Armata).
Fra l’offensiva della Bainsizza e Caporetto gli Arditi continuarono il loro addestramento a Sdricca, di dove venivano staccate di tanto in tanto delle compagnie e lanciate sul Kal o sul S. Gabriele a completare o a rettificare qualche recente conquista. Le azioni di q. 800, di q. 814 e del Fortino, delle quali io fui spettatore impaziente, tutte splendidissime di velocità e di successo schiacciante, attestano quanto spirito offensivo fosse a quel tempo in certe nostre truppe non logorate dal martirio della trincea.
Gli Arditi della 2ª Armata — proprio di quella 2ª Armata che a torto si è tentato infamare — partivano ogni volta per l’azione, non colla calma rassegnata di chi compie un dovere, non col sorriso forzato di chi vuole imporsi un contegno, ma con esplosioni di gioia barbarica che spargevano odore di orgia carnevalesca anzi che di battaglia imminente. Era uno scatenamento di musiche, di canti, di danze semi-negre, con copioso intervento di putipù, scetavaiasse e triccaballacche, la cui eco, se fosse giunta fino alle nostre trincee puzzolenti, ci avrebbe forse fatto credere che, dietro a noi, « gli imboscati » si divertivano.
E si divertivamo, di fatti, le generose Fiamme. Ogni volta che venivano chiamate al fuoco, esse empivano di giovinezza e di entusiasmo tutta la vallata che li conteneva a fatica. Partivano in camion, tra nugoli di polvere e di esultanza, salutando i compagni e giurando, sulla punta del pugnale, di vincere.
E vincevano sempre. Non una volta tornarono usi. Non una volta l’ombra dell’insuccesso si stese sulle loro fronti orgogliose di diavoli neri. Qualcuno restava lassù, si capisce, ma erano pochi, e ben vendicati. Per un Ardito morto, almeno venti austriaci dovevano pagare.
E prigionieri mai, nè da una parte nè dall’altra. Lasciarsi prendere da quei cani? Voleva dire vergogna e morte fra i tormenti. Meglio sottrarsi alla prigionia con una buona pugnalata nel ventre. E d’altronde, prenderne qualcuno e portarlo giù? Una zavorra inutile, costosa e pericolosa. Zà! Zà! e non se ne parlava più.
In mezzo a tanto eroismo, a tanto entusiasmo, a tanto orgoglio nazionale, come si poteva fiutare il vento del disastro? Laggiù nessun indizio, nessun presentimento, nessun allarme era possibile. Solo, un giorno, un grido isolato si fece udire in quell’atmosfera di baldanzoso coraggio. Dopo un’istruzione alla quale avevano assistito da spettatrici alcune compagnie di alpini, nel frastuono degli evviva di tutti i colori che gli Arditi lanciavano nel chiaro cielo di settembre, un alpino gridò, o meglio biascicò: — Evviva la pace, Dio boja!
Era un sintomo? una parola d’ordine? un grido dell’anima? uno strascico dell'Enciclica papale? Certo gli Arditi non lo raccolsero, non o compresero, essi che avevano l’anima sostanziata di battaglie e di patriottismo.
Essi, che assistettero al dilagare dell’invasione nemica fremendo di rabbia e di dolore, se fosse stato concesso di lanciarli al momento opportuno in controffensiva sul fianco del nemico insieme ad altre valorose brigate, avrebbero forse capovolto Caporetto.