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vallata che li conteneva a fatica. Partivano in camion, tra nugoli di polvere e di esultanza, salutando i compagni e giurando, sulla punta del pugnale, di vincere.

E vincevano sempre. Non una volta tornarono usi. Non una volta l’ombra dell’insuccesso si stese sulle loro fronti orgogliose di diavoli neri. Qualcuno restava lassù, si capisce, ma erano pochi, e ben vendicati. Per un Ardito morto, almeno venti austriaci dovevano pagare.

E prigionieri mai, nè da una parte nè dall’altra. Lasciarsi prendere da quei cani? Voleva dire vergogna e morte fra i tormenti. Meglio sottrarsi alla prigionia con una buona pugnalata nel ventre. E d’altronde, prenderne qualcuno e portarlo giù? Una zavorra inutile, costosa e pericolosa. Zà! Zà! e non se ne parlava più.

In mezzo a tanto eroismo, a tanto entusiasmo, a tanto orgoglio nazionale, come si poteva fiutare il vento del disastro? Laggiù nessun indizio, nessun presentimento, nessun allarme era possibile. Solo, un giorno, un grido isolato si fece udire in quell’atmosfera di baldanzoso coraggio. Dopo un’istruzione alla quale avevano assistito da spettatrici alcune compagnie di alpini, nel frastuono degli evviva di tutti i colori che gli Arditi lanciavano nel chiaro cielo di settembre, un


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