Noi arditi/Un nome e una divisa al coraggio

Un nome e una divisa al coraggio

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Un nome e una divisa al coraggio
Noi arditi La culla degli Arditi
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Un nome e una divisa al coraggio.


Quando un popolo s’è ingaggiato in una lotta che dovrà essere decisiva per la sua esistenza, non può sperare il successo se non saprà trovare, per questa lotta, una formula o una bandiera con cui esprimere in modo totale il genio inimitabile della razza.

Ogni popolo fa la guerra come sa e come può. Ma sarebbe inesorabilmente condannato alla disfatta quello che volesse falsare le proprie caratteristiche fondamentali, che deformasse la propria mentalità e il proprio istinto cercando di stereotiparsi in formule e in bandiere che non gli appartengono.

La grande guerra or ora finita, come ha gettato nel crogiuolo gli odii e le antipatie delle stirpi, così ha voluto che queste stirpi trovassero, per cozzare, i loro modi e le loro risorse particolari.

Dapprincipio parve che il germanesimo, che si [p. 4 modifica]rovesciava compatto, plumbeo, pesante e tenebroso, come un inverno senza fine, sulla latinità, dovesse imporre anche a noi il suo stile guerriero: il collettivismo senza rilievo, l’annegamento della personalità, il sacrificio feroce senza gloria, l’azione delle masse avvolte in una tetraggine cupa e infinita.

Poichè si credeva al pregiudizio di dover combattere ad armi uguali e a stile uguale, ogni esercito dell’Intesa cercò di uniformarsi a questo tipo di guerra, cercò di creare un esercito alla tedesca, immenso, compatto, pachidermico, buio.

Ma la nostra razza non poteva adattarsi a questo forzamento, e non vi si adattò. Era troppo stridente il contrasto fra il nostro carattere aggressivo, impulsivo, individualista, sensibile, ribelle, e il tipo di disciplina nordica che ci era imposto. Volevamo compiere con gioia qualunque sacrificio per la nostra Italia, ai cui piedi deponemmo generosamente le nostre giovinezze orgogliose, ma non volevamo che questo sacrificio fosse oscuro, inutile, perduto nell’immensità dello sforzo; non volevamo essere spinti alla morte: volevamo correrci da noi, con la nostra anima di sognatori e col nostro cuore appassionato: volevamo aver l'aria di donare ciò che ci si chiedeva, e di mettere nel dono tutti gli [p. 5 modifica]atteggiamenti più tipici della nostra natura rovente di meridionali.

Facemmo per due anni e mezzo la guerra alla tedesca, ci macerammo nelle trincee, ci bucammo le carni nei reticolati, ci lasciammo automizzare in atti quotidiani monotoni, ripetuti all’infinito. Ci rassegnammo a perdere il ricordo della nostra personalità. Così voleva la Patria: bisognava inchinarsi. Fummo miracolosamente disciplinati e obbedienti. Ma lo sforzo che ci costava questa costrizione, la deformazione che essa operava sul nostro carattere fondamentale, che non poteva, no, smarrirsi, ma solo soffocare in silenzio, dovevano inevitabilmente reagire. Tutte le nostre vere forze compresse, martoriate, dal fondo dei nostri individui gridavano la loro angoscia, invocavano la liberazione.

Se si fosse udito prima questo grido di spasimo, se si fosse corso subito ai ripari, si sarebbe evitata la disavventura di Caporetto non solo, ma si sarebbe vinta la guerra, forse, un anno prima. La più grave colpa che gli uomini possano rinfacciarsi è quella di non capirsi a vicenda. L’assenza di acume psicologico, cioè d’intelligenza dei valori umani, è sempre la causa prima di tutti i drammi: in guerra conduce al disastro.

E noi non ci eravamo capiti. La gioventù [p. 6 modifica]d’Italia è stata scaraventata nelle trincee senza che alcuno pensasse a valorizzare le sue qualità più precipue, il suo carattere sfrenato e temerario, a portare alla superficie il suo fondo allegro e sano, a scoprire e a sfruttare le sue possibilità acrobatiche, le sue iniziative avventuresche e rompicolliste. Di essa si era formata un’enorme moltitudine grigia, uniforme, dolorosa, da cui scaturivano qua e là fiamme e scintille anonime che meravigliavano il mondo. Ma erano anonime; qui stava il male. Perchè non dar loro un nome?

L’anima italiana gemeva incatenata in questa sua condanna di creare lampi di bellezza stupenda, senza che alcuno potesse trovarne la fonte e consacrarla alla gloria. Si tendeva al collettivismo germanico. Gravissimo errore! Quante volte, in presenza di un fatto stupefacente, compiuto da uno dei nostri, da un umile fante, numero perduto nella totalità, si esclamava:

— Ma questo supera in ardimento e in bellezza qualunque eroe antico! Costui dovrebbe uscire dai ranghi, essere un capo, una luce!

Ma chi ne parlava? Chi sapeva di lui? Chi [p. 7 modifica]pensava a dargli il posto dovuto? La sua gloria, ahimè, non varcava i margini della Compagnia, talvolta del Battaglione: o era sanzionata ufficialmente in dieci righe sul Bollettino delle ricompense; e non se ne discorreva più.

Quante volte, sui monti del nostro martirio, marciando in fila indiana per le mulattiere favolose, curvi sotto il peso di un cavallo di frisia o di un graticcio, stanchi, sudati, laceri e sporchi, coi chiodi delle scarpe che penetravano nelle carni e le scarpe che affondavano nel fango, quante volte noi avremmo gettato volontieri il nostro carico per correre incontro a un pericolo, agili, nudi, scapigliati, una lama tra i denti e una bomba nel pugno?

Quante volte, nei periodi del così detto « riposo » nelle retrovie, spossati e inebetiti da una lunga marcia con zaino affardellato, giberne, lucile e tascapane, sospiravamo un incontro col nemico, un allarme che ci galvanizzasse, un odore di lotta che ci permettesse di disfarci del fardello gravissimo che affratellava le nostre spalle e quelle dei muli?

Le fiamme, io le vidi la prima volta alla Sella di Dol, sul S. Gabriele, una notte del settembre 1917.

Fino a quel momento se ne aveva una vaga [p. 8 modifica]nozione, filtrata attraverso le file dei fanti come una leggenda bella e misteriosa, di un fascino soprannaturale. Ma nessuno dei fanti si era mai stupito di questo fenomeno prodigioso che era uscito dalla loro stessa compagine, come un volo di aquilotti che hanno abbandonato la roccia statica e grave. In fondo ognuno sentiva in sè la possibilità di divenire, in certe determinate condizioni, un Ardito. Avreste dovuto vedere certi anziani che nei momenti normali marciavano in coda alla compagnia ed erano seminati lungo il tragitto e in trincea si gettavano nel loro buco senza muoversi per intere giornate, avreste dovuto vederli come scattavano non appena qualcuno dei giovanissimi (97 o 98) li pungeva con un motto, uno scherno, un’ironia! Scattavano, e afferravano il fucile, e lo agitavano come una clava, e investivano chi capitava a portata di mano gridandogli sul muso:

— Sono più forte e più ardito di te, cappellone! se voglio.

In quel «se voglio» era la chiave della loro psicologia.

Se voglio, voleva dire: « Toglimi lo zaino, un briciolo di disciplina (soltanto un briciolo), non stancarmi con marcie troppo lunghe, non lasciarmi troppo tempo in trincea, nutrirai [p. 9 modifica]meglio, dammi qualche soldo di più, dammi un distintivo che dica a tutti che sono bravo, lodami davanti ai compagni, attribuiscimi della responsabilità e un po d’orgoglio: e vedrai che nessun austriaco mi farà paura, vedrai che non rifiuterò nessuna pattuglia, nessuna incursione, nessuna avanzata. Fammi essere italiano, e io sarò Ardito ».

Questo pensavano e sentivano i nostri soldati: non soltanto i pochi che accorsero a costituire i primi Battaglioni d’Assalto, ma tutti, o quasi tutti, giovani o anziani, veterani della guerra o matricole appena iniziate al fuoco. Anche quelli che poi non si decisero a lasciare il loro vecchio reggimento.

Volete saperlo? Al nostro soldato il fuoco non ha mai fatto paura. La frase « andare al fronte », così tenebrosa e minacciosa, non conteneva tanto l'incubo della morte, del sangue, del fuoco e del pericolo, quanto l’incubo delle fatiche infernali, dei patimenti indescrivibili, delle stanchezze mortali, della rete inestricabile di mali e di pene che attendevano lassù.

Si era pronti a dare dieci volte di più la propria vita, pur di darla meglio, pur di essere sè stessi, pur di poter lottare con agilità e libertà, italianamente. [p. 10 modifica]All’Italia mancava appunto la formula concreta per canalizzare la bellezza e la superiore temerarietà delle sue eroiche giovinezze, sparse dovunque e non rivelate. Mancava un nome e una divisa al coraggio. Bisognava raccogliere e rendere riconoscibili con un distintivo queste centomila potenze nascoste, che soffocavano nella giubba chiusa. Si è spalancata la giubba, si è aperto il cuore di questi valorosi. La gioventù d’Italia ha avuto un immenso sorriso di gioia. Gli occhi hanno lampeggiato di possibilità eccezionali, le mani hanno cercato un pugnale.

Ed è balzato fuori, sintesi miracolosa della nostra razza, l’Ardito.

L’Ardito, il futurista della guerra, l’avanguardia scapigliata e pronta a tutto, alleggerita, agilizzata, sfrenata, la forza gaia dei vent’anni che scaglia le bombe fischiettando i ricordi del Varietà. Si era finalmente trovato il tipo di soldato nostro, assolutamente nostro, diverso dal bersagliere, dall’alpino, dallo zuavo francese, dal pattugliere tedesco, dall’assaltatore austriaco, e adatto alle imprese più inverosimili, alle audacie più incredibili, alle avventure individuali che toccavano il fantastico e il leggendario.

Si era finalmente saputo riconoscere e sfrenare il carattere essenziale del nostro popolo: