Nel deserto/Parte III/Capitolo I
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I.
Una sera, in autunno, Piero Guidi ritornò. La sua missione era durata quasi un anno. Lia aveva preparato con cura la camera e messo un mazzo di crisantemi gialli sullo scrittoio del salotto: al cader della sera mise a letto i bambini, preoccupati per il ritorno di «quel signore».
— Sarà cresciuto? — domandò Nino, saltellando sul letto. — Sarà più alto, adesso, come quell’uscio?...
Salvador rise, con superiorità, beffandosi del fratellino: ma la mamma non lo rimproverò, preoccupata anche lei, anche lei certa di rivedere un Piero Guidi più alto di quello che aveva conosciuto un anno prima.
Con la speranza che egli arrivasse col treno di Napoli delle otto e un quarto, intanto che i bambini s’addormentavano si affacciò alla finestra per aspettarlo. Era una sera d’ottobre, dolce e chiara: la luna illuminava gli avanzi degli orti intorno ai nuovi villini, e i mucchi di pietre e di legnami, le canne e gli alberi, umidi di rugiada, scintillavano e davano ancora al luogo un’aria campestre. L’odore dell’autunno inondava l’aria quieta; due amanti, all’ombra del muro di fronte a Lia, parlavano sottovoce, abbracciati come in un luogo solitario.
Ella li guardava e sentiva crescere il suo turbamento: si sdegnava per la serena noncuranza della coppia amorosa, ma non poteva vincere un senso d’invidia.
Altre coppie passavano, strette e silenziose: la donna ancora vestita di chiaro, l’uomo quasi sempre più alto di lei, paziente e protettore: erano coppie di buoni borghesi, che se ne andavano a spasso dopo il modesto pasto della sera; ma nel chiarore lunare, così limpido che vinceva quello dei fanali, parevano tutti amanti, o giovani sposi ancora innamorati.
E Lia si sentiva sola, nonostante la vicinanza dei bimbi addormentati, lontani quindi, smarriti nel mondo dei sogni. Come non pensare all’uomo che doveva arrivare, che forse pensava a lei, solo anche lui in mezzo alla moltitudine, come egli le aveva scritto più di una volta, e che doveva esser davvero solo se si rivolgeva a lei, quasi domandandole soccorso, a lei povera, umile, smarrita nella vita come in mezzo a una solitudine sconfinata?
Passarono le otto e mezza, le nove, le nove e mezza ed egli non arrivò: allora Lia si ritirò dalla finestra, certa ch’egli sarebbe arrivato col direttissimo delle undici e quaranta, e per non perder tempo si mise a lavorare. Ultimamente aveva comprato una macchina da scrivere e riusciva a guadagnare due e tre lire al giorno.
Dalle finestre aperte sul cortile arrivava un acciottolìo di piatti, un rumore d’acqua cadente sui lavandini: voci e cantilene di serve giovani vibravano nell’aria quieta e ricordavano a Lia i primi tempi del suo arrivo, i canti e i gridi di Costantina: ma a poco a poco i rumori intorno si spensero, e solo il lieve mormorìo della fontana del cortile continuò il suo lamento nella notte sempre più fresca e odorosa.
Ma nel salottino grigio, tutto riempito dell’ombra di Lia, il battito della macchina da scrivere palpitava monotono e come stanco. Lia copiava la traduzione di un dramma, una storia d’amore, leggera e ardente, convenzionale e vera nello stesso tempo: un soffio di peccato e di poesia faceva muovere i personaggi come foglie d’autunno, e suggeriva loro le frasi più ardenti e puerili che tutti gli amanti conoscono.
Lia aveva letto mille volte, sotto mille forme, quelle frasi sempre eguali e sempre scintillanti, come le lagrime e come le stelle; e di nuovo, sebbene se ne irritasse come davanti alla coppia all’ombra del muro, si sentiva assalita da un turbamento insolito. Le pareva d’essere ancora fanciulla: seduta davanti al tavolino preistorico della sua cameretta nuda, copiava, per un piacere puramente sensuale, qualche pagina del «Muto di Gallura». L’assiuolo della landa ripeteva il suo richiamo desolato, e il chiarore della luna come rendeva più bello e misterioso il paesaggio, rendeva più intenso e in pari tempo più indefinito il desiderio di Lia verso la vita e verso l’amore. Ella non sapeva cosa voleva — allora; — e anche adesso non sapeva cosa voleva: ma la sofferenza era la stessa.
La stanchezza e il sonno vinsero a poco a poco la sua inquietudine. L’ora passava, lo stesso picchiettìo monotono della macchina calmò i suoi nervi; ma a un tratto, mentre le dita continuavano a muoversi automaticamente, la fantasia cominciò a lavorare per conto proprio, come liberatasi dalla volontà assopita di lei.
È una specie di sogno. Il desiderio indistinto prende forma: dapprima è una colonna di nebbia, con due punti scintillanti, poi un fantasma dagli occhi vivi, infine la figura di un uomo dallo sguardo che sembra quello di un egoista ed è invece lo sguardo di un’anima che soffre. Lia lo sa: il dolore dà agli occhi un’espressione che spesso inganna.
Ecco, egli arriva, egli sale le scale, egli entra: è completamente mutato: è cresciuto, come dice Nino; il suo viso fine e quasi femineo ha preso un’espressione virile: la bocca è meno fresca, come un frutto troppo maturo: i denti sembrano appannati, i baffi più folti e più scuri. E la fossetta del mento è più profonda, come attratta dal labbro inferiore che si sporge con un po’ di disgusto. Un po’ di disgusto sta così bene al viso dell’uomo innamorato: disgusto per tutto ciò che non sia la donna amata....
Quest’aria, che d’altronde Lia ricorda perchè l’ha notata sovente sul viso dell’estraneo, adesso la commuove, l’attira più che lo sguardo carezzevole di lui, — lo stesso sguardo pieno d’invito e di promesse che egli le ha rivolto un giorno, in riva al mare.
Egli entra, lieve, silenzioso, e le porge le mani. Lia esita: una mano sola, va bene; ma tutte e due.... è pericoloso. Perchè pericoloso? si domanda subito con fierezza. Non si possono dare le mani ad un amico? Ella considera tale l’uomo che dapprima le è parso un estraneo e poi un nemico. Se adesso non lo stimasse come un amico non lo riceverebbe più in casa, non lo aspetterebbe a quell’ora tarda della notte. Ecco dunque le mani, signor Guidi: come va? Ha fatto buon viaggio? È stanco? Perchè questo ritardo? Vuol prendere qualche cosa?
Ma mentre Lia pronunzia sottovoce e quasi tremando queste parole comuni, egli le stringe le mani, e piano piano le mani si scaldano, bruciano, come se il contatto delle pelle sviluppi un calore ardente, sempre più ardente; e Lia parla, parla, come una donnicciuola qualunque, ma ha paura, quasi terrore del silenzio di lui, degli occhi che riprendono lo sguardo d’invito, delle mani che stringono e attirano come morse infuocate, e sopratutto del labbro che perde la sua piega di disgusto e si solleva gonfio e vellutato come un petalo di rosa....
A un tratto anche lei tace e cerca di divincolarsi: ma non può, è debole: le ginocchia le si piegano, la testa si curva: il desiderio di abbandonarsi fra le braccia di lui, di appoggiargli il viso sul petto e di addormentarsi la vince....
Ma all’improvviso il rumore stridente d’un cristallo che cadde da una finestra chiusa con violenza, riempì di echi e di lamenti il silenzio del cortile. Lia trasalì e balzò in piedi.
Il ricordo della scena disgustosa nello studio del pittore le diede un brivido nervoso: la sua forza e la sua volontà si ridestarono, ed ebbe vergogna delle sue fantasticherie. I sogni dunque la riprendevano, come una fanciulla o come una donna oziosa?
In punta di piedi rientrò nella camera dei bambini, e si curvò per aggiustare le coperte. Entrambi dormivano, belli, nel sonno, alla luce dorata della lampadina, di quella bellezza melanconica degli angeli che vigilano i sepolcri. La vita sembrava sospesa in loro, come nel fiore che alla notte si chiude e che non si riaprirà se la luce e il calore non torneranno sulla terra. Nino, roseo e paffuto, gettato di traverso sul lettuccio, coi riccioli spioventi sull’orlo del materasso, le braccia aperte e i pugni chiusi, pareva si riposasse stanco dopo una lotta contro qualche fantastico nemico; Salvador invece, pallido e delicato, coi capelli corti e lisci ricadenti a frangia sulla fronte dalla pelle diafana, conservava nel sonno un atteggiamento composto, e sembrava già un adolescente. Una delle sue manine scarne reggeva la guancia e il mento, su cui colava, dalla boccuccia aperta, un filo di bava lattea: l’altra mano posava sul lenzuolo che egli prima di addormentarsi aveva avuto cura di tirar bene da tutte le parti. Egli dormiva con gli occhi socchiusi, ma quando Lia s’avvicinò, le sue grandi palpebre, simili a conchiglie venate d’azzurro, si sollevarono lentamente, ed ella ebbe l’impressione che egli non dormisse. Si curvò a guardarlo e vide i grandi occhi nuotare in un vapore di sogno e fissarla come da un mondo lontano. Lo baciò sulla guancia e sentì che odorava di vainiglia e di latte come un bambino di pochi mesi, e un impeto di tenerezza e un senso di protezione verso quella creatura fragile e bella che stava attaccata a lei come la campanula allo stelo dell’avena, vinsero il suo turbamento.
Il treno arrivò con ritardo: solo dopo mezzanotte Lia sentì un a carrozza fermarsi al portone e la nota voce chiamarla:
— Signora Lia!
Ella gli buttò la chiave avvolta in un fazzoletto, uscì nella scala e gli fece lume dall’alto. Egli saliva rapido e svelto come un fanciullo: e Lia, suo malgrado, si turbò di nuovo. Che cosa le avrebbe detto, appena vicino a lei? Ma nel salire gli ultimi scalini egli sollevò il viso e la salutò con un cenno del capo, senza sorridere, senza guardarla in modo diverso dal solito.
— Povera signora Lia, l’ho fatta aspettare? Come sta?
— Bene; e lei?
— Così, un po’ stanco.
Seguiva, cauto e grave, il vetturino con le valigie.
— Qui, qui, — disse Lia, precedendo col lume.
Andato via l’uomo, Piero Guidi si tolse il soprabito, l’attaccò al solito posto, si volse di nuovo a Lia:
— Nulla di nuovo? I bambini?
— Stanno bene, grazie.
— Lei mi sembra un po’ pallida, sciupata....
— Oh, nulla; è un po’ di stanchezza. E lei? Le occorre nulla?
— Nulla, grazie. Vada a dormire, signora Lia. Chiacchiereremo domani. Buona notte.
Ed ella se ne andò a dormire, ricordando che anche lo zio Asquer le aveva detto: va a riposarti, parleremo più tardi: — ed erano rimasti sempre estranei.
All’alba era sveglia. S’alzò e preparò il caffè, e sentì che i bambini, di solito pigri a svogliarsi, quella mattina invece ridevano e facevano chiasso. Corse da loro e vide Nino nel lettuccio di Salvador: fra il mucchio delle coperte e delle lenzuola aggrovigliate i due fratellini davano l’idea di due uccelli nel nido: si nascosero e un gorgheggio soffocato riempì la camera di allegria. Come protestare? Ella dovette farli alzare per separarli e li chiuse in cucina. Ma Nino saltava, graffiava l’uscio e domandava:
— Cosa mi ha portato, quel signore? Un treno, due treni?
La mamma disse:
— Come vuoi che t’abbia portato qualche cosa se sei il bambino più cattivo del mondo?
— Il più, il più? Sei certa? Il più?
— La mamma è sempre certa di quello che dice, stupido! — disse severo il fratello maggiore.
La mamma però lo redarguì perchè non voleva che fra loro si offendessero, e un’ombra offuscò il chiaro visetto del fanciullo. Ah, ecco che ricominciavano le quistioni, le tirannie e le ingiustizie, tutto a causa di «quel signore». Perchè era tornato? Si stava così bene senza di lui. Ed ecco che il campanello squillò, e la mamma parve dimenticarsi di tutto per correre dall’estraneo.
Nulla era mutato nella camera, e nulla nell’aspetto, nello sguardo, nell’atteggiamento di lui: perchè ella dunque si avanzò ad occhi bassi, timida come una fanciulla?
— Dunque, signora Lia, — egli disse, prendendo la tazza che ella gli porgeva. — Che cosa mi racconta di nuovo?
— Nulla di nuovo! La vita passa....
Egli sollevò gli occhi, la guardò in viso, le guardò le mani: ed ella ricordò il sogno della sera prima e per un attimo risentì la stessa impressione di dolcezza quasi violenta, che le piegava le ginocchia e le faceva batter le tempia. Ma si vinse subito, e sfidò ostile lo sguardo carezzevole che continuava a fissarla.
— Mi dica che cosa ha fatto durante tutto questo tempo, signora Lia.
— Io? E non lo sa? Ho lavorato.
— Cosa fa?
— Di tutto. Adesso ho una macchina da scrivere.
— Ha lavoro abbastanza?
— Sì. Faccio copie di tutti i generi: dalla circolare al romanzo.
— Non s’affatica? Non le fa male?
— Oh, Dio, — ella disse con ironia verso sè stessa, — son così delicata?
— Forte non è certo. Senta, — egli aggiunse a un tratto, ricordandosi, — lei m’aveva scritto che posava per il quadro del mio amico. Che è accaduto, poi?
— Nulla. Solo, egli voleva andare al Cairo, per finire il quadro.... ed io non seppi più nulla di lui.
Non accennò all’avventura, ma il disgustoso ricordo tornò a pungerla, a misura che gli occhi di Piero Guidi diventavano quasi cupi di desiderio.
— Se egli osa dirmi una sola parola men che rispettosa lo mando via subito, — pensava, aspettando ch’egli le restituisse la tazzina.
Egli aveva dormito bene, e il letto morbido, la camera bella e tiepida, l’aroma del caffè e la presenza di Lia gli davano un senso di beatitudine. Aveva tante volte desiderato quel momento, laggiù nell’austera solitudine della piccola città meridionale! Ecco, adesso la sua giovine e fine padrona di casa è davanti a lui, fiera e chiusa in sè stessa come nella sua veste da lutto. Basta stender le braccia per consolarla e consolarsi con lei! Ma qualche cosa glielo impedisce. Che cosa? I bambini dietro l’uscio, o un velo impalpabile che si stende fra lui e lei, e ch’egli sente di non poter squarciare così, d’un tratto, violentemente?
Bisogna aspettare.
— Mi mandi i bambini, — disse, restituendole la tazzina. — Ho da dar loro qualche cosa.
La sua mano tremava visibilmente.
Dietro l’uscio, quando Lia uscì, i grandi occhi dorati di Salvador la fissavano diffidenti e gelosi, ed ella provò un’impressione nuova: le parve che il fanciullo indovinasse i suoi sentimenti.
«Bisogna mandar via l’estraneo....» disse fra sè, mentre l’uomo, nel suo letto tiepido, ripeteva: «Bisogna aspettare».
I bambini entrarono, timidi verso l’estraneo, già ostili fra di loro, Salvador pronto a correggere gli errori di Nino, questo sicuro di esser compatito e di ottenere i migliori regali.
Lia li attese nella saletta da pranzo: le pareva di veder sempre gli occhi limpidi di Salvador fissi nei suoi e pensava:
«Si direbbe ch’egli ha paura.... che diffidi di me e del mio affetto per lui.... Nino, anche fosse grande, non avrebbe quest’istinto di diffidenza: forse perchè un vincolo infrangibile ci unisce.... Ma Salvador.... Salvador capisce già che cosa vuol dire non esser madre e figlio.... ed ha paura.... ha paura.... Ah, no, caro; no, no!...»
E non si accorgeva ch’era lei ad aver paura di sè stessa.... Un istinto atavico la dominava: ella era ancora, in qualche modo, la vedova orientale che deve seguire nei regni dell’ombra l’uomo che l’ha posseduta: Salvador rappresentava appunto quest’uomo, ed ella aveva paura del fanciullo come di un testimonio e d’un giudice.
Intanto i due fratellini s’indugiavano nella camera di Piero.
Sebbene Salvador avesse cercato d’impedirglielo, Nino s’era arrampicato sul letto e domandava, guardandosi attorno:
— Dov’è la valigia?
— Tu che sembri molto svelto dovresti fare una cosa, — disse Piero a Salvador che lo fissava silenzioso. — Devi andare in salotto e portarmi appunto la valigietta. Ci riesci?
Il fanciullo sorrise sdegnosa, come per significare che ben altre cose sapeva fare; portò la valigietta, e quando il Guidi domandò: — Cosa mai ci sarà, dentro? — finse di non saperlo, mentre Nino rispondeva francamente:
— Forse un treno per me, con due macchine.
— E se invece ci fosse un libro?
— Oh, io libri non ne voglio!
— Benissimo! E tu, Salvador?
— Io sì! I libri mi piacciono più dei giocattoli, perchè insegnano a conoscere tutto ciò che esiste nel mondo.
— Benissimo! — ripetè Piero, che si era seduto sul letto e apriva la valigietta. — Io ne ho già letti molti, e tuttavia ho imparato poco.
— Vuol dire che non sai leggere, — osservò Nino; e i due fratellini risero d’intesa, guardandosi negli occhi.
— Bravi, vi beffate di me, anche?
Ma all’improvviso Nino e Salvador si fecero seri. Egli traeva con esagerate precauzioni una scatola pesante.
— Un treno! Una corazzata!
— Questo è mio! — disse Nino, afferrando subito il treno; e Salvador guardò la corazzata e gli parve d’essere il bambino più felice del mondo. Da tanto tempo la sognava, e adesso la guardava con ammirazione, così bella sul suo zoccolo turchino che rappresentava il mare, coi suoi fianchi lucenti, i cannoni, i marinai di stagno, la bandiera tricolore.
— Com’è bella! — disse semplicemente, e questo bastò perchè Nino guardasse scontento il suo treno.
— Scambiamo, Salvador!
— Ah, no, no! Questa è mia!
Nino si mise a piangere, e Piero disse:
— Su, Salvador, contentalo; sei un ragazzetto adesso e non devi far piangere il tuo fratellino. Dagli un po’ la corazzata; poi scambierete ancora.
Salvador non protestò: prese il treno, ma sentì che Piero commetteva un’ingiustizia, e si fece pallido e uscito di là nascose il visetto sul fianco di Lia. I singhiozzi lo scuotevano tutto, ma si frenava e non diceva nulla; ed ella sentì qualcosa di questo muto dolore penetrarle per il fianco, su su fino al cuore.
— Taci, caro, — gli disse sottovoce, — rimedierò io; ti farò restituire la corazzata.
— No, no; mandalo via, io non voglio nulla.... mandalo via.... — mormorò Salvador, incoraggiato dalla protezione di lei: ed ella promise puerilmente:
— Lo manderò via....
Ma come giustificare un atto così scortese, dannoso inoltre per lei e quindi anche per i suoi bambini? Egli non aveva fatto nulla per meritarselo. Anzi, durante quella giornata, e nei giorni seguenti, e per tutto l’inverno, continuò a mostrarsi gentile e innocuo. Solo gli occhi, talvolta, parlavano per lui.
Ma il nemico oramai era dentro di Lia, ed ella lo combatteva, calma in apparenza, taciturna, dominata dall’idea fissa di vincerlo.
Un giovedì ella incaricò Salvador e Nino di salutare la signora Bianchi, e domandarle quando la mamma poteva andare a salutarla. La sera stessa i bambini, dopo il solito ricevimento, portarono la risposta.
— La signora Bianchi ti aspetta domani alle cinque.
— L’avete veduta?
— No, è raffreddata; ce l’ha detto la bonne.
— È sofferente e mi riceve lo stesso, — pensò Lia. — Vuol dire che si ricorda di me con simpatia e forse indovina lo scopo della mia visita....
Sentimenti opposti, speranza e timore, umiliazione ed orgoglio, la tennero agitata tutta la notte e l’indomani fino all’ora della visita. «Che cosa le domanderò? Che mi procuri un posto, un impiego, o lavoro a casa?» Qualunque cosa che le permettesse di vivere indipendente. Indipendente? Ah, ella sentiva che sarebbe stata sempre serva di qualcuno; ma un impulso torbido la incalzava: ella voleva liberarsi da un laccio che ogni giorno di più la stringeva, e andava, andava, così, a caso, verso la signora Bianchi perchè non sapeva da chi altri, come un viandante smarrito va, nel crepuscolo, verso una luce lontana.
— Se troverò lavoro, posso mandarlo via, — pensava.
Mandarlo via, non vederlo più, non incontrare più i suoi occhi dolci che attiravano come uno sfondo glauco di cielo sopra un luogo nero!... E mandato via lui non accoglier più nessuno in casa; era questa la sua idea fissa. Sentiva lui prepotente bisogno di solitudine, d’isolamento, una sorda ostilità contro tutti, uomini e donne. Via, via, se la pia signora l’aiutava, ella nou avrebbe più aperto il suo uscio a nessuno....
Risalì tremando, sottile e nera come un’ombra, lo scalone candido che altre volte ella aveva salito sorridendo bianca e scintillante. Il cameriere la guardò con diffidenza.
— La signora non riceve.
— Mi aspetta, — disse Lia, già offesa. — Sono la signora Villanueva.
Allora il servo la condusse, silenzioso, attraverso le sale deserte, un po’ buie, profumate di fiori come angoli di giardini al crepuscolo, ed ella provò un senso di stupore quando si trovò davanti alla sua figura nera, in un salottino grigio e argento le cui specchiere riflettevano il cielo d’oro del tramonto d’inverno.
Dove aveva veduto quella figura, con quegli occhi pieni di orgoglio e di umiliazione? Ah, adesso ricordava: nella gabbia dorata dello zio Asquer, appena dopo il suo arrivo.... Allora, per un fenomeno mnemonico, l’orizzonte marino e l’odore della brughiera le tornarono alla memoria: e per la prima volta l’idea di ritornare laggiù le diede un senso di dolcezza profonda.
Quando la signora entrò, Lia era già calma, decisa a non domandar nulla se nulla le veniva offerto.
Alta e grigia, col riso pallido e immobile e gli occhi azzurri luminosi e freddi come quel cielo d’inverno, la dama porse a Lia tutte e due le mani, guardandola senza sorridere, ma anche senza sforzarsi a fingere un dolore o un interessamento che non sentiva.
— Cara! Da quando non ci vediamo!
— Mi perdonerà.... — mormorò Lia, e il suono della sua voce umile la rattristò.
Sedette accanto alla dama benefica, si piegò su sè stessa.
— Quante volte abbiamo parlato di lei col dottor Fontana! Abbiamo una vera ammirazione per lei così brava, così coraggiosa....
— Adesso m’offre il suo aiuto, — pensò Lia; e attese.
— Ma dev’essere anche contenta dei suoi due bambini: due fiori, che la sua valida manina sa così ben coltivare....
Posò la sua mano lunga e calda sulla mano di Lia: ma questa sentì come un peso, qualcosa che la schiacciava, come se quella mano fosse un macigno.
Parlarono dei bambini, di quello che diceva Salvador, di quello che diceva Nino: la signora Bianchi sapeva tutto, li conosceva a fondo, come il suo bambino stesso. Perchè dunque, attraverso i figliuoli, non indovinava nulla della madre?
— Che le importa di me? — pensò Lia. — Ella si occupa di loro, perchè fan parte della vita del figlio, null’altro.
E non attese più: anzi si sollevò e sorrise. Parlarono del dottor Fontana, del suo ospedalino, di altri istituti, di ospizi, di scuole, di opere di carità, di beneficenza, e dei poveri, sopratutto dei poveri, che bisogna aiutare, sollevare, elevare moralmente, sopratutto moralmente. Lia accennava di sì, di sì, e ascoltava, lontana ed estranea alla pia signora, come la pia signora era estranea e lontana da lei.
Poi parlarono d’altro: del passato, del morto; e un’ombra velò gli occhi della dama, l’ombra che ci dà la paura di un dolore che altri hanno provato: ma Lia non si turbò. Qualcosa di gelido le fasciava l’anima; le pareva che nulla, nulla più avrebbe potuto commuoverla. Il suo cuore era freddo, in quel momento, come quello che le palpitava vicino, all’altr’angolo del divano: di che dunque poterà aver paura? Di un uomo che la guardava con occhi soavi? Ma ella era insensibile, come la pietra in mezzo al campo desolato. E se ne andò attraverso i saloni deserti come attraverso le strade affollate: con lo stesso senso di solitudine e di abbandono in cuore.
*
Ma nei giorni seguenti fu assalita da una crisi di disperazione. Le parve a un tratto di essere invecchiata e di dover presto morire. La morte! Era questo l’avvenimento grandioso ch’ella aveva atteso durante tutta la sua vita di privazioni e di inquietudini? Ah, no, no: tutto fuorchè morire e lasciare i bambini soli. E se li stringeva al petto, tutti e due, aggrappandosi a loro come per salvarsi dalla corrente impetuosa che tutto ad un tratto la trasportava.
Un giorno, sull’imbrunire, stava ancora seduta a copiare a macchina, davanti alla finestra della sua camera da letto, e aspettava il ritorno dei bambini da casa della signora Bianchi, quando all’improvviso sentì rientrare il Guidi. Egli non rientrava mai, a quell’ora; quella mattina però s’era lamentato d’un forte mal di testa, e Lia credette ch’egli si sentisse poco bene e si ritirasse per mettersi a letto. Ella continuò a lavorare, ma lievemente inquieta. Era un tramonto freddo e chiaro di marzo: il cielo, come lucidato dalla tramontana, pareva di cristallo verdognolo; qualche finestra brillava già, e le carrozze chiuse, con dentro le belle signore che tornavano dai ricevimenti e dalle conferenze, svoltavano su per via Quintino Sella luccicando come grandi scatole di lacca. Il vento freddo passava davanti alla finestra di Lia scuotendo i vetri come per provarne la resistenza: e aveva come un sibilo di rabbia poichè non poteva penetrare e portarsi via qualche cosa. Lia sollevava di tanto in tanto gli occhi, spiando l’arrivo della carrozza della signora Bianchi con dentro i bambini; ma il cielo diventava sempre più lucido, le strade si coprivano d’ombre e di splendori tremolanti ed essi non tornavano. Che freddo e che tristezza! E Piero Guidi, di là nelle sue camere, che non si sentiva. Che faceva? Era andato a letto?
— È sofferente ed è solo, — pensò Lia con pietà. Si alzò e andò a picchiare timidamente, domandandogli se aveva bisogno di qualche cosa.
— Venga, — egli rispose dal salotto.
Lia entrò, ma si fermò subito stupita, sembrandole che egli, gettato sul piccolo divano e col viso nascosto sul cuscino, piangesse.
— Che ha, signor Piero? Si sente male?
— Molto male....
— Perchè non va a letto? Che ha?
S’avanzò, ma non osò avvicinarsi a lui. Lo spettacolo di quell’uomo forte che piangeva come una donnicciola senza curarsi di nascondere il suo affanno, le dava un profondo stupore e un impeto di pietà materna. Avrebbe voluto sollevarlo come sollevava Nino caduto o piangente, ma quel dolore che si esponeva così noncurante perchè inconsolabile, le destava anche un senso di rispetto.
Piero sollevò il viso, la guardò con occhi smarriti, la vide davanti alla finestra, sullo sfondo glauco del crepuscolo, pallida e bella come l’aveva veduta in riva al mare, e riaffondò il volto sul cuscino, scuotendo la testa e singhiozzando come un bambino disperato.
— Dio, Dio, ma che ha? — ella disse spaventata.
Egli pianse più forte, poi all’improvviso si calmò, balzò a sedere, mise i gomiti sulle ginocchia e il viso fra le mani, e disse quasi irritato:
— Le ho dato spettacolo! Lei non credeva, vero, che un uomo potesse far così! È rabbia, sa....
Lia non rispose. Egli sollevò il viso.
— I bimbi non ci sono?
— Non sono rientrati; sono dalla signora Bianchi.
Egli rimise il volto fra le mani, e cominciò a battere nervosamente la punta del piede sul tappeto. Due o tre volte sollevò gli occhi e mosse le labbra per parlare, ma pareva che qualche cosa superiore alla sua volontà glielo impedisse. Finalmente, mentre Lia andava imbarazzata dall’uscio allo scrittoio e da questo alla finestra, disse piano come fra sè:
— Lo sa che è qui, a Roma?
Lia si fermò davanti ai vetri e non si volse, non si mosse più. Le pareva che un gelo mortale la invadesse tutta, pietrificandola. Qualcosa di funesto doveva succedere: l’avvenimento preveduto fin dal primo momento in cui egli l’aveva guardata con occhi d’amore, e che invano ella aveva cercato di evitare.
— Essa è a Roma, Lia, essa è a Roma! — ripetè l’uomo, alzando la voce e chiamandola per la prima volta col solo suo nome. Pareva le chiedesse aiuto; e Lia sentì riempirsele gli occhi di lagrime. Ma non si mosse, non si volse.
— Lia, lo sa di chi parlo?
— Lo so.
— Come lo sapeva?
— Certe cose si sanno sempre.
— Si sanno, si sanno! — egli ammise, e nascose di nuovo il viso, e parve curvarsi, piegarsi su sè stesso come sotto il peso di un dolore vergognoso. — Tutti lo sanno! Anche lei! E lei taceva!
— Perchè taceva lei!
— Io tacevo perchè a lei non importa nulla di me. Nulla!
— Oh, questo non lo dica!
— Dunque le dispiace?
— Mi dispiace sì.... che accanto a me ci sia qualcuno che soffre....
— Questo soltanto?
— Che altro dunque?
— Che io sia legato a un’altra donna.... indegna e malvagia?...
Lia cominciò a tremare.
— Non parli così!... Perchè parla così?... Un giorno.... faranno la pace.... forse presto, poichè essa è qui.... e lei, signor Piero, potrà pentirsi.... delle sue parole....
Ella non sapeva quel che diceva; ma sentì il suono delle sue parole, s’accorse che balbettava e tornò a irrigidirsi.
— Io non mi pento delle mie parole, nè delle mie azioni, Lia! Mi ascolti; si avvicini: non abbia timore.... Mi lasci sfogare.
«Non abbia timore!» Egli dunque s’accorgeva ch’ella era turbata. Tornò padrona di sè e gli si avvicinò, pallida e fiera.
— Si metta a sedere lì.
Lia sedette accanto al divano: egli si sollevò, senza guardarla, con gli occhi rossi, i capelli scomposti, il viso deformato dal pianto: pareva uscisse da una lotta con un nemico che lo avesse brutalmente percosso e vinto.
La sera fredda e lucida cadeva davanti a loro: i cristalli tremavano, e Lia sentiva di nuovo un senso di freddo e di abbandono. No, quell’uomo non era il bel giovane di cui ella aveva paura e desiderio: era un estraneo, che la chiamava a nome perchè soffriva e «voleva sfogarsi». Se fosse stato felice non avrebbe certo badato a lei, sola e sconsolata nella sera gelida.
— Senta, Lia, — egli disse senza volgersi, — s’io l’avessi conosciuta prima forse non sarei venuto a stare a casa sua. E anche lei, forse, conoscendomi bene, non mi avrebbe accettato, non sarebbe stata con me buona come è stata. Non perchè io non sia un galantuomo, anzi appunto per questo. Ma adesso è tardi, ed è impossibile tornare indietro, ed è forse meglio.... Non sempre è male ciò che sembra male....
Lia taceva: le pareva di non capire, o fingeva a sè stessa di non capire.
— Del resto, — egli proseguì, — noi non ci conosciamo ancora. Non siamo amici, come pareva che dovessimo diventarlo. Perchè succede sempre così? Perchè non si arriva mai a conoscersi? Mai! Sarà accaduto anche a lei: come un velo cade in mezzo a due persone che si vogliono bene, e tutto appare torbido in loro....
Lia ricordò lo zio Asquer e lo stesso Justo ch’ella non aveva saputo conoscere e amare abbastanza.
— Dicono che non riusciamo neppure a conoscer noi stessi: ma questo non è vero. Non sappiamo ciò che saremo domani; ma quello che siamo oggi, quello che siamo stati, sì, questo lo sappiamo! Io non prevedevo di farle questa confessione, Lia; ma adesso so di fargliela, so di rivelarmi a lei, e mi pare di vedermi, mi vedo, anzi.... (apriva le mani e guardava per terra, davanti a sè, quasi vedesse davvero l’ombra di sè stesso) mi vedo, Lia, con tutti i miei difetti, i miei errori, le mie debolezze.... E so che son diventato così perchè altri lo hanno voluto, non per colpa mia.... Io ero buono, sa, quasi ingenuo: la mia famiglia è equilibrata, semplice; mio padre un patriarca gentiluomo, mia madre una donna che giura che il male non esiste. Io e mia sorella siamo venuti su come due pianticelle delicate in un orto chiuso: io ero ingenuo e puro quasi come lei. Ecco perchè son piaciuto a quella donna. A vent’anni essa era già corrotta, mentr’io, a venticinque anni, ero ancora come un bambino. E m’ha preso e ha devastato la mia anima. Ma ciò che più mi disgustava, in lei, era la menzogna, sa, quella menzogna piccola, vile, quotidiana, la finzione diventata natura, il tradimento velato di amore, il veleno che vi si propina a goccia a goccia e non vi fa morire, ma vi turba la visione della vita, inquinando le sorgenti dell’essere. Quella donna era così: finta, sa, finta e corrotta fino all’ultima piega dell’anima. E non era incosciente, questo è il terribile: sapeva ciò che faceva, e non era contenta di sè, tormentata, e più era tormentata più era perfida....
Lia taceva, immobile, pallidissima.
— Siamo stati assieme quattro anni: quattro secoli di pena infernale. Dopo la prima separazione, la mia famiglia, e specialmente mia sorella, ch’è sensibilissima e nervosa come lo son io, e che soffriva perchè soffrivo io, fece di tutto per riunirci. E ci riunimmo. Ci fu una specie di contratto, quasi un nuovo matrimonio, e un vescovo si immischiò nella faccenda e benedisse la nostra riunione. Tra le altre condizioni c’era quella di poter ciascuno di noi godere della propria libertà, fino a un certo punto, s’intende; ma mentre io, con l’illusione di imporle rispetto, non ne profittavo, ella cominciò fin dai primi giorni a oltrepassare il limite. Usciva anche alla notte, con certe sue amiche equivoche, e la nostra casa era sempre piena di gente antipatica, di brutte faccie, di persone mediocri. Io non ho mai capito perchè essa, che è intelligente, si circondasse di tipi simili. Forse lo faceva per irritarmi: bastava che io dicessi: il tale o la tale non mi piacciono, perchè essa li attirasse a casa e ne facesse i suoi favoriti. Le sue simpatie duravano poco, ma erano sempre le stesse, verso persone mediocri o anormali.
— Forse anch’essa è un’anormale, un’infelice, — disse finalmente Lia, a bassa voce.
— Normale non è, certamente, ma perchè verso gli altri è buona, gentile, pietosa, perchè è buona anche con la mia famiglia, specialmente con mia sorella, sulla quale esercita una specie di fascino; perchè è generosa coi poveri, amabile con tutti, mentre con me si è mostrata sempre cattiva, perfida, d’una perfidia costante, raffinata, inesorabile? Fra me e lei non c’è stata mai una scena volgare, ma bastava ch’io esprimessi un desiderio perchè ella ne esprimesse uno opposto al mio. Faceva tutto quello che sapeva contrario ai miei principî, ma sempre in modo da sfuggire ai miei rimproveri. Questo, però, durante gli ultimi tempi, perchè subito dopo il nostro matrimonio s’era mostrata anche buona con me, ragionevole, talvolta persino passiva. Ma gli ultimi anni furono terribili: essa mi odiava, e finii con l’odiarla anch’io: avevo paura di commettere un delitto. Allora.... Lia, le avranno forse raccontato anche questo.... io diventai, in apparenza, uno di quei tanti «viveurs» ridicoli, che passano la giornata in un ufficio e la sera scimmiottano i veri e grandi «viveurs». Ci separammo di nuovo, o meglio fu lei a scappare, come io in fondo desideravo. Ritornò presso suo padre, e si finse così bene vittima, che anche i miei parenti, dopo il racconto che ella fece loro di tutte le mie iniquità e delle mie aberrazioni, han preso a considerarmi e a disprezzarmi come un mostro. Mia sorella, per il dispiacere, cadde ammalata. Anche da lontano mia moglie esercita su di me il suo fascino malefico. Pensando a lei sento un senso di ripugnanza, di antipatia fisica, di angoscia profonda. Forse non tutti i torti sono stati suoi, ma mentre io compativo i suoi, ella non aveva pietà di me. Mi odiava; mi odiava, — egli ripetè con rabbia, — e il perchè non me lo disse mai! Avessi almeno saputo il perchè! No, ella non mi diceva mai niente; si ergeva, davanti a me, come un muro contro cui io sbattevo ad ogni momento la fronte. Ero diventato come pazzo; non vedevo più, non ragionavo più. Da tre anni siamo separati, e il tempo passa ed io non posso dimenticare.... Non posso, non posso! L’anno passato qualcuno mi avvertì ch’ella sarebbe ritornata a stabilirsi a Roma: è ricca e può farlo. Allora fuggii io; sì, sono stato io a farmi mandare in Sicilia, tanto avevo paura di rivederla, fosse pure nelle vie. E adesso è qui! È qui! — egli replicò, stringendosi la testa fra le mani, con disperazione così sincera che Lia non osò pronunziare parole di conforto e di pace.
— L’ha veduta? — domandò.
Egli fece segno di no: ella riprese:
— Roma è grande. Essa, poi, sarà venuta per qualche mese. Poi ripartirà....
— Odio l’aria che essa respira! Eppoi, se essa è qui lo è per tormentarmi e perseguitarmi, lo so, lo so! Mi meraviglio, anzi, che ella sia stato tanto tempo quieta: essa ha tempo, denari, salute, ed io sono stato per lei una specie di trastullo col quale si è divertita crudelmente, e vuol riavermi, lo so, per riprendere il suo gioco. Non mi lascerà più tranquillo, vedrà, Lia, vedrà!
— Ma no, — disse Lia, con un senso quasi di protezione, — lei esagera. Stia tranquillo, vedrà che tutto passerà. Eppoi che ha da temere? Che può farle? E se si incontreranno non sarà forse meglio? Se sua moglie la sentirà parlare così, come ha parlato a me, adesso, non insisterà certo nel desiderare una riunione fatale per entrambi.
— Ma non è di riunirsi a me che ella desidera! ella desidera solo di tormentarmi.
— Come può tormentarla, — domandò ingenuamente Lia, — se non si vedranno, se lei non la ama più, se non hanno più ragione di incontrarsi?
Egli si alzò, ad un tratto, senza rispondere, e s’avvicinò ai vetri sempre più luminosi ma d’un riflesso fosco e livido, come d’un fuoco lontano che si spegneva. Allora Lia ripensò ai bimbi; s’alzò anche lei inquieta, e guardò nella strada bianca e gelida, già rischiarata dai fanali, le cui fiammelle tremolavano nel crepuscolo come grandi stelle gialle.
— E i bimbi non tornano! — mormorò come fra sè.
All’improvviso si sentì stringere il braccio e trasalì: ricordò la scena dello studio, ed ebbe paura di sè, della sua debolezza, della pietà che le destava l’uomo; ma egli non fece altro che attirarla un po’ a sè e dirle, guardando lontano:
— Come può tormentarmi? Lei non ha dunque capito? Mia moglie non mi ha mai veramente voluto bene, ma è stata sempre gelosa, come tutte le donne che amano di solo amore sensuale. Adesso ella sa che io vivo presso una donna molto superiore a lei, una donna buona, gentile e intelligente, e crede che io e lei, lei, — le strinse forte il braccio, — ci amiamo, e farà di tutto per dividerci. Ecco perchè è venuta a Roma.
Lia spalancò gli occhi, atterrita, ma subito si dominò.
— Ebbene, è facile il rimedio. Se ne vada.
— Ah, questo no, poi! Perchè, quando nulla è vero?
— E se nulla è vero, perchè temere? — ella gridò con fierezza. — Chi può far supporre a sua moglie una cosa non vera? Essa non ne ha il diritto, e d’altronde non credo neppure che essa si permetta di sospettare scioccamente di.... noi.... solo per un gusto malvagio.... Io.... lei.... io....
Ella era così agitata che Piero cercò di calmarla.
— È vero, ha ragione; mi perdoni.
E dopo un momento di silenzio, riprese:
— Essa sospetta di tutti; ha la fantasia corrotta, e vede il male e la degenerazione anche nelle cose più pure, e i suoi sospetti diventano per lei realtà, come nel mentire costantemente ella finisce col credere di dir la verità. Adesso sa che sto qui, e che durante la mia assenza io e lei siamo stati sempre in relazione, sa che io nutro per lei una vera amicizia; quindi farà di tutto per dividerci, Lia; di questo solo temo, non di altro....
Egli fece un nuovo tentativo per attirarla a sè, quasi per cercare in lei protezione e impedire all’altra di dividerli: ma Lia, nonostante la violenta emozione che la costringeva a chiudere i denti per frenarne il battito, si liberò dal braccio di lui, e ricominciò ad aggirarsi di qua e di là per il salotto, pronunziando parole imprudenti.
— Se ne vada, se ne vada, signor Piero! Ah, non bastavano le altre mie disgrazie? Anche questa? Non avevo che la mia pace e anche questa mi è tolta!...
— Lia, si calmi, — egli disse aspettandola fermo accanto alla finestra, certo oramai che ella avrebbe finito col cadergli fra le braccia. — A tutto son disposto fuorchè ad allontanarmi da lei....
Lia si sentiva smarrire davanti a quell’uomo che aveva tuttavia, nel viso e nell’aspetto, e persino nelle vesti scomposte, l’aspetto d’uno che è stato aggredito e vinto. Ah, mandarlo via., mandarlo via! Perchè lo aveva accolto, perchè, al primo accenno di pericolo, non aveva chiuso la sua porta, come quella sera nella casetta della spiaggia? Adesso era tardi: il nemico era dentro e lei senza armi e senza difesa.
Ma il rumore d’una carrozza che si fermava al portone risuonò nel crepuscolo, tra il fruscio del vento, ed ella corse alla scala e andò incontro ai bambini affannata.
Essi rientrarono, come sempre quando tornavano dalla signora Bianchi, rossi in viso, eccitati, carichi di pacchettini, accusandosi vicendevolmente degli errori commessi.
L’appartamentino echeggiò delle loro risate e delle loro querele, ma Piero Guidi provò una sorda irritazione contro i due piccoli intrusi che arrivarano giusto nel momento in cui egli aveva bisogno di Lia.
*
Il colloquio interrotto non fu ripreso nè quella sera nè nei giorni seguenti. Pareva che egli sfuggisse Lia, pentito di quanto le aveva confidato, ed ella a sua volta lo sfuggiva, ma senza ostentazione, fredda e calma in apparenza quanto in realtà era tormentata.
Il ricordo di lui non la abbandonava un momento: non dimenticava una sola delle sue parole, e aveva paura di attraversare il salotto perchè egli era rimasto là come un fantasma, e quando lo rivedeva agitato, piangente, che cercava di attirarla a sè senza farle violenza ma con la forza della passione, forza più terribile d’ogni violenza, si sentiva tutta scossa da un brivido.
— Mandarlo via, — questa idea fissa la tormentava giorno e notte; — ma come fare? «A tutto son disposto fuorchè a separarmi da lei», egli aveva detto; e queste parole riempivano l’aria di luce e di suoni, intorno a lei, ma di luce e di suoni che la sbigottivano. — Che accadrà, che accadrà, Signore? Ella è una debole donna, senza difesa, e il gorgo molle e fatale della passione l’attira. Ma è decisa a lottare fino all’ultimo; ha vinto l’aperta violenza; possibile che non riesca a vincere la tentazione d’un uomo che è più debole di lei?
I giorni passavano, ed ella si convinceva che Piero Guidi era un debole, un vinto. La stessa sua passione per lei — passione vaga e variabile — glielo faceva talvolta apparire come un essere senza volontà; ma a misura che i giorni passavano e che egli non cercava di riprendere il colloquio interrotto, la sua fantasia lavorava a ricomporre la figura ideale di lui, e la ingrandiva e la coloriva.
— Egli mi ama davvero e perciò mi sfugge e mi rispetta. Egli sa che son sola, povera, unico appoggio ai miei due bambini: turbare la mia pace è un delitto: egli lo sa.... egli è onesto....
Eppure diffidava ancora: ma questa nuvola torbida di paure e di sospetti, prendeva, per così dire, un colore diverso, appunto come una nuvola che al mutar della luce si illumina e s’indora; non era più dell’uomo, che ella diffidava, era di sè stessa.
Un giorno se ne accorse, ma non se ne meravigliò. Doveva succeder così. Adesso era tardi e non le restava che lottare. Ma ad un tratto questa lotta le parve facile, quasi piacevole.
La vita e la giovinezza riprendevano in lei i loro diritti; come il povero al tornare della primavera le sembrava che le membra le si sgranchissero, l’aria intorno fosse tiepida e quindi i movimenti più facili. Si sentì giovane e forte. Le paure, le inquietudini, le umiliazioni sparvero. I suoi bambini le sembravano più belli del solito, e baciando Salvador sentiva come un profumo di fiori, e baciando Nino sentiva come un gusto di frutta un po’ acerbe.
Ricordi lontani le tornavano in mente: rivedeva la brughiera, le dune naturali, grigie davanti al mare violetto: la zia Gaina nera sullo sfondo argenteo delle paludi; e sentiva ancora il grido dell’assiuolo, il lamento della fisarmonica suonata dal servetto del Maestro. Povero Maestro, egli la amava sempre, in silenzio, da dieci, da quindici anni.... e per la prima volta ella pensava a lui con pietà, quasi con tenerezza, ma poi, tutt’ad un tratto, lo invidiava. Perchè povero? Egli amava, aveva sul suo orizzonte una figura verso la quale si volgeva come verso una luce inestinguibile. Quanti uomini, anche fra i più fortunati, hanno questo bene? E le donne? Quante donne, anche fra le più invidiate, hanno la fortuna di amare, in silenzio, di vivere del loro amore?
Ah, ecco che cosa le mancava laggiù: l’amore. Era questo desiderio che la spingeva verso lidi lontani, e le faceva apparir deserte anche le regioni le più popolate. Ma era contenta di esser partita e di aver raggiunta la mèta. Amare, amare, tacere, vivere d’amore!
Ed era il suo primo amore, questo, ed ella se ne accorgeva, e ne provava tutta l’ebbrezza casta e misteriosa. Che cosa c’era davanti a lei? Una muraglia coperta di edera e di fiori, e al di là un giardino incantato ov’ella non desiderava penetrare. Amare, sì: perdersi nel giardino degli inganni, no.
Ricominciò a curare la sua persona, e in pochi giorni si trasformò, ridiventò fresca, con le labbra rosee, gli occhi lucenti, come illuminati alla fiamma interna che le dava calore e vita. Camminava agile per le strade, come una fanciulla di sedici anni, e le pareva di esser lieve, sospinta dal vento di primavera che riempiva di polvere e di profumi la città; e quando pensava al suo povero Justo diceva a sè stessa che se egli avesse potuto vederla sarebbe rimasto contento. Lo spirito di lui voleva certo la gioia di lei. La felicità completa non è di questo mondo; ella lo sapeva: è dei fanciulli o della gente squilibrata il sognarla. Ed ella non era più una fanciulla, nè una donna romantica per sognare, per esempio, un nuovo matrimonio con un uomo giovane, bello e intelligente come Piero Guidi: la sola idea che, egli libero, ciò sarebbe potuto avvenire, le dava un senso di vertigine. Ma poi si calmava e ricadeva nei suoi sogni fantastici.
In quei limpidi mattini di aprile, mentre i bimbi erano a scuola e la casa era in ordine, ella lavorava davanti alla finestra, ascoltava i rumori della città che si fondevano in un rumore solo, monotono e armonico, respirava l’aria profumata, e sollevando gli occhi si incantava a guardare qualche nuvola rosea che attraversava il cielo azzurro. Così forse il viandante nel deserto si ferma a contemplare il miraggio lontano.
*
Fin da quel tempo si cominciò a parlare del posto ove andare per i bagni. I fanciulli, e specialmente Salvador, che di giorno in giorno diventava alto, pallido e nervoso, avevano assoluto bisogno di campagna e d’aria di mare.
Una mattina Piero domandò a Lia:
— Dove conta di andare, quest’anno?
— Al solito posto, spero.
— Andiamo ad Anzio!
— Andiamo! — ella ripetè fra sè, turbandosi: e disse con voce triste: — io non tornerò più ad Anzio!
— Andiamo a Rimini, allora.
— E perchè non a Ostenda addirittura?
— Andiamo in qualche spiaggia pittoresca, — egli insistè, fissandola. — Penserò io all’alloggio: lei non si preoccupi.
— Non è questione dell’alloggio. Io ed i miei bimbi dobbiamo andare in un luogo modesto e solitario. Lei con noi si annoierebbe..... Mentre ella parlava, egli finiva di sorbire il caffè, senza cessare un istante di guardarla; e quando ella fu per riprendere la tazza le afferrò la mano e gliela strinse forte. Un brivido la assalì, ma tosto si vinse e cercò energicamente di ritirar la mano.
— Perchè non vuole che io venga, Lia? — egli domandò sottovoce, — che le ho fatto? Perchè non vuole? — insistè, balbettando come un adolescente. — Le ho mancato mai di rispetto? Non sono per lei un amico, un fratello? E lei mi sfugge.... lei non mi guarda neppure, lei coglie ogni occasione per rispondermi sgarbatamente.
— Questo non è vero, poi!
— Tanto è vero che lei non ha finito ancora di ripetermi che io mi annoierò dove sarà lei! Certo, se lei si mostrerà così fredda, diffidente e scortese, io mi annoierò! Ma lei non deve mostrarsi più così con me: non c’è ragione, no! Perchè non dobbiamo essere amici, dica? Le ho mai domandato nulla d’illecito? Risponda! Lei è troppo intelligente per capire che non ha nulla da temere da un uomo come me. Risponda, la prego; ha fiducia in me?
— Perchè non dovrei aver fiducia?
— No, non risponda così, con una frase che non dice niente. Mi guardi, per piacere, si volti!
La tazzina tremava nella mano di Lia; ma ella pensava con fierezza: «forse egli crede che io abbia paura di me stessa» e si volse, lo guardò e non cercò oltre di liberar la mano ch’egli continuava a stringerle.
Come vinto da un irresistibile bisogno di carezze egli la costrinse a metter giù la tazzina, le prese l’altra mano e se le portò tutte e due al viso.
Lia sentì la pelle calda delle guancie di lui, le parve di scottarsi e si liberò. Ma quell’ardore le rimase nelle palme delle mani e le si comunicò al sangue. Nulla più oramai poteva guarirla.
— Io le voglio bene, Lia, — egli riprese, e il suo accento era trepido e sincero, — è inutile nasconderglielo oltre: e anche lei non è indifferente.... Non dica di no, Lia.... Perchè non dobbiamo essere amici, dunque? Ieri lei diceva ai suoi bambini, mentre questionavano: dovete volervi bene, perchè siete soli e nessuno si curerà di voi. Ed io le ripeto la stessa cosa, Lia! Siamo soli, nessuno si cura di noi: perchè non volerci bene?
— Lei non è solo! Ha famiglia, ha chi le vuol bene....
— Sono peggio che solo! Veda, anche la mia famiglia mi ha rinnegato, perchè ho voluto riacquistare la mia libertà. Eppure non sono cattivo, nè disonesto: lei oramai lo può dire.
— Lei è buono!
— Buono forse no, ma cosciente sì. So quello che faccio, e non mi pento delle mie azioni. Lei forse voleva che io andassi via di qui, dopo quella sera; e non ha insistito, forse per orgoglio, forse per pietà; ma certamente ha creduto che io mi pentissi d’essermi confidato a lei.
— E allora perchè.... — ella ricominciò vivacemente, ma non proseguì.
— Perchè non ho più parlato? Perchè mi è parso che a lei non piacesse di ascoltarmi!
— Oh, non è vero!
— Allora sono sempre a tempo a dirle tutto. Non adesso, però. Vada; ma prima mi dica che ha fiducia in me....
— Se non ne avessi non le permetterei di stare in casa mia!
— È convinta che io non le farò mai che del bene?
Le aveva ripreso la mano e la tratteneva e la respingeva, come combattuto dal desiderio e dal timore di attirarla a sè: finalmente la lasciò libera, sebbene non avesse ottenuto risposta alle sue domande, ed ella uscì, rapida, ripetendo fra sè le parole di lui: — Io non le farò mai che del bene.
Fu una delle giornate più felici della sua vita. Piero uscì, e durante il giorno non si fece più vedere; ma ella non smise un istante di pensare a lui, sembrandole oramai di volergli bene come ad un fratello, con un affetto che neppure l’ombra di un desiderio impuro offuscava.
Nel pomeriggio andò coi bimbi a Villa Borghese: gli usignoli cantavano sulle quercie tremule lucenti; i prati eran pieni di bimbi, di donne vestite di chiaro, di preti rossi e violetti. Tutto un popolo variopinto passava negli sfondi dei viali, come attraverso uno scenario meraviglioso; pareva che nella Villa si desse una festa, una rappresentazione fantastica. Lia provava la stessa impressione di piacere che l’aveva rallegrata al suo arrivo a Roma: un mondo nuovo s’apriva per lei, uno spazio ove tutto era luce e armonia.
— L’amo, l’amo! — ripeteva a sè stessa.
Nella sua gioia guardava i fanciulli che giocavano fra l’erba, agile ed eccitato Salvador, un po’ molle e indifferente Nino, e le pareva che in fondo alla sua ebbrezza non cessasse di splendere la fiamma dell’amore materno, perchè se si rallegrava di sentirsi giovane e felice era per loro.
Appena tornati a casa, Nino e Salvador mangiarono con avidità e andarono a letto stanchi; Lia si mise a scrivere a macchina, ma non potè resistere a lungo come le altre sere.
Aveva sempre in mente l’idea che fosse festa e non si dovesse lavorare. La notte era dolce e lunare, come quella in cui era tornato Piero: ed ella s’affacciò ancora alla finestra, e vide lo stesso cielo azzurro vellutato, la stessa linea di palazzi, i chiaroscuri della via e dei giardini, i lumi rossi in mezzo alle fabbriche che sembravano rovine.
Ma un profumo di glicine e di zagare inondava l’aria, ed ella ebbe l’impressione che grandi giardini incantati circondassero la città, e che di laggiù, da quella plaga di sogni, dovesse arrivare da un momento all’altro, per tutti quelli che erano stanchi, tristi, irritati, per tutti quelli che avevano lavorato durante la lunga giornata di primavera ed erano vissuti di pensieri aridi, di poco pane, di nessun affetto, un richiamo, un invito a scendere laggiù per un’ora di oblio e di pace.
Anche lei sentiva una smania di uscire, di vagare nella notte odorosa e chiara, di andare verso quel luogo di dolcezza; ma a un tratto vide Piero attraversare la via, e le parve che tutte l’incanto della notte primaverile penetrasse con lui nella casa silenziosa.
Egli l’aveva veduta alla finestra, e picchiò all’uscio per chiamarla; bastò quel lieve rumore perchè ella si svegliasse dal suo sogno.
— Venga, — egli disse, camminando piano per non svegliare i bambini: entrarono nel salotto e sedettero sul piccolo divano e ripresero il discorso interrotto, ma Lia di nuovo fu presa da un senso di diffidenza.
— Ecco, — egli disse, traendo e porgendole una lettera la cui busta grigia aveva su un angolo un gran sigillo d’argento. — È di mia moglie. È diventata ragionevole, quasi buona: acconsento alla separazione legale, non solo, ma la proposta, adesso, è partita da lei. Essa è venuta a Roma, mi scrive, appunto per definire questa dolorosa questione; legga, legga.
Le mise in mano la lettera, e Lia trasse il foglietto, sul quale si ripeteva il sigillo d’argento; ma i suoi occhi si fissarono sull’intestazione del grande albergo donde la signora Guidi scriveva, e di lì non si mossero, come affascinati. Un gran palazzo sorgeva, in capo al foglietto profumato; cupole e guglie lo incoronavano, sormontate da bandiere; e una folla d’uomini piccoli come insetti gli si aggirava attorno. Lia vide una sala dorata, una bella donna seduta davanti a uno di quei piccoli scrittoi fatti per le lettere brevi e frivole, e si sentì umile e triste, lontana dall’uomo che le aveva messo in mano il foglio e la busta con gli inutili sigilli.
— Se essa è diventata ragionevole e buona, — disse, restituendogli la lettera, — non sarebbe il caso d’una riconciliazione?
— Oh, mai! Che dice! È diventata buona perchè ama un altro uomo, o le sembra di amarlo.... come ha amato me nei primi tempi! L’amore rende buoni, Lia!
— È vero! — ella disse fervidamente.
— Nei primi tempi! — egli riprese con rancore, buttando con dispetto la lettera sul tavolino e poi riprendendola. — Ma poi!... Poi diventò cattiva perchè non mi amava più, anzi appunto perchè non mi amava più. Si stancò presto di me.... come di un amante... perchè le diedi tutto in una volta! Ma in fondo essa è un tipo passionale e impulsivo: ha bisogno di amare, e quando non lo può si irrita. Essere amata non le importa altrettanto; è sicura di sè. Ma per lei è più interessante uno sconosciuto, al quale ella possa tendere i suoi desideri, che un uomo innamorato di lei ma del quale ella conosca tutto. Il suo amore per me, quando ci siamo incontrati, era soltanto sensuale: ma io tentavo di elevarla, e sulle prime ella mi assecondava, era buona, docile, riconoscente. Ma poi.... poi.... Oh, non voglio più ricordare! Basta, basta! — egli disse, ripreso dall’angoscia dei ricordi, battendosi la palma della mano sulla fronte. — E adesso? L’uomo che ha scelto è degno di lei.... Di quello non si stancherà.... forse!
— L’ha veduta? — domandò Lia esitando.
— Sì, abbiamo avuto un colloquio presso il suo avvocato: tutto è stato definito.
— Non è possibile riconciliarsi?
— Per carità, non insista! È inutile parlarne.... posso impormi di perdonare, ma non di amare: solo una rifioritura di passione, fosse pure solamente sensuale, potrebbe riunirci, ma questo non può più accadere perchè io la odio ed essa mi odia. Non solo ma, come le dicevo, essa ama un altro, ed io....
— Lei non è geloso? — interruppe Lia, e ricominciò a turbarsi. — Adesso, — pensava, trepida e paurosa, — adesso mi dirà nuovamente che mi ama. Ed io? ed io?
Bisognava scongiurare il pericolo. Ella provava un senso di vertigine, e si aggrappava a qualcosa per salvarsi: e questo sostegno — non ne vedeva altro, oramai, — era la finzione.
Ma Piero Guidi non rispose neppure alla domanda.
— Io voglio bene ad un’altra donna.... lei sa chi è, Lia! Perchè e come non so. Sappiamo mai nulla, noi, delle forze occulte che ci sospingono? Qualche volta anch’io mi son compiaciuto a dire il contrario: ma adesso mi accorgo che noi non sappiamo nulla, proprio nulla di noi stessi. Anche voi lo sapete, Lia.... È vero?
— È vero, — ella ripetè.
Allora egli tese la mano per cercare quella di lei: ma d’un balzo ella indietreggiò e si mise a piangere, a capo chino, come una colpevole.
Piero la guardò stupito, senza muoversi.
— Perchè piange? — si domandò.
Lia piangeva d’amore: ma l’uomo non aveva mai veduto un simile spettacolo e credeva che si piangesse solo di rabbia o di pietà.
— Ella ricorda ancora il suo passato, — disse tra sè, appunto perchè egli, in quel momento, si sentiva ancora avvinto al suo. — Bisogna aspettare.
— Si calmi. Pensi che lei è libera, mentre io non lo sono più. Basta, basta: sono stanco di soffrire e di veder soffrire. Andiamo un po’ fuori, piuttosto, — aggiunse alzandosi, — qui si soffoca, e la notte è così bella. Andiamo, venga....
Lia indietreggiava sempre. All’improvviso cessò di piangere, non solo, ma si mise a ridere, tanto l’idea di andar a passeggio con lui le parve puerile.
— E i bambini? Li lascio soli?
Andò a guardarli e non tornò più; ma si affacciò di nuovo alla finestra e sentiva le ginocchia tremare.
Questa fiacchezza non la abbandonò per molti giorni. Ella la attribuiva al caldo improvviso, ai venti di maggio carichi di essenze e di ardori: ma in fondo non s’ingannava: era la primavera del suo amore che passava....
L’idea fissa di mandar via di casa Piero tornò a turbarla. Ma come? Aveva paura di dirglielo e di sembrargli ridicola.
Tutto di nuovo le apparve difficile: le inquietudini per l’avvenire la ripresero.
Di notte non dormiva, fantasmi strani la circondavano, vaghi e cangianti come nuvole in un giorno burrascoso; il minimo lamento dei bimbi la faceva tremare.
A questa tensione nervosa contribuiva l’eccesso del lavoro. Ella faceva tornar presto a casa i bimbi, nel pomeriggio, per poter copiare a macchina fino al cader della sera, e diceva puerilmente a Salvador:
— Bisogna ch’io guadagni.... ch’io guadagni molto per mandar via di casa gli estranei. Vivremo soli..... vivremo tranquilli.
Allora egli si rassegnava: col visetto appoggiato alla mano e il gomito al davanzale della finestra, guardava il cielo rosso del tramonto e fantasticava. Vedeva il mare, piroscafi, corazzate, velieri, e lunghe file di numeri e soldati che andavano alla guerra. Cristoforo Colombo, Giulio Cesare e Napoleone, Pinocchio e Tobiolo, elefanti e leoni popolavano la sua immaginazione, finchè il problema della rotazione della terra o quello del numero delle stelle non ne accresceva il subbuglio. Problemi minori seguivano.
— Mamma? Le lepri dormono con gli occhi aperti?
Alle sue domande si univano quelle di Nino, e la mamma, curva sulla sua macchina, rispondeva con voce stanca, lontana, finchè il cielo diventava tutto violetto ed ella si alzava e andava in cucina per preparare la cena.
Nino leccava un cucchiaio e domandava:
— Perchè il fuoco brucia? Perchè il latte è bianco?
Ma la mamma aveva appena cominciato a rispondere quando Salvador interrompeva di apparecchiare la tavola per correre in cucina.
— Perchè Dio non ha creato il mondo in un giorno solo? Mamma?
— Prima deve rispondere a me!
— Sta zitto, tu!
Nino strillava, poi bagnava di lagrime il cucchiaio perchè non riusciva a moderare la prepotenza di Salvador.
Ma la mamma faceva bollire il Latte e li rappacificava rispondendo a turno. I perchè non finivano mai, ed anche le risposte erano inesauribili. Solo alle sue domande intime Lia non sapeva rispondere!
*
Un giorno ai primi di giugno, mentre ritornava coi bimbi da Villa Borghese, incontrò il dottor Fontana. Egli tornava dalla casa di un ricco bimbo malato e doveva visitarne altri: però non si affrettava; il suo aspetto calmo e distratto era quello di un uomo che vive in un mondo tutto suo, dalle vie larghe senza ostacoli e l’orizzonte sempre pieno di luce: ed egli camminava per le vie ingombre della città con la stessa calma con cui attraversava il suo mondo ideale: l’incontro il più sorprendente non lo scuoteva.
Salvador che precedeva la mamma e Nino fu il primo a riconoscere da lontano il dottore. Si volse arrossendo e disse:
— Eccolo! Eccolo!
Lia pensava a un altro e trasalì: quando vide invece gli occhiali turchini, il viso distratto, la bocca triste e ironica del dottore provò un senso di vergogna. Sapeva d’essere mutata, e aveva paura ch’egli le leggesse in viso la sua passione.
— Come va? Come va? — egli disse, riconoscendola.
— Benino. Quest’anno l’orecchio lascia in pace Salvador....
— Bene, bene. E lei?
— E io....
Egli la guardava, e i vetri turchini dei suoi occhiali sembravano a Lia due lenti fortissime capaci di scrutare il male della sua anima.
— .... io sono un po’ stanca.
— Che fa? — egli domandò un po’ brusco.
— Nulla di straordinario! Ma già fa tanto caldo. Adesso però andremo un po’ fuori.... al mare.
— Bene, bene. Ma non tardi molto. Ha già pronta la casa? È grande, ariosa?
I bimbi ridevano dalla gioia, guardandosi, e Salvador non potè frenarsi oltre.
— È un gran villino di due camerette.... piccole, piccole, piccole....
Lia aggiunse, mortificata:
— È una casetta terrena, ma bene esposta ed ariosa.
— Non si trova altro? Non le converrebbe prendere un appartamentino, ma in alto?
— Son tutti piani di villini, troppo cari per noi.
— Cerchi, cerchi: forse ne troverà qualcuno adatto per lei. Aria, aria! E vada presto.
— Oh, al più presto! — ella disse sospirando.
L’idea di partire diventava quasi un’ossessione: per giorni e giorni la casetta terrena, l’appartamentino in alto, la spiaggia, l’incontro col dottore, furono il tema dei discorsi fra lei e i bimbi. Una mattina Salvador, che qualche volta andava a portare il caffè al signor Piero, le disse:
Anche lui vuole andare ai bagni, sai, mamma. Dice che ha già preso in affitto la casina delle glicine, sai, quella dove c’è la vecchietta, che ci inviterà tutti....
Questa volta Lia s’irritò sul serio.
— Ma cosa sei andato a chiacchierare? Che avrà detto il signor Guidi? Che ti ho consigliato io? No, Salvador, tu non devi riferire a nessuno i discorsi che si fanno tra noi.
— Ma se vuole, il signor Piero può mettersi a spiare dietro l’uscio.
— Egli non è un monello come te per far questo!
— Io non ho mai spiato, questo te lo assicuro, mamma! Avrò tutti i difetti, ma questo no, mamma! — protestò Salvador, e prese un’aria contrita e desolata; e quando portò il caffè al signor Piero, l’indomani mattina, dopo aver profittato della penombra del corridoio per avvicinare le labbra alla tazzina, chiuse la bocca proponendosi di non pronunziare una parola.
— Che hai? — disse Piero insospettito. — La mamma ti ha sgridato?
Che rispondere? O una bugia, o rivelare i fatti propri. Salvador preferisce tacere.
— Che cosa ti ha detto la mamma? Che sei un chiacchierone?
Salvador solleva gli occhi sospettosi. Che il signor Piero abbia spiato dietro l’uscio?
— Parla. Vuoi un po’ di caffè? Su, sta allegro, chè presto andremo al mare, nella bella casina delle glicine....
Salvador dimentica i suoi propositi, ma dice con tristezza:
— La mamma non vuole.
— Chiama la mamma: va, dille che desidero parlare con lei.
— Non le dirà che ho chiacchierato.
— No, no: anzi! Va, carino.
Appena Lia entrò egli le disse, in fretto, guardandola quasi timidamente:
— Senta Lia, non mi sgridi. Ho fissato la casina delle glicine a nome suo. Lei ci deve andare, coi bimbi, e presto. Se vuole io non ci passerò neppure.
Lia corrugò la fronte ma un raggio di gioia le illuminò gli occhi. Egli pensava a lei, dunque? E perchè diceva «se vuole io non ci passerò neppure»? Credeva che ella avesse paura di lui? Si avvicinò, raccolse il giornale dal tappeto, rimise in ordine qualche oggetto.
— Ha fatto male. Io non sono in condizioni di prendere in affitto la casina.
— Ma non è lei che l’ha presa; son io!
— Io quest’anno conto di andare in Sardegna.... Poco distante dal mio paesetto c’è la spiaggia....
Egli la fissò, e per un attimo i suoi occhi ripresero una luce fredda e cattiva.
— Signora Lia, perchè vuol fuggire?
Lia sollevò il capo.
— Fuggire? Perchè? Voglio semplicemente far economia.
— Ed io, dunque, non sono neppure padrone di fare un regalo ai suoi bimbi?
— Essi non potrebbero accettarlo.
— Perchè? Il dottore le ha detto che la casetta terrena non è igienica; è adatta per cacciatori, non per bimbi delicati come i suoi. Non sia irragionevole, dunque. Un viaggio in Sardegna le costerebbe molto di più che prendere un locale adatto per lei e per i bimbi....
— Ma io ho dei parenti, laggiù.
— Li visiterà un altr’anno! — egli disse quasi irritato. — Per quest’estate ella andrà nella casina delle glicine: o ha paura di me? Venga qui; mi lasci parlare. Di che ha paura?
Lia era diventata pallidissima: l’amore e l’orgoglio scintillavano nei suoi occhi.
— Ma di che cosa? Non capisco.
— Lei capisce benissimo, invece! Ma è cattiva.... perchè? Perchè sempre così cupa, così inutilmente fiera? Cattiva, sì, con me, coi suoi bambini, con sè stessa. Che crede ch’io non la veda? Lei è malata, deperisce e si uccide, sì, sì; non se ne accorge che si uccide? È questo il suo dovere?
— Qual è il dovere?
— Vivere, Lia! Vivere e amare.
— Ho vissuto e amato: adesso basta.
— Adesso basta? Perchè? Vada, vada, — egli gridò, sollevandosi sul gomito, — curi la sua salute, vada fuori di Roma. La casina è a sua disposizione fin da oggi: le ripeto, se vuole io non ci passerò neppure; se vuole posso andar via di qui: tutto, purchè non la veda soffrire!
Allora Lia s’appoggiò ai piedi del letto: tremava di nuovo, come quella sera alla finestra, ma d’un diverso turbamento. Non aveva più paura; le sembrava che se anche avesse appoggiato la testa sul petto di lui, egli non le avrebbe fatto che del bene.
— Lei è buono.... — mormorò.
— Non è vero! Se lo fossi, riuscirei a farmi voler bene da lei, ad acquistarmi almeno la sua fiducia.
— Ma lei l’ha tutta!
— Non è vero! Lei mi considera come un suo nemico; mi sfugge, o si drizza davanti a me come un muro funebre. Perchè, dica? Che le ho fatto? Le ho mancato di rispetto? Che diritto ha di diffidare di me?
— È vero, nessuno.
— E allora?
— E allora?
Si guardarono. Egli era bello, appoggiato ai cuscini come un convalescente: i suoi occhi erano di nuovo dolci, teneri, non più lucenti di invito, ma supplichevoli: ma Lia oramai si sentiva rassicurata. «Ha paura di me?» No, non aveva più paura, ma nello stesso tempo sentiva di perdere un po’ del suo orgoglio e della sua fierezza. Già cedeva, davanti a lui, e quel che era peggio, si sentiva felice di offrirgli qualche cosa.
Ed egli non la lasciò più in pace con l’offerta della casina e il consiglio e la preghiera di andar presto fuori di Roma.
Anche a sè stesso egli mascherava, con la scusa della salute di Lia, la sua smania di incontrarsi con lei in un altro ambiente.
L’appartamentino di via Sallustiana era troppo pieno di ricordi, che si frapponevano fra loro come veli funebri. Là dentro Lia non avrebbe mai ceduto; e anche lei, in fondo al suo cuore diffidente, intuiva i progetti di lui, ma scacciava con ostinazione i suoi dubbi. Era già così dolce lasciarsi ingannare!
Finì con l’accettare l’offerta della casina, col patto di pagare la metà del fitto.
— E lei sa che certe cose non si pagano, signora Lia! Nessun compenso equivale alla gioia che mi dà seguendo i miei consigli.
— Ma perchè fa questo?
— Non lo sa? Perchè le voglio bene.
— Io non posso accettare il suo affetto.
Egli le afferrò le mani, ma subito la respinse, quasi sdegnato.
— Perchè non può accettarlo? E male, forse? Mi dica, mi dica: è male? Non può dunque esistere un affetto puro e disinteressato? Dunque l’ideale non esiste più; dunque non esiste più nulla, al mondo, nulla di bene? Solo il male, sempre il male? Lei stessa, Lia, non è un esempio di bene? Se lei mi vuol bene commette del male? Dica, dica: ma dica la verità. Ed io non posso essere come lei? Non posso rassomigliarle? Io sono stanco del male, Lia, e so che dal male scaturisce solo il male. Perchè non posso essere buono? Me lo proibisce, lei? Vuol togliermi il conforto di voler bene a qualcuno? Di amare solo per chiedere all’amore il bene? Risponda! Dica almeno che mi capisce!
Era sincero? Lia non ne dubitò un istante, ingenuamente disse:
— Il male è superiore a noi, è fuori di noi, e spesso ci assale a tradimento, come un nemico in agguato.
— Non è vero! O almeno non è vero nel nostro caso. Che male può esserci nella nostra amicizia, se io ho stima e rispetto di lei, ed ella ha fiducia in me? Abbiamo vissuto per tanti mesi estranei e nemici; perchè non possiamo d’ora innanzi essere il contrario?
La guardava coi suoi occhi cangianti, dolci e teneri a momenti, a momenti freddi e minacciosi: e a Lia pareva che egli volesse dirle:
— Se avessi voluto, se volessi, non potrei farti del male?
Invece, se per caso si trovavano vicini, egli prendeva subito un atteggiamento da protettore: così alto curvava un po’ il viso sul viso di lei, e le sue mani bianche ed agili, mani da carezze, non tentavano, qualche volta, che di stringer le mani di lei.
L’illusione che fra un uomo e una donna giovani e soli possa esistere un amore ideale, e un’ebbrezza fatta, non di passione, ma di orgoglio, di sicurezza delle proprie forze, sostennero Lia fino al giorno della partenza. Ma una mattina ai primi di luglio — avevan dovuto ritardare la partenza a causa degli esami di Salvador — Piero Guidi accompagnò la famigliuola alla stazione, comprò i biglietti, s’incaricò di collocare bene le valigie e i bambini. Il portiere grasso e bonario aveva fatto da facchino: e sudava e ansava, rosso nel suo camiciotto azzurro come un bambinone col grembiale, ma i suoi occhi celesti esprimevano una dolce e innocente compiacenza.
Prese Nino per le ascelle e lo sollevò per metterlo dentro lo scompartimento; poi guardò Lia e socchiuse l’occhio destro.
— Buon viaggio e buon divertimento, signorina. Finalmente ci siamo, eh?
Quando tutto fu a posto, Piero, che era salito nello scompartimento, baciò i bambini e strinse la mano a Lia: saltò giù e si fermò sull’orlo del marciapiede, e il suo viso esprimeva un’ansia vaga, come del resto appariva sui volti di altri uomini che avevano accompagnato le famiglie al treno e aspettavano il momento della partenza.
Lia si sporse dal finestrino, al di sopra delle teste di Nino e Salvador: vide il viso bianco e preoccupato di Piero, il viso rosso e l’occhio azzurro del portiere che ammiccava innocentemente, e subito sentì che «qualche cosa di nuovo» era accaduto.