Merope (Alfieri, 1946)/Atto secondo
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ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Polifonte, Soldati.
SCENA SECONDA
Polifonte, Egisto.
tu se’, per uomo di corrucci e sangue.
Egisto Pur troppo è ver, contaminato io vengo
di sangue, e, forse, d’innocente sangue:
mira destino! ed innocente anch’io.
Polif. Di qual terra se’ tu?
Egisto D’Elide.
Polif. Il nome?
Egisto Egisto.
Polif. Il padre?
Egisto Oscuro, ma non servo.
Polif. A che venivi?
Egisto Giovenil talento,
vaghezza mi spingea.
Polif. Chiaro mi narra,
e narra il ver, come tu mai giungessi
a eccesso tanto. Ove a sperar ti avanzi
Egisto In altra guisa, io nol saprei: menzogna
del mio libero stato non è l’arte. —
Io m’era al vecchio genitor di furto
sottratto incauto; e giá piú mesi attorno
men giva errando per cittá diverse,
quando oggi al fin quí m’avvíava. Un calle
stretto e solingo, che ai pedon dá via
lungo il Pamíso, con veloci piante
venia calcando, impazíente molto
di porre il piè nella cittá, che mostra
mi fea da lungi vaga, e in un pomposa,
d’alti palagi e di superbe torri.
Quand’ecco, a me di contro altr’uom venirne,
piú frettoloso assai: son d’uom che fugge
i passi suoi; giovin l’aspetto; gli atti,
arroganti, assoluti: ei di lontano
con man mi accenna, ch’io gli sgombri il passo.
Angustissimo il loco, ad uno appena
adito dá: sul fiume alto scoscende
il mal sentier per una parte; l’altra,
irta d’ispidi dumi, assai fa schivo
d’accostarvisi l’uomo. Il modo spiacque
a me, libero nato, uso soltanto
d’obbedire alle leggi; e a ceder solo
ai piú vecchi di me: m’inoltro io quindi.
Ei, con voce terribile; «Ritratti,
o ch’io...» mi grida. Ardo di sdegno allora:
«Ritratti tu» gli replico. Giá presso
siam giunti: ei caccia un suo pugnal dal fianco,
e su me corre: io non avea pugnale,
ma cor; lo aspetto di piè fermo; ei giunge;
io sottentro, il ricingo, e in men che il dico,
l’atterro: invan dibattesi; il conficco
con mie ginocchia al suol: sua destra afferro
con ambe mani; ei freme indarno, io salda
debil si scorge al paragone, a finta
mercede viene; io ’l credo, il lascio; ei tosto
a tradimento un colpo, qual quí il vedi,
mi vibra; i panni squarcia; il colpo striscia:
lieve è il dolor, ma troppa è l’ira: io cieco,
di man gli strappo il rio pugnal;... trafitto
nel sangue ei giace.
Polif. Assai tu se’ valente,
se veritiero sei.
Egisto Troppo mi dolse,
sfuggito appena il colpo di man m’era.
Non uso al sangue, io m’avvilii, temetti;
che far, non mi sapea: prima il coltello
lanciai nel fiume; indi pensier mi venne
pur di lanciarvi il misero; di torre
ogni indizio cosí, parvemi; e il feci. —
Vedi, se avvezzo era a’ delitti; ahi folle!
cosí com’era insanguinato, io corsi,
senza saper dove mi andassi, al ponte.
Ivi da’ tuoi, ch’io non fuggía, fui preso;
e quí m’han tratto. — Io nulla tacqui; il giuro.
Polif. Simile assai parmi il tuo dire al vero:
tu ben mi fai certa pietá; ma il chiede
giustizia pur, ch’abbi tua pena. Io voglio,
non a malizia, ascriverti a sventura
l’aver tu il corpo, semivivo forse,
sepolto lá nei vorticosi gorghi
di rapid’onda: ma il delitto tuo
quindi aggravasti, anco tu stesso il vedi:
che s’uom malvagio era colui, qual dici,
quali pur troppo attorno van molti altri,
torbidi figli di civili risse,
meglio era assai per te. Forse a salvarti
sol basterebbe or dell’ucciso il nome.
Egisto Me misero! s’egli è destin ch’io cada
che posso io dirti, o re? qual vuoi piú pena
pronto a soffrir son io. Forte m’incresce;
ma piú, se in colpa io mi sentissi. Ignuda
parla per me la mia sola innocenza:
avi non vanto, oro non ho; sembiante
ho di malvagio: e il sono, ah! il son, d’avervi,
miseri miei genitori cadenti,
disobbediti, abbandonati, posti
in angoscia mortale; anco anzi tempo
tratti forse a morire. — Ah! s’ei respira
quel mio buon padre; ei, che null’altro diemmi,
che incorrotti costumi; ei, ch’alto esemplo
di onesta vita, e vivo specchio m’era;
or che dirá in udir, ch’io d’omicida
supplizio ebbi in Messene? Ah! tal pensiero
m’è piú che morte duro.
Polif. Odi: convinto
di sparso sangue, il tuo dar tu dovresti
immantinente, il sai; ma pur, piú mite
a te mi fa il tuo dir semplice e franco.
Sospender vo’ per or, finch’io piú certi,
sí dell’ucciso, che di te, ritragga
indizj e lumi...
SCENA TERZA
Merope, Polifonte, Egisto.
Tu vieni a me? Cagion qual mai?...
Mer. La nuova,
che or ora udii, mi guida. È ver, che ucciso,
fu dianzi un uomo, e che nell’onda ei poscia
dall’uccisor scagliato?...
Polif. È ver, pur troppo:
Mer. Che miro?...
Questi?... Oh qual strana somiglianza io veggo!
Polif. Se del mio regno la quíete interna
mi prema, il sai: pur, se il rimiri o ascolti,
quasi innocente il credi.
Mer. È ver; l’aspetto
di malvagio ei non ha: nobil sembianza...
Ma, oimè! di sangue egli è grondante ancora.
Egisto Donna, e chi ’l niega? Questo sangue a prima
troppo mi danna: ma, se stato io fossi
dotto in versarlo, anco in mondarmen dotto
stato sarei: poca onda, e fermo viso,
nelle tenebre eterne avrian sepolto
il fallo mio. Ma, credi, assai piú dura
pena, che il re non mi apparecchia, io provo
nel mio rimorso. Eppur, ch’altro potea?
Sol, peregrino, ignoto, armi omicide
non io perciò meco arrecava: il ferro,
che nel giovin superbo in mia difesa
fui sforzato adoprar, di man gliel trassi...
Ah! credi; al sangue non son io cresciuto.
Mer. Era l’ucciso un giovinetto?
Egisto Ei pari
m’era d’etá.
Mer. Che sento?...
Polif. E par, ch’ei fosse
non ben dritt’uom, se dice il ver costui.
Fuggia correndo per romito calle...
Egisto Anzi, or sovviemmi, ch’ei da pria celava
col pallio il volto in parte...
Mer. Ei s’ascondeva?...
Fuggia?... — Ma tu, nol conoscevi?
Egisto Affatto
stranier quí sono; ed ei (l’ho sempre innante)
straniero anco mi parve;... anzi, era, al certo;
mostravan piú che di Messene.
Mer. Oh cielo!...
d’Elide?...
Egisto Sí; pari alle mie; ch’io sono
pur d’Elide...
Mer. Tu sei?...
Polif. Ma, perché tanto
bramosa tu, sollecita?...
Mer. Che parli?...
Io sollecita?...
Polif. Parmi. — In somma, un vile
stranier, cui svena altro straniero oscuro...
Mer. Chi sa qual fosse?... È ver... Non è ch’io prenda
pensier di ciò...
Polif. Per me, s’io nol dovessi,
tal reo per certo io non udrei. Tu, scevra
d’ogni affetto, stupore in ciò non poco
mi arrechi: or che ti cale?...
Mer. In me,... fu... mera
brama d’udire. — Eppur, men caso assai,
ch’arte mi par, l’aver cosí dagli occhi
d’ogni uom tolto quel corpo: e tu sí mite
ver l’uccisor, che tanto in se securo
stassi... Non so.
Egisto Timor m’indusse a trarre
nell’onda il corpo; arte non fu: securo
io sto, qual uom conscio a se stesso in core.
Piú che nol pensi, addolorato io stava;
ma tanto or piú, che te dolente io veggio,
dubbia, e tremante per l’ucciso...
Mer. Io dubbia?...
Io tremante?... Nol son... Ma, gl’infelici
pietade han tosto delle altrui sventure.
Egisto Dunque di me pietá ti prenda. Io sono
misero assai, piú che l’ucciso; e il merto
senza ragione uccider me. Che valse,
ch’io il pur vincessi, se in piú infame guisa
io sto per perder la mia vita? E s’anco
non mi vien tolta, a cor gentil qual puossi
dar pena mai, che la vergogna agguagli?
Mer. Alto cor tu racchiudi in basso stato:
quasi il tuo dir fa forza... Eppur,... se a luce
l’ucciso, o il nome almeno...
Polif. Or, poiché nuova
brama d’udir tai cose oggi ti prende;
poi ch’io mi avveggio, o Merope, che impone
freno al tuo favellar l’aspetto mio,
né so perché...
Mer. Freno?... Che dici... Io teco
il lascio.
Polif. No. Perché da lui piú sappi,
se piú v’avesse, io teco il lascio. A farti
arbitra e donna d’ogni cosa, il sai,
son presto, e il bramo; il sei tanto piú dunque
d’affar sí lieve. A te costui si aspetta;
di lui disponi a senno tuo. Sia questo
l’indizio primo, che da me non sdegni
ogni mio dono.
Mer. E che?...
Polif. Di ciò ti prego.
Principio fosse al tuo regnar quest’atto!
SCENA QUARTA
Merope, Egisto.
Mia giovinezza per me non ti parla?
Puro non vedi in sul mio volto il cuore?
Non entri a parte del mortale affanno,
madre anche tu? deh! della mia...
Mer. Pur troppo
io ’l fui,... pur troppo!... ed or, chi sa?... — Respira
dunque ancor la tua madre?... E il padre tuo
d’Elide è pure?
Egisto Ei di Messene è figlio.
Mer. Di Messene? che ascolto?
Egisto Io da bambino
dir gliel’udiva.
Mer. È Polidoro il nome
forse?...
Egisto Cefiso è il nome.
Mer. E l’etá?...
Egisto Molta.
Mer. Oh ciel!... — Ma pure il nome... — E di qual grado,
di quai parenti era in Messene? il sai?
nobile?...
Egisto No: di pochi campi ei donno,
cui per diletto coltivar godea
colle robuste libere sue mani,
vivea felice, del suo aver contento,
colla consorte e i figli.
Mer. E di sí dolce
vita chi ’l trasse; e perché mai sua stanza
cangiava?
Egisto Ei spesso a me narrò, che interne
dissensíon di questo regno a fuga
l’avean costretto; e che soverchia possa
d’alto nemico il perseguia. Quí tutto
era torbidi e sangue; onde ei tremante
per la sua prole... Oh quante volte io ’l vidi,
ciò rammentando, piangere!
Mer. Tu nato
dunque in Messene sei? Tuo padre seco
ti trafugava in Elide?
miei maggiori fratelli ei seco trasse,
cui morte cruda gli furò poi tutti.
Io sol bevvi le prime aure di vita
in Elide; a lui figlio ultimo nacqui; —
misero padre! ed ultimo ti resto:
se pur ti resto! — In cor, giá fin dai primi
giovenili anni miei, desio m’entrava
di Messene veder, quasi mia culla,
poiché il padre vi nacque.
Mer. Oh ciel! Che parli?... —
Giovine egli è, di quella etade appunto...
e quel cntegno,... e quei sembianti... Ei pare,
eppur non è. — Ma dianzi anco dicevi,
che l’ucciso era d’Elide.
Egisto Mel parve.
Mer. Ei s’ascondeva?
Egisto Sí.
Mer. Di cor?...
Egisto Superbo.
Mer. Di vesti?...
Egisto Abbiette.
Mer. Fuggitivo?...
Egisto Ratto,
quasi inseguito, e di sospetto pieno
venia ver me.
Mer. Barbaro, e tu l’hai morto?
Egisto Uccider me volea.
Mer. Ti disse ei nulla
morendo?
Egisto Io stetti un cotal po’ sovr’esso,
piangendo... Ei fra i singulti era di morte...
Mer. Ahi misero!...
Egisto Sovviemmi... or... sí;... che avrebbe
ogni ferocia impietosito; in voce
di pianto, singhiozzando, ei domandava
Mer. La madre? E tu fellone,
perfido, e tu pur l’uccidevi? e il corpo
ne scagliavi nell’onda? Oimè!... Perduto...
Egisto Me misero! che feci? Il mio delitto
te in alcun modo offende? — Or, tu n’avesti
balía dal re, di me disponi; e n’abbi
alta vendetta. — Oh ciel! come potea
offender io te, Merope, cui sempre
nel mio cor venerai? — Sapea dal padre
le tue dure vicende: al pianger suo
piansi piú volte anch’io: la brama ardente
di pur vederti anco pungeami. Spesso
col padre antico io porsi per te voti
al ciel; con man, ch’era innocente allora,
spesso per te fiamma di puro incenso
arsi davanti ai piccioli miei Lari. —
Ed io ti offesi? Ah! mi punisci: il merto,
il chieggo, il vo’. — Ma, come mai spettarti
potea colui, che a truce aspetto univa
cor malnato?... Ma forse, ei tal non era:
necessitá ’l fea tristo... Oimè! che dissi?
Se tu il compiangi, egli è innocente; il tristo
io solo il son; deh! fanne in me vendetta.
Mer. — Ma, qual parlar! qual piangere!... Che fia?
Mal mio grado ei mi tragge a pianger seco. —
Di me il tuo padre ti parlava?
Egisto Oh quante
volte di te, del tuo trafitto sposo,
de’ figli tuoi narrommi!
Mer. Oh ciel! de’ figli?...
Egisto Sí; dei tre figli tuoi, svenati tutti
da rio tiranno, il cui feroce aspetto
fremer mi fea quí dianzi. Assai piú grato
m’è in te il rigor, qual sia, che in lui pietade.
Mer. — Piú non reggo al suo dire. Inchino appena
a furor mi sospinge: appena io lascio
tacer pietade, ecco, s’io ’l miro, o l’odo,
a lagrimar son risospinta.
Egisto In core
quale hai battaglia? Infra te stessa parli?
Pietá ti fo? che non l’ascolti?
Mer. Ahi lassa!
che mai farò? — Né condannar ti posso,
giovinetto, né assolverti. Rimani
entro la reggia intanto: io vo’ fra poco
rivederti. Ben pensa; in te ripensa
ogni piú picciol caso di tua vita:
e in un rimembra ogni atto, e motto, e segno
dell’ucciso. Tornarti anco in pensiero
dei del tuo padre ogni piú lieve detto.
Ma, sei tu certo che il buon vecchio il nome
mai non cangiasse? di’.
Egisto Certo ne sono.
Io, balbettando, a dir Cefiso appresi. —
Quando ei poi mi dicea, che di Messene
fuggito s’era, e m’imponea ch’a ogni uomo
il tacessi, del nome anco mi avria
detto il ver, se ciò fosse: era ei ben certo,
ch’io ’l tacerei pur di mia vita a costo.
Ch’egli è Messenio a te svelai; ma nulla
poteva io mai nasconderti?
Mer. Deh! basta;
cessa per ora. — Alle mie stanze è forza
ch’io mi ritragga a sfogar lungamente
il rattenuto pianto. — A te la reggia
sola assegno per carcere. Di nuovo
udrotti or ora; e il tutto ridirai:
a parte a parte, a tutto appieno, e a lungo,
risponderai: ch’io veritier ti trovi...
Ma, tu non hai di mentitor l’aspetto.
SCENA QUINTA
Egisto.
martíro al mio parlare? Or, piú che tigre,
mi si avventa adirata: or, piú che madre,
dolce mi parla; e tenera e pietosa
mi guarda, e piange. A lei qual può mai doglia
quell’ucciso arrecare? Ov’ella affatto
orba madre non fosse, e da gran tempo,
parria che a lei svenato avessi un figlio.
Ma pur, chi sa?... forse alcun altro avea,
che caro l’era: o a’ suoi disegni forse
stava aspettando alcuno; e quei... Ma invano
io vò dicendo; io nulla so. — Ben vedi,
Egisto; or vedi, se diceati vero
il tuo vecchio buon padre: «I grandi mai
non abbassarti a invidíar; son essi
piú infelici di noi». Vero è, pur troppo:
né posso omai del mio destin dolermi,
qual ch’io me l’abbia, ove pur tragger veggo
sí dolorosa vita da tanto alta
donna, or deserta. — Ma, giá giá si annotta:
poiché l’uscir di quí m’è tolto, il piede
nel regal tetto inoltrerò: di questo
sangue mondarmi voglio. Ah! cosí tormi
potessi il fallo mio! — Ma, giusto è il cielo;
e tutto sa: puniscami, s’io il merto.