Merope (Alfieri, 1946)/Atto primo

Atto primo

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Personaggi Atto secondo

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ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Merope.

Merope, a che pur vivi? Omai piú forse

tu non sei madre. — A che tre lustri in pianto
ho in questa reggia di dolor trascorsi?
Suddita a che d’un Polifonte infame,
dove sovr’esso io giá regnai? d’un mostro,
che il mio consorte, e due miei figli, (oh vista!)
mi trucidò su gli occhi... Uno men resta,
di sventurate nozze ultimo pegno;
quel ch’io serbava alla vendetta, e al trono;
sola speranza mia; sola cagione
del mio vivere... O figlio, a che mi valse
l’averti a stento dal crudel macello
sottratto io stessa?... Ahi giovinetto incauto!...
Ecco or ben l’anno, che il segreto asilo
ch’ei certo aveva a Polidoro appresso,
abbandonò... Quell’infelice vecchio,
che quasi padre gli è, d’Elide muove
giá da sei lune, e tutta Grecia scorre
di lui cercando: e piú di lui non odo,
né del figliuolo: oh dubbio orrendo!... Io deggio,
per piú martíre, in me tener racchiusa
sí fera doglia... Uno, in Messene intera,
non ho che meco pianga: in su la tomba

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del mio Cresfonte ritornar pur sempre

a lagrimar degg’io... Se non ti sieguo,
deh! perdona, o consorte: al comun figlio
vissi finor; s’ei piú non è... Ma, viene...
Chi?... Polifonte! Sfuggasi.


SCENA SECONDA

Polifonte, Merope.

Polif.   T’arresta.

Perché sfuggirmi? Io gravi cose a dirti...
Mer. Io niuna udirne da te voglio...
Polif.   O donna,
dunque né tempo, né ragion, né modi,
né preghi miei, nulla bastar può dunque,
a raddolcir l’ira tua acerba? Il fero
tuo duol, ch’io tender quasi a fin vedea,
dimmi, perché da ben un anno or forza
vie piú racquista; e te di te nemica
cotanto fa? Tu mi abborrisci; e il vuole,
piú che il mio fallo, il mio destin, pur troppo. —
Tel giuro, io volli al tuo consorte il seggio,
non mai la vita torre: ma la foga
come affrenar de’ vincitor soldati?
Ebri di sangue, i miei guerrier fin dentro
a questa reggia il perseguian; né trarlo
io di lor mano vivo potea. Nemico
gli fui, ma a dritto. Io pur del nobil sangue
degli Eraclidi nato, a lui lo scettro
abbandonar non ben potea, soltanto
perché l’urna gliel dava. — Ma, di madre,
e di consorte il giusto duol non ode
ragion, né dritti, ancor che veri. — Io bramo
sol di saper, donde il tuo antico sdegno
esca novella or tragge. Ognor piú forse

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in raddolcir tua sorte io non m’adopro?

Qual si può far d’error guerriero ammenda,
ch’io tutto dí teco non faccia?
Mer.   Or, vuoi
ch’io grazie a te renda pur anco espresse,
del non m’aver tu tolto altro che il regno,
e il mio consorte, e i figli?...
Polif.   I figli? In vita
uno ten resta...
Mer.   Ella è menzogna. Oh fosse
pur ver cosí!... Tutto perdei: trafitto
io ’l vidi pur quell’innocente... Ahi crudo!
Godi tu forse il lagrimevol caso
udir membrar da me? L’orrenda notte,
che i satelliti tuoi scorreano in armi
per questa reggia ove tutto era sangue,
e grida, e fiamme, e minacciar; col padre
i figli tutti, e i piú valenti amici,
tutti sossopra non andaro a un tempo?
Barbaro; e tu, sol per pigliarmi a scherno,
il pargoletto mio fanciul, che spento
pria col pugnal fu con tanti altri, e preda
poscia alle fiamme andonne, in vita salvo
da me il dicesti? Oh cor feroce! duolti
di non avere i tuoi spietati sguardi
pasciuti pur del lagrimoso aspetto
del picciol corpo esangue? Assai ben gli altri
cogli occhi tuoi vedesti; con l’iniqua
tua man palpasti... Ahi scellerato!...
Polif.   Donna,
s’io ’l credo in vita, è che il vorrei. Quel primo
bollor, che seco la vittoria tragge,
queto era appena, in cor m’increbber molto
quegli uccisi fanciulli; ai quali io, privo
di consorte e di prole, avrei col tempo,
non men che re, potuto anch’esser padre.

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Ben lo vedi tu stessa; a mia vecchiezza

quale ho sostegno omai? Che giova un regno
a chi erede non ha?... Pur, poiché il figlio
spento tu assévri, e il credo;... almen ti posso,
se il figlio no, render consorte, e trono...
Mer. Che ascolto! Di chi parli?
Polif.   Di me parlo.
Mer. Oh nuovo, inaspettato, orrido oltraggio!
L’insanguinata destra ad orba madre
ardisci offrir, tu vil, che orbata l’hai?
Del tuo signore al talamo lo sguardo
innalzar tu, che lo svenasti? Il ferro,
quel ferro istesso appresentar mi dei;
nol temo, il reca... Ma, crudel, tu stimi
maggior supplizio a me il tuo tristo aspetto:
quindi ad ogni ora innanzi a me ti veggio;
quindi, a mi accrescer doglia, osi spiegarmi
tai sensi rei.
Polif.   Sfogo di madre afflitta,
ben giusto egli è. Meco il tuo sdegno appieno
esala or tu. — Ma, che vuoi dirmi? eterno
è in te il dolore? alla ragion piú loco
non dai? — Dimmi: e non vivi? Or, giá tre lustri
in pianto vivi, ed in mortale angoscia; —
pur la sopporti. Ogni piú cara cosa
ti è tolta, dici; e nulla al mondo temi,
nulla ami, nulla speri: — e in vita resti?
Dunque, in dar tregua a’ tuoi sospiri, ancora
senti che un dí per te risorger nuova
letizia può: dunque cacciata in bando
non hai per anco ogni speranza.
Mer.   Io?... Nulla...
Polif. Sí, donna, tu: ben fra te stessa pensa;...
vedrai, che forse il riavere... il... regno,
men trista vita a te potria...
Mer.   Ben veggo;

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padre non fosti mai: tutto tiranno

tu sei; né vedi altro che regno. I figli,
e il mio consorte oltre ogni trono amai;...
e abborro te...
Polif.   Deh! Merope, mi ascolta. —
Sceglier compagna al mio destino io debbo.
Queta ogni cosa, omai Messenia tutta
mi obbedisce: ma so, che in cor di molti
viva memoria è di Cresfonte: il volgo
sempre il signor, che piú non ha, vorria.
Forse anco giusto, mansueto, umano
nel breve regno ei si mostrò...
Mer.   Tal era:
non s’infinse ei, com’altri.
Polif.   Ed io, vo’ teco
scendere all’arte forse? e, ciò che mai
non crederesti, irti or dicendo, ch’io
per te d’amor mi strugga? — Odimi. Spero
or col mio dire esserti grato io quanto
uom, che a te costa sí gran pianto, il possa. —
Cessò il periglio, e le crudeli voglie
cessar con esso: ecco il mio stato. Il tuo,
è mesta vita, inutil pianto, oscura
sorte: gli amici, se pur n’hai, si stanno
lungi, o il terror quí muti appien li tiene.
Tutto è per te quí forza; a ciò, piú ch’altri,
mi hai tu costretto: ma d’un sol tuo motto
tutto cangiar tu puoi. Parriami oltraggio
inutil, crudo, e, s’anco il vuoi, fatale
a me, l’offrire ad altra donna il trono
di Messene, giá tuo. Questa è la sola
non vile ammenda, che al fallir mio resti.
Finor buon duce infra continue guerre
videmi il campo; e dei Messenj il nome,
per me, terror suona ai nimici: a grado
mi fora or molto alla cittá mostrarmi

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ottimo re. Tu dunque ai tempi adatta

te stessa omai: ben lo puoi far tu vinta,
s’io vincitor nol sdegno. Orribil vita
tu in Messene strascini; e mai peggiore
trarla non puoi: per te far tutto io posso:
tu in guiderdon, se perdonarmi mostri,
puoi, tel confesso, or piú gradito forse
far mio giogo ai Messenj.
Mer.   Ai buoni farti
gradito? e chi il potrebbe? Altrui gradito,
tu, che a te stesso obbrobríoso sei?
Troppo il sai tu, quant’è abborrito il tuo
giogo: né gioja, altra che questa, or tempra
il mio dolore. — Ov’io me voglia infame
scherno, me vil, non che ai Messenj, al mondo,
e a me stessa, ch’è peggio, far per sempre;
di sposa allor man ti darò. — Se traggi
in me argomento di soffribil doglia
dal viver mio; d’error trarti ben tosto
spero, che poco al mio vivere avanza.


SCENA TERZA

Polifonte.

— Accorta invan; sei madre: e verrá giorno

che tradirai tu del tuo cor l’arcano,
tu stessa. — Ah sí! quel suo figliuol respira.
Ch’altro in vita la tiene? Eppur, ch’io ’l credo
spento, con lei finger mi giova. In piena
fidanza forse addormentar la madre
potrò, mentr’io pur sempre intento veglio...
Ma il vegliar, che mi valse? un sol messaggio
mai non mi accadde intercettar finora;
né scoprir mai qual egli s’abbia asilo;
se lungi ei sia, se presso: onde pensiero

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fermar non posso... Eppur, Merope vidi

molti anni addietro, se non lieta, involta
in muto duol, qual di chi cova in petto
speme che adulta ogni dí piú si faccia
d’alta vendetta. Or, quasi l’anno parmi,
che oppressa piú, cangiò contegno; il pianto,
che in cor premeva, or mal suo grado agli occhi
corre in copia... Cessato il figlio fosse?...
Ma in cor tuttor vive ai Messenj il padre:
né altrimenti poss’io trarnelo in parte,
che costei meco riponendo in seggio. —
Oh quanta è impresa il mantenerti, o trono!