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atto secondo 177
ai panni almen, che d’Elide le fogge

mostravan piú che di Messene.
Mer.   Oh cielo!...
d’Elide?...
Egisto   Sí; pari alle mie; ch’io sono
pur d’Elide...
Mer.   Tu sei?...
Polif.   Ma, perché tanto
bramosa tu, sollecita?...
Mer.   Che parli?...
Io sollecita?...
Polif.   Parmi. — In somma, un vile
stranier, cui svena altro straniero oscuro...
Mer. Chi sa qual fosse?... È ver... Non è ch’io prenda
pensier di ciò...
Polif.   Per me, s’io nol dovessi,
tal reo per certo io non udrei. Tu, scevra
d’ogni affetto, stupore in ciò non poco
mi arrechi: or che ti cale?...
Mer.   In me,... fu... mera
brama d’udire. — Eppur, men caso assai,
ch’arte mi par, l’aver cosí dagli occhi
d’ogni uom tolto quel corpo: e tu sí mite
ver l’uccisor, che tanto in se securo
stassi... Non so.
Egisto   Timor m’indusse a trarre
nell’onda il corpo; arte non fu: securo
io sto, qual uom conscio a se stesso in core.
Piú che nol pensi, addolorato io stava;
ma tanto or piú, che te dolente io veggio,
dubbia, e tremante per l’ucciso...
Mer.   Io dubbia?...
Io tremante?... Nol son... Ma, gl’infelici
pietade han tosto delle altrui sventure.
Egisto Dunque di me pietá ti prenda. Io sono
misero assai, piú che l’ucciso; e il merto


 V. Alfieri, Tragedie - II. 12