Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. II, 1946 – BEIC 1727862.djvu/179


atto secondo 173
piú nulla omai, se ingenuo parli, spera.

Egisto In altra guisa, io nol saprei: menzogna
del mio libero stato non è l’arte. —
Io m’era al vecchio genitor di furto
sottratto incauto; e giá piú mesi attorno
men giva errando per cittá diverse,
quando oggi al fin quí m’avvíava. Un calle
stretto e solingo, che ai pedon dá via
lungo il Pamíso, con veloci piante
venia calcando, impazíente molto
di porre il piè nella cittá, che mostra
mi fea da lungi vaga, e in un pomposa,
d’alti palagi e di superbe torri.
Quand’ecco, a me di contro altr’uom venirne,
piú frettoloso assai: son d’uom che fugge
i passi suoi; giovin l’aspetto; gli atti,
arroganti, assoluti: ei di lontano
con man mi accenna, ch’io gli sgombri il passo.
Angustissimo il loco, ad uno appena
adito dá: sul fiume alto scoscende
il mal sentier per una parte; l’altra,
irta d’ispidi dumi, assai fa schivo
d’accostarvisi l’uomo. Il modo spiacque
a me, libero nato, uso soltanto
d’obbedire alle leggi; e a ceder solo
ai piú vecchi di me: m’inoltro io quindi.
Ei, con voce terribile; «Ritratti,
o ch’io...» mi grida. Ardo di sdegno allora:
«Ritratti tu» gli replico. Giá presso
siam giunti: ei caccia un suo pugnal dal fianco,
e su me corre: io non avea pugnale,
ma cor; lo aspetto di piè fermo; ei giunge;
io sottentro, il ricingo, e in men che il dico,
l’atterro: invan dibattesi; il conficco
con mie ginocchia al suol: sua destra afferro
con ambe mani; ei freme indarno, io salda