Memorie inutili/Parte prima/Capitolo XXXIV

Capitolo XXXIV

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CAPITOLO XXXIV

Séguito di letterarie giocose baruffe da me sostenute. Goldoni e Chiari. Mia determinazione di spassare i miei concittadini con delle sceniche bizzarre fantasie sul teatro.


L’andazzo introdotto di libera irregolaritá e d’entusiasmo faceva de’ gran progressi come andazzo comodo. Le menti traviate e confuse avevano perduto il discernimento del mal scrivere dal ben scrivere, e applaudivano per ignoranza e per supposizione il pessimo e l’ottimo indistintamente.

Poco a poco si adottarono le goffaggini comuni e intelligibili, le gonfiezze tuonanti e tenebrose, e lo scriver puro, colto, giudizioso e naturale apparve snervatezza e spregevole affettazione.

Il sciagurato contagio si diffuse per modo che furono considerati, acclamati e applauditi generalmente per eccellenti, originali, inarrivabili scrittori italiani, sino il dottore Carlo Goldoni e l’abate Pietro Chiari, i quali dovevano anch’essi cagionare un andazzo di pochi lustri, per contribuire alla fatale sconfitta dell’accurato e purgato scrivere.

Que’ due poeti teatrali, emuli e critici l’uno dell’altro, ebbero il vigore di far bollire i cervelli della nostra popolazione per modo che, divisa in due procellosi partiti, faceva poco meno che alle scientifiche pugna per sostenere la sublimitá dell’opere loro.

Una tempesta di commedie, di tragicommedie, di tragedie, ammassi di imperfezioni, poste in iscena a gara e a furore successivamente da que’ due geni dell’incoltura, e un’influenza sterminata di volumi d’opere teatrali, di romanzi, di lettere critiche, di poemi, di cantate, di apologie de’ due guastatori co’ quali inondavano la cittá di Venezia, sbalordí, tenne occupata e sviò da ogni regolaritá e dal buon senso tutta la gioventú.

La sola nostra allegra societá granellesca si tenne monda dall’andazzo epidemico goldoniano e chiarista. [p. 205 modifica]

Quantunque ella non fuggisse di frequentare i teatri né fosse ingiusta al segno di non accordare al Goldoni quella porzione di merito che se gli conveniva sulla materia scenica, a differenza del Chiari di lui emulo, a cui concedeva poco o nonnulla, ella non poteva guardare che con occhio di ridente commiserazione sulle tavolette delle signore, sopra a’ scrittoi de’ signori, sui banchi de’ bottegai e degli artisti, tra le mani de’ passeggiatori, nelle pubbliche e private scuole, ne’ collegi e persino ne’ monasteri le commedie del Goldoni, quelle del Chiari co’ suoi romanzi, e mille poetiche trivialitá e bestialitá di que’ due logoratori di penne, come specchi d’ottima riforma e come esemplari per ben pensare e per scrivere colla vera eleganza.

Non si scandalezzi nessuno s’io riferisco una veritá udita con gli orecchi miei propri.

Un certo abate Salerni, veneziano, predicatore evangelico, che tuonava quaresimali da’ pergami e che aveva un torrente di ascoltatori, disse un giorno, con una soda albagia, che per scrivere e comporre i suoi fortunati sermoni sacri egli leggeva indefessamente le commedie del Goldoni.

Per dire qualche cosa della spezie che a me facevano que’ due diluvi d’inchiostro, Goldoni e Chiari, dal canto mio, colla coscienza purgata e colla veritá sulla penna dirò ch’io trovava nel primo molte immagini comiche, della veritá, della naturalezza; ma delle meschinitá d’intreccio; la natura copiata materialmente, non imitata; le virtú e i vizi spesso mal collocati, sovente il vizio trionfatore; de’ lordi plebei equivoci, massime nelle commedie sue nazionali; de’ caratteri caricati; delle sconnesse erudizioni rubacchiate e innestate con poco proposito, ma per imporre alla moltitudine degl’ignoranti; e soprattutto uno scrittore italiano (levatolo dal dialetto veneto del volgo nel quale era dottissimo) da porre nel catalogo de’ piú goffi, bassi e scorretti scrittori del nostro idioma.

Checché ne dicano gli elogi proccurati, prezzolati, volontari o del fanatismo parziale de’ giornalisti, de’ gazzettieri, de’ prefazionatori, de’ romanzieri, degli apologisti o de’ Volteri, quel comico autore, salva la sua commedia da lui composta a Parigi del [p. 206 modifica]Bourru bienfaisant, che serví bene al teatro francese e che tradotta in italiano non serví a nulla ne’ nostri teatri, non fece nessuna opera scenica perfetta e non ne fece nessuna senza qualche buon tratto comico.

Agli occhi miei apparve sempre un uomo nato coll’istinto da poter fare delle ottime commedie, ma, fosse la poca coltura, il poco discernimento, la necessitá in cui era d’appagare la nazione per sostenere de’ poveri comici italiani da’ quali era stipendiato, o la fretta con cui doveva comporre ogni anno una infinitá d’opere nuove teatrali per sostenersi, non v’è nessuna delle sue opere italiane che non sia pienissima di difetti.

In alcune controversie aeree facete, piú di sali poetici dileggiatori che di censure formali, che sono corse sull’andazzo goldoniano e chiarista; controversie che la nostra scherzevole accademia non s’è mai degnata d’indirizzare precisamente con una critica regolare all’inondazione dell’opere de’ due scrittori Goldoni e Chiari, ma che furono piuttosto senapismi ragionati in astratto per scuotere la gioventú dal letargo in cui la teneva il lezzo delle irregolaritá, delle trivialitá e della ignoranza di lingua; so d’aver fatta una disfida perché mi si additasse quale tra le infinite commedie italiane del Goldoni si giudicava perfetta, ristringendomi ad una sola per non immergermi in un pelago, con impegno di far conoscere sino a’ fanciulli il pubblico inganno.

Nessuno s’è abbassato a nominarmi cotesta perfetta commedia, ed io non potei vincere altro co’ miei giocosi pungoli, che dipignevano veramente la goffaggine dello scrivere del Goldoni, che una sua pubblica confessione da lui stampata co’ seguenti due versi, i quali pontualmente ritengono della goffaggine da me provata:

Pur troppo so che buon scrittor non sono
e che a’ fonti miglior non ho bevuto.

Quanto all’abate Chiari, trovava in lui un cervello acceso, disordinato, audace e pedantesco; un’oscuritá d’intreccio da astrologo; de’ salti da stivale da sette leghe; delle scene isolate e disgiunte dall’azione, suddite d’una loquacitá predicantesi [p. 207 modifica]filosofica e sentenziosa; qualche buona sorpresa teatrale; qualche descrizione bestialmente felice; una perniziosa morale; uno scrittore il piú gonfio e ampolloso che adornasse il nostro secolo. Vidi un sonetto stampato e impiccato per le bottege di Venezia di quel poeta, da lui composto per il giubilo della salute ricuperata da un cavaliere veneto patrizio, che incominciava da questo verso:

Sull’incude fatal del nostro pianto, ecc.

Con tali mostruositá metrizzate egli spacciavasi coraggiosamente da novello Pindaro, e trattando il Goldoni da augel palustre seduceva infiniti cervelli che l’ammiravano senza intenderlo.

Non è da maravigliarsi. Un Goldoni ed un Chiari con qualche alunno dovevano avere la facoltá di cagionare un andazzo periodico, tanto piú sulfureo e universale, quanto egli era risvegliato ne’ ricinti de’ teatri, abbracciando tutta la popolazione divisa in due partiti e cosí indiavolata e cieca, che non discerneva nemmeno la infinita superioritá del merito comico che aveva il Goldoni sopra a quello del Chiari suo competitore.

Una cosí strana novitá di giudizi e di letteraria corruttela faceva sdegnare alquanto il zelo de’ coltivatori del genio di regolaritá e di coltura, spezialmente della nostra granellesca accademia.

Nessun vantaggio da’ giusti sdegni qualora un andazzo è in carriera. L’andazzo goldoniano e chiarista doveva correre per alquanti lustri e doveva succedere e rinforzarsi, al rallentarsi di quello, l’altro andazzo di cui ho fatto menzione nel precedente capitolo, de’ smoderati, snaturati, scorretti entusiasti detti sublimi filosofici scrittori, scopritori di nuovi mondi letterari, che veggiamo confettare la gioventú de’ nostri giorni, che minacciano nuovi vocabolari e persino nuovi alfabeti, trattando l’antichitá da imbecille di cortissima vista, e involgendo l’umanitá in un inseparabile caos di letterarie follie.

Riguardo all’andazzo goldoniano e chiarista, si potrá credere, senza ribrezzo, ch’egli fosse da me guardato col viso e col cuore ridente, come soglio guardare tutti gli eventi, e spezialmente quelli de’ funghi delle umane opinioni. [p. 208 modifica]

Giudicandomi per lo meno padrone de’ miei pensieri, un poetico mio libretto ch’io scrissi nel mio scrittoio per ricrearmi, ch’io non ebbi alcuna disposizione di pubblicare, e di cui parlerò piú sotto, mi pose per accidente in necessitá di difendere con delle lepidezze, deridendo que’ due scrittori, ciò ch’io considerava metodo vero e vera coltura di scrivere.

I soli amici miei sono certi ch’io non ebbi giammai né invidia né sentimento d’emulazione con que’ due laghi di volumi in ottavo.

Se tutti avessero la giustizia di considerare ch’io fui sempre un semplice dilettante scrittore di prose e di versi, che ho sempre donato e che dono quanto m’esce dalla penna, penserebbero tutti come gli amici miei e sarebbero certi, come quelli, che la sola lecita fantasia di divertir me e di ricreare gli spiriti affaticati sul lungo studio della veritá, della puritá e della semplicitá maestosa dello scrivere nel nostro idioma, m’abbia indotto a scherzare con qualche ampolla d’inchiostro sulla illegittima invasione degli accennati due innovatori e sopra alcun altro.

Il Cielo rimetta il peccato di temerario giudizio a que’ molti che m’hanno, per avventura, predicato indiscreto satirico e rintracciatore della mia propria fortuna sulla rovina altrui.

De’ comici e de’ librai potrebbero disingannarli, ma siccome non curo temerari falsi giudizi, cosí non cerco testimonianze in questo proposito alla mia generositá, che forse non sará da me nemmeno interamente lodata nel capitolo della pittura del mio carattere.

Fu dunque l’anno 1757 ch’io composi un libricciuolo poetico faceto, d’uno stile legatissimo a quello de’ nostri buoni maestri antichi toscani, intitolato: La Tartana degl’influssi per l’anno bisestile 1757.

Un’urbana allegra critica generale e morale sugli usi e sugli abusi d’allora, in buona parte fondata sopra alcuni versi dell’oscuro poeta fiorentino Burchiello, ch’io presi per testi profetici al mio lavoro, empieva le pagine di quel mio opuscolo da me scritto per passatempo e per esercizio di lingua, che piacque alla nostra assemblea letteraria, fedele uniforme di genio, e ch’io [p. 209 modifica]dedicai al patrizio veneto Daniele Farsetti, al quale, mostrandosi egli desideroso d’averlo, lo donai manoscritto com’era, senza curarmi di trattenermene copia.

Quel cavaliere, dottissimo, mecenate della nostra granellesca accademia, intendendo di farmi una gentile sorpresa, senza palesarmi la sua intenzione, immaginando per avventura di trovare delle difficoltá in Venezia, ordinò la stampa di que’ miei pochi fogli a Parigi, con un picciol numero d’esemplari, i quali giunti a Venezia furono da lui tutti regalati e sparsi per la cittá.

Quel volumetto averebbe fatto il suo giro d’una mano in altra mano tranquillamente, ricreando parecchi per la vasta rete di critica morale d’un osservatore sui caratteri e sui costumi del nostro mondo; ma alcune poche stille d’inchiostro amaretto, impiegate a lineare ed a sferzare bernescamente i cattivi scrittori di que’ giorni, furono aspidi velenosi e sacrileghi.

Il signor Goldoni, che oltre all’essere un diluvio d’opere sceniche, aveva anche in corpo non so qual diuretico per comporre de’ poemetti, delle canzoni, de’ capitoli e dell’altre poesie d’una vena molto limacciosa, inserí in una raccolta di composizioni poetiche, formata in applauso d’un veneto patrizio Veniero, che terminava d’essere rettore a Bergamo, una sua schidionata di dozzinali terzine, nelle quali si svelenò contro la mia povera Tartana degl’influssi.

Egli trattò quel libretto da rancidume, da ululato da cane, da spaventacchio inetto e insoffribile. Trattò me da uomo collerico, compatibile, perocché (cantò egli) tentava io la fortuna invano. Molte altre consimili espressioni gentili adornavano quelle terzine.

Frattanto il celebre signor Lami, che in que’ giorni scriveva il foglio letterario di Firenze, a cui era pervenuta la mia Tartana, l’aveva creduta degna di far d’essa qualche menzione ne’ fogli suoi e di inserire in quelli alcune ottave che trasse dal mio opuscolo, nelle quali commiserava io la decadenza e la corruttela della nostra lingua; e il benemerito padre Calogerá, che in quel tempo pubblicava il Giornale de’ letterati d’Italia, scrisse e pubblicò nelle sue memorie degli applausi certamente non meritati dal mio libricciuolo. [p. 210 modifica]

Mi lusingo di non avere necessitá di persuadere i lettori ch’io non registro queste veritá per ambizione.

Non conosceva il signor Lami né il padre Calogerá. Non carteggio co’ famosi letterati per fabbricarmi delle testimonianze vantaggiose dalle naturalmente civili e adulatorie loro risposte. Non mi degno di circuire giornalisti, gazzettieri, né scrittori di fogli periodici, perché co’ loro giudizi impongano e persuadano infiniti ignoranti ch’è buono ciò ch’è cattivo e ch’è cattivo ciò ch’è buono, per le sentenze de’ lor tribunali. Seppi ognora umiliare abbastanza il mio amor proprio e disprezzare le mie letterarie bazzecole da me medesimo. Considerai sempre vilissimi que’ scrittori che, colla impostura di tali estorti o pagati sotterfugi, cercano di soddisfare la loro boria letteraria e di farsi creare profondi autori dal mendicume de’ falsi attestati imponenti alla vasta ignoranza.

Ebbi del sentimento di gratitudine per il signor Lami e per il padre Calogerá, sembrandomi di scorgere in essi un genio uniforme al mio e una persuasione ch’io avessi dette delle veritá per scuotere la gioventú guasta dagli andazzi d’incoltura e di corruttela nel scrivere.

Infatti, quantunque la mia Tartana fosse rigidamente composta d’un linguaggio litterale toscano e d’uno stile imitatore de’ poeti antichi della Toscana, testi di lingua, particolarmente di Luigi Pulci, il libretto era ricercatissimo, prestato, letto, interpretato, applaudito da’ giusti intelligenti; giudicato una maligna satira da’ partigiani goldonisti e chiaristi depravati nel gusto.

Forse la scarsezza di copie degli esemplari di quell’opuscolo e il suo arrivo da Parigi erano le principali cagioni della di lui fama.

Tuttavia egli cagionava tanta elettricitá nel pubblico e tante dispute; tanti erano i giovani studenti che cercavano di conoscermi e ch’io feci arruolare nella nostra gioviale, inconcussa granellesca accademia, che credei ragionevole la mia speranza di veder risorgere un novello andazzo di coltura, per lo meno nelle opere di spirito.

Fu per ciò ch’io mi proposi di sostenere il mio picciolo sassolino scagliato nel vespaio della depravazione, e di ribattere [p. 211 modifica]e di ridere, con de’ scherzi e de’ sali d’uno spirito purgato e senza critica pedantesca, le terzine del Goldoni da lui fatte in lode del patrizio Veniero ritornato da Bergamo, dileggiatrici stizzite della mia Tartana.

Io non voleva che allettare e far ridere alle spalle di quel collerico onest’uomo, ma cattivo scrittore; e però, siccome egli aveva esercitata la professione di avvocato nel veneto fòro, e siccome riteneva nelle sue composizioni delle grossolane maniere e de’ colori delle scritture delle contestazioni forensi, cosí finsi una sua lettera a me diretta, scritta comicamente in caricatura con tutti i termini e le frasi che accostumano i causidici nel lor contestare i litigi, colla quale mi spediva le sue terzine da esaminare.

Inventai ch’egli intitolasse cotesta sua favata: Scrittura contestativa al taglio della «Tartana degl’influssi» stampata a Parigi l’anno 1757.

Presi quindi ad esaminare le di lui terzine e mi fu agevole lo scoprire in esse, con una faceta critica, una lunga schiera di goffaggini, d’improprietá, di puerilitá e di torti.

Senza alterare punto né poco i di lui sentimenti comuni e bassi di quelle terzine, colle quali egli pretendeva di lodare il cavaliere da lui esaltato e di inveire contro il mio libretto da lui odiato, rifusi le sue terzine co’ sentimenti suoi medesimi, ma con un linguaggio colto, poetico, elevato ed armonioso, facendogli conoscere che anche i sentimenti triviali che piangono doppiamente nel fango d’una dicitura palustre, espressi con un giro di scelte parole, con delle frasi proprie all’argomento che si tratta e coll’armonia poetica che il verseggiare richiede, acquistavano dignitá e potevano passare dal di lui stuonato colascione all’accordata cetra d’Apollo.

Lo disuadeva finalmente con delle buone ragioni e de’ riflessi amichevoli a non porre alle stampe la sua infelice biliosa Scrittura contestativa al taglio della «Tartana», e terminava l’operetta mia con alcune ottave scherzevoli, specie di memoriale al pubblico, col quale chiedeva in grazia, per lui, esenzione dall’obbligo che se gli dava di scrivere composizioni poetiche. [p. 212 modifica]

Non mi fermai in questo ridente intreccietto di cose. La mia baldanzosa e allegra Tartana conteneva in vero alcuni spruzzi satirici in astratto e generali sopra alle commedie che correvano allora in su’ nostri teatri, e il Goldoni sbuffando se li era appropriati.

Nelle sue terzine d’invettiva al mio picciolo volume aveva egli posti due versi causidici contro a me, ch’erano una specie di sfida. Eccoli:

     Chi non prova l’assunto e l’argomento
fa come il cane che abbaia alla luna.

M’accinsi a scrivere un altro libretto, che provava «l'assunto e l’argomento», e che aveva la forza non meno d’una prova evidente che quella di far ridere chi lo leggeva o l’udiva a leggere.

Radunava in quell’opuscolo mentalmente i nostri accademici granelleschi un giorno di carnovale all’osteria detta «del Pellegrino», che riferisce colle finestre sopra la piazza di San Marco, ad un pranzo.

Quivi affacciatisi i sozi miei per vedere le maschere, scopriano una mostruosa maschera, con quattro faccie differentissime l'una dall’altra, entrare nell’osteria.

La pregavano a entrare nella nostra stanza per esaminare tanta mostruositá.

La maschera dalle quattro faccie e quattro bocche era la commedia intitolata Il teatro comico del Goldoni, da me personificata allegoricamente in quella maschera.

Il teatro comico personificato voleva fuggire cruccioso, appena ravvisava in me lo scrittore della Tartana; ma era trattenuto e obbligato a sostenere meco un dialogo ad offesa e difesa sopra a’ suoi parti teatrali.

Sostenni e provai in quel dialogo ch’egli aveva cercati la fortuna e il concorso ne’ teatri, piú col cambiare aspetto a’ suoi generi dando loro di quando in quando un’aria di novitá, che col vero merito di attrazione di quelli.

Sostenni e provai che, passato egli dal schiccherare de’ soggetti in abbozzo per la sussistenza dell’antica commedia italiana [p. 213 modifica]alla sprovveduta, che poi s’è indotto a odiare e a perseguitare da padre sconoscente e tiranno, non aveva fatto che porre in dialogo, con qualche maggior regolaritá e filatura, de’ soggetti scordati dell’arte comica all’improvviso e con quella grossolana dicitura che chi sa scrivere può rilevare; ma che vedendo egli illanguidire cotesto suo primo genere, ch’egli chiamava riforma, aveva assalito il pubblico colla novitá delle Pamele e d’altri romanzi; che al languire di questa novitá era uscito coll’altra novitá delle farse nazionali, ricopiando le Baruffe di Chioggia, de’ campielli, delle massaie, ed altre simili bassezze popolari, le quali assolutamente, nella loro trivialitá niente letteraria, erano state i suoi migliori guazzetti scenici, e d’una tempera d’avere vita piú lunga in sul teatro degli altri innesti suoi; che raffreddandosi anche quel genere per una certa somiglianza dell’una con l’altra di quelle rappresentazioni, essendo questo il destino delle fortune teatrali, per lo piú dipendenti in Italia da un orbo fanatismo, egli aveva cercata l’altra novitá di solleticare gli orecchi de’ spettatori co’ versi martelliani rimati e coll’opere scemitragiche piene d’assurdi, di improprietá, di mal esempio del costume orientale, delle Spose persiane, delle bestiali Ircane, de’ sozzi Eunuchi, delle Curcume nefande, e che questa novitá, quanto piú censurabile, condannabile e detestabile per lo specchio lascivo di bigamia e di lussuria, per la virtú e la innocenza calpestata dal vizio furente, per la impossibilitá degli avvenimenti e per cent’altre gemme consimili ch’ella contiene, tanto piú aveva stabilita la sua corona di lauro nell’orbo fanatismo e nella opinione d’un bulicame di sciocchi, i quali, appresi a memoria i sperticati infelici versi martelliani delle sue Persiane e delle sue Circasse, recitandoli per ogni chiassolino, innalzavano i suoi propositi al tempio della gloria avvelenando l’udito degli avvezzi all’ottimo e fomentando in lui il petulante commiserevole sentimento di vanitá.

Sostenni e provai ch’egli s’era prosuntuosamente arrischiato anche alla novitá del tragico sublime, ma che la fortuna, in un genere poco inteso dall’universale e da lui pecorinamente sostenuto, l’aveva fatto prudente in questo proposito, consigliandolo [p. 214 modifica]a ristringersi alla bassezza de’ Pettegolezzi delle donne, delle Femmine gelose della signora Lucrezia, della Putta onorata, della Bona muger, de’ Rusteghi, de’ Toderi brontoloni, e di consimili argomenti proporzionati alla sua vena, ne’ quali, in vero, egli aveva un’abilitá indicibile d’innestare tutti i dialoghi in dialetto veneziano, che ricopiava con immensa fatica manuale nelle famiglie del basso popolo, nelle taverne, nelle biscaccie, a’ tragitti, ne’ caffè, nelle casipole a pian terreno e ne’ piú nascosti vicoli di Venezia, divertendo moltissimo ne’ teatri con un mendicume di veritá, e di veritá insolite da vedersi illuminate, decorate e recitate sulle scene da degli attori esattissimi nell’obbedirlo ad esporre pazientemente con una naturale imitazione le popolari sue farse.

Sostenni e provai che nelle sue produzioni sceniche egli aveva frequentemente addossati le truffe, le barerie e il ridicolo a’ suoi personaggi nobili, e le azioni eroiche serie e generose a’ suoi personaggi della plebe, per cattivarsi l'animo del romoroso sostenitore del grosso numero di quella ch’è sempre invidiosa e collerica colla maggioranza de’ gradi e con un pubblico mal esempio contrario all’ordine indispensabile della subordinazione.

Sostenni e provai che la sua Putta onorata non era onorata, e una filza d’altri consimili sbagli suoi; ch’egli aveva adulato il vizio allettando e predicata la virtú seccando, e siccome il Teatro comico dalle quattro bocche s’era protestato di voler fare abolire le quattro benemerite facete maschere del teatro antico italiano, e la innocente materiale commedia improvvisa dell’arte, trattandola, con impostura e sconoscenza, da goffa, da immodesta e da perniziosa, sostenni e provai che l’opere sue teatrali erano in cento doppi piú lascive, piú immodeste e piú perniziose di quella, sulla popolazione. Una selva foltissima di espressioni oscene, di circostanze solleticatrici la lussuria, di equivoci sporchi e di laidezze, ch’io aveva ricopiate in serie nel mio libretto dalle sue opere stesse ch’egli aveva date alle stampe, era la mia convincente prova.

La mostruosa maschera si difendeva assai male, come fa chi ha torto, e avvolgendosi intorno mi chiamava satirico, indiscreto, [p. 215 modifica]linguaccia maligna, temerario e invidioso con tutte le sue quattro bocche per ribattere il mio «assunto» e il mio «argomento» provato.

Finalmente il Teatro comico, convinto da me e beffeggiato da’ granelleschi, alzando i suoi panni dinanzi faceva vedere una quinta bocca allegorica che teneva nel mezzo al suo ventre, la qual bocca allegorica piangendo sconciatamente s’arrendeva e chiedeva grazia.

Un verso delle soprammentovate terzine del signor Goldoni, col quale aveva preteso di vilipendermi battezzandomi da «collerico colla fortuna», mi suggerí la invenzione della bocca allegorica nel ventre di quella maschera, tratto ch’io confesso per satirico, ma per uno di que’ tratti satirici provocati e meritati.

Composi una lettera dedicatoria in versi sciolti seriofaceti da porre in fronte a’ miei due opuscoli, con la quale gli dedicava a certo Pietro Carati, notissimo veneto cittadino miserabile, che ravvolto in una toga lacera, con un parruccone rossiccio, le calze nere turate ne’ loro innumerabili buchi con la seta verde, cenerognola o bianca (veri segni del povero cittadino), chiedeva per le vie modestamente a’ suoi conoscenti qualche picciola moneta per sostenere in vita la sua nascita civile.

Anche quella lettera dedicatoria dinotava ch’io non era «in collera con la fortuna»; ch’io non cercava co’ scritti miei nessun dono da quella dea, e che il mio scopo non era che di combattere possibilmente i cattivi scrittori e di sostenere possibilmente le buone regole e la puritá litterale.

Coteste due operette divennero pubbliche prima d’essere pubblicate colle stampe alle quali era io parato a darle. Il fragore che fecero nascere anticipatamente ha cagionato il seguente avvenimento.

Il patrizio commendatore bali Giuseppe Farsetti, sozio della nostra granellesca accademia, coltissimo scrittore e amantissimo della buona poesia, venne in traccia di me dicendomi che, pregato egli da un altro patrizio, conte Ludovico Widiman, ottimo cavaliere, ma parziale del Goldoni per bontá di cuore, mi chiedeva [p. 216 modifica]il servigio di trattenermi dal pubblicare i miei opuscoli. Giá si sapeva (aggiunse egli per parte del patrizio Widiman) che il Goldoni era uno scrittore materiale e grossolano, che non poteva competere meco sulla materia del colto scrivere, e che a lui pareva cosa contraria alla caritá lo screditarlo come cattivo scrittore sulla popolazione dalla quale scaturiva la sorgente della di lui prebenda.

Un tal uffizio mi sorprese uscito dalla voce d’un cavaliere, rigoroso protettore della coltura. Non potei però frenare le mie consuete risa, ben vedendo chi l’aveva proccurato e ben conoscendo l’arma sotterranea del meschino raggiro.

Risposi all’Eccellenza Sua ch’io credeva giustizia il correggere il Goldoni del suo insolentire contro di me, e ch’io credeva un dovere il tentare di guarire la gioventú dall’epidemia della goffa irregolaritá e della incoltura; che per altro io mi trovava spoglio affatto di desiderio di letterarie meschine vendette e d’ambizione, e che averei servito lui e il patrizio conte Widiman di seppellire i miei due libretti nel silenzio.

Aggiunsi però una mia predizione, cioè che, se il Goldoni, fingendo in secreto quella umiltá e quella afflizione che sogliono mostrare le astute femminette co’ mariti o con gli amanti per arrivare all’intento loro, aveva ottenuta la predetta sospensione e il far tacere me, averebbe poi egli certamente seguito a molestarmi sulla pubblica opinione per svelenarsi e per ostentare una vittoria letteraria co’ suoi affascinati idolatri.

Fui obbediente alla premura de’ due cavalieri e fui indovino nel mio pronostico.

Nelle raccolte di poesie che si fanno in Venezia per nozze, per monacazioni, per i solenni trionfi de’ gran signori, non meno che in qualche scena delle sue commedie, il Goldoni seguí sgraziatamente a porre in derisione lo scrivere colla toscana puritá litterale e con le grazie leggiadre, co’ veri colori, i veri termini e con la felice eleganza di quella. De’ personaggi affettatissimi e sgarbati toscani ch’egli innestava o nelle sue farse teatrali o ne’ suoi grossolani poemetti ch’egli intitolava Tavole rotonde o altro, erano le sue batterie. [p. 217 modifica]

Affidando egli all’aura favorevole popolare che possedeva e mettendo in ridicolo per quanto poteva con de’ modi legittimamente ridicoli e dozzinali la colta regolaritá, non senza qualche ingiuria che teneva del plebeo, che non aveva nessuna relazione con le questioni letterarie, proccurando di tenere in soggezione la mia penna col bucherare de’ signori, ch’egli appellava «i suoi cari padroni», si è lusingato di fare una sua vendetta e di strozzare la veritiera mia innocente Tartana.

Il suo cruccio infelicemente astuto fu per me la piú bella scena comica ch’egli facesse, e mi disposi a dargli de’ motivi di accrescerla.

Aveva io promesso a’ due soprannomati cavalieri di non porre alle stampe i due detti opuscoli miei, e nessuno poté indurmi a contraffare alle mie promesse; ma scorgendo l’indefesso nauseoso insolentire del poeta comico, m’apparecchiai a delle difese molto piú comiche delle sue, e che non dovessero che spassare i lettori e persuaderli per la blanda via delle risa.

Niente si vince in cosí fatte poco importanti questioni, quando non si voglia incontrare una controversia critica regolata, che verrebbe letta da pochi, e con de’ sbadigli, senonché col rovesciare un piacevole ridicolo sulle spalle di chi piú lo merita; e sperando io di non meritare cotesto ridicolo, m’ingegnai a rimandarlo a chi in me lo voleva con delle composizioni facete, laconiche e convincenti, le quali, tenendo i sali, la vivacitá, le pitture e l’odore della satira lecita, erano ricercate, ricopiate e lette universalmente e allegramente.

Non usciva nessuna delle frequenti raccolte poetiche che a Venezia si accostumano anche troppo, ad onta del cattivo poemetto dell’abbate Bettinelli con cui pretese di sopprimerle, che non contenesse una giostra di versi tra me e il mio buon amico Goldoni, che ad onta delle sue collere fu sempre da me considerato mio buon amico e infelice scrittore.

Egli s’era fatto registrare nella famosa accademia degli Arcadi di Roma col nome di «Polisseno Fegeio», fregio altitonante, che comunica quelle qualitá di buon poeta e di buon scrittore che sono note a chi intende il mondo poetico e la vera eloquenza. [p. 218 modifica]Lontanissimo io dall’acquistarmi un nome nell’Arcadia da spaventare, mi contentai di rimanere col nome di «Solitario» nella mansueta accademia de’ granelli.

Contrapposi a molte languide e goffe favate metriche, che il Goldoni impastricciava contro a me e contro gli amatori del purgato scrivere, favate ch’egli intitolava Poemetti e ch’erano un dipresso come quello del Bettinelli contro le raccolte, un mio burlesco poemetto per nozze a cui posi il titolo de’ Sudori d’Imeneo, che feci uscire dalle stampe.

Questa operetta fece una rivolta di geni ch’egli non si aspettava.

Furono innumerabili le poesie da me scritte, con de’ metri differenti e sempre facete, di critica al costume e di martirio a’ cattivi scrittori del nostro secolo. Erano allora, come suol avvenire a tutte le coraggiose novitá d’un tal genere, ricercatissime, lette piú che non sono le serie poesie; facevano un gran sussurro, e non facevano nessun frutto.

Siccome io non ebbi giammai la flemmatica diligenza ambiziosa di tener conto o registro alcuno de’ miei capricciosi poetici lavori né delle mie prose, come quello che non somiglia punto né poco agl’innamorati dell’opere loro, cosí posso dire soltanto che parte uscirono dalle stampe e parte rimasero inediti manoscritti.

Se mi si chiedesse (il che non avverrá mai) dove si potessero rinvenire, risponderei: — Appresso di me non giá.

Alcuni amici miei, tra’ quali il signor Raffaele Todeschini, veneto giovine d’impuntabile onoratezza e d’ottimo discernimento, ma un po’ troppo gentilmente per me prevenuto, e il signor Sebastiano Muletti, bergamasco, posseditore d’una scelta raccolta di libri e un po’ troppo amante della poesia, si sono fatti volontari archivisti di tutte le bazzecole mie letterarie che hanno potuto raccogliere dalla mia noncuranza.

Tutti i sopra accennati colpi in difesa de’ buoni scrittori ed atti a porre in un aspetto ridicolo i cattivi seminatori della mostruosa libertá della incoltura e de’ bestiali deliri poetici, non lasciavano certamente illese le opere dell’abate Chiari. Pure, o fosse egli piú astuto del Goldoni, o consigliato da degli amici avveduti, o non si degnasse di abbassarsi a difendere la sua gran [p. 219 modifica]rinomanza di «celebre», o di unirsi al suo nimico Goldoni, resisteva taciturno alle ferite.

Avvenne in que’ tempi che da uno sconosciuto scrittore in un foglio periodico fu posto in derisione con cinque dubbi, che non erano cinque dubbi ma cinque critiche evidenze, un prologo teatrale dell’abate Chiari, ch’egli aveva fatto recitare nel teatro in S. Giovanni Grisostomo in Venezia, indi fatto da lui pubblicare a stampa come cosa sublime.

La derisione del prologo con que’ cinque dubbi, che lo qualificavano una strana poetica bestialitá, fu a me falsamente attribuita. Ella non aveva nulla d’irragionevole e, se fosse stata cosa mia, non averei avuto riguardo alcuno a pubblicarla per mia. Ebbi un altro nimico poeta a fronte, d’un’audacia e d’una brutalitá celeberrima.

Sei sonettazzi vigliacchi, lordi, satirici, che incominciarono a circolare manoscritti contro a me e contro la predetta accademia granellesca, furono i suoi dardi.

Allora fu che si destò un boschetto di penne in mio favore e a difesa dell’accademia. I cinque dubbi sul prologo divennero venti o trenta dubbi solidi e dileggiatori nel foglio periodico, e tali che fecero procelloso e frenetico l’abate.

Egli si abbassò a baciare il Goldoni, e il Goldoni si abbassò ad accettare i suoi baci. Fu fatta tra essi la pace e un’alleanza offensiva e difensiva contro a me e all’accademia nostra.

L’accademia s’accrebbe di numero, si ristrinse e nacque un faceto fatto d’arme d’inchiostro, da cui si poteva sperare il risorgimento della colta eloquenza poetica e della purgatezza della litterale favella italiana.

La bottega di Paolo Colombani, libraio in Venezia, era il centro de’ ragguagli di quella guerra, ed era molto frequentata da’ granelleschi, i quali si proposero di dar dell’utile al Colombani e di ridere.

Il Cognito, il Fecondo, il Velluto, il Rinserrato, il Destro, il Mancino, io Solitario e tanti altri nostri accademici, fecero uscire da quella bottega de’ fogli poetici burloni mensuali latini e toscani, fulminanti i cattivi poeti e i cattivi scrittori, e nel giorno [p. 220 modifica]che usciva il foglio la bottega del Colombani era un sciamo di comperatori di quella novitá.

Que’ fogli portavano il titolo d’Atti granelleschi. Io darò qui un solo epigramma incluso in quelli, stampato nel foglio del dicembre 1760, diretto al Chiari, che co’ suoi sonettazzi manoscritti aveva preteso di vilipendere l’accademia.

La composizione è del coltissimo patrizio commendatore bali Giuseppe Farsetti, e la parafrasi in italiano, ch’io pur registro, è dell’ora defunto ottimo giovane, indefesso studente ed erudito Giannantonio Deluca, tra i granelleschi «il Manzino»; e puossi quest’epigramma considerare come preludio agli Atti che seguitarono:

     Maeonides risere, quod ipsas invocet Aulus,
chartae pernicies Aulus et exitium;
     qui genio indulgens versus sine fine pudendos
evomit, eternas et cacat Iliadas;
     quique sophocloeo suras vincire cothurno,
plautinosque audet contaminare sales.
     Mine magis atque magis, geminato musa cachinno
risit, et hoc Aulo misit epistolium:
     «Non mihi, sed scombris foetentibus, imo latrinae
debentur foetus, ambitiose, tui».

Parafrasi

     Scoppiar di risa le meonie dive,
che Ciacco le invocasse, Ciacco peste
e struggimento di gualchiere e carta;
il quale dal farnetico invasato
senza mai rifinar rece de’ versi
stomacosi, ed Iliadi eterne caca,
e vestir osa le polpaccie indegne
di sofocleo coturno, e i puri sali
contaminar di Plauto. Or dalle risa
piú e piú le muse ismascellar di pria,
e ne spedirò a Ciacco cotal motto:
«Dennosi, o vanarel, tuoi sozzi parti
agli fracidi sgombri e alle sardelle,
e anzi ad un cessame, e non a noi».

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Non si deve celare la veritá. Una parte di quegli Atti era di giovani accademici che, irritati da’ sei sonettazzi insultatori del Chiari e un po’ troppo sdegnosi, consisteva in molti sonetti berneschi, pulciani e burchielleschi oscuri ed interpretabili, di favella purgata, adorni di sali e di pitture; ma non erano che cólte invettive, cólti frizzi, cólte ingiurie e un cólto dare la baia a’ due poeti Goldoni e Chiari ed a’ loro seguaci.

Alcuni sonetti ed alcune ottave di mio fratello Gasparo, pubblicati sotto il nome del «Velluto» in quegli Atti, proccuravano indarno di ridurre il bollore di que’ giovani ad una dolcezza ragionata, senza però lasciar d’animarli alla difesa del retto pensare e del scrivere purgatamente.

Dal canto mio considerai che alla coltura e alla derisione degl’incolti si dovesse accoppiare in que’ fogli dell’accortezza, della seduzione, de’ brevi argomenti e delle ragioni per avere del buon effetto.

E perché que’ due poeti, col pretesto di riformare il teatro s’erano proposti di voler strozzata la innocente commedia materiale italiana alla sprovveduta, sostenuta dalle valenti maschere meritamente amate dal pubblico, Sacchi, Fiorilli, Zannoni e Derbes, che divertivano i Grandi ed il popolo e che danneggiavano la ricolta alla poetica spettabilitá, considerai che niente piú potesse castigare la petulanza letteraria de’ due sognati Menandri, che il prendere in protezione le amenitá, i sali, i lazzi delle farse all’improvviso de’ nostri Truffaldini, de’ nostri Tartaglia, de’ nostri Brighella, de’ nostri Pantaloni, delle nostre Smeraldine.

Un capriccioso allegro critico canto ditirambico, che sotto al mio nome accademico di «Solitario» pubblicai ne’ sopraddetti Atti granelleschi, con una scherzevole difesa a’ comici improvvisatori accennati e alle allegre loro farse, con una rimarcabile beffeggiatura alle sceniche opere d’allora, che si predicavano regolate e riformatrici, non senza tratti ragionevoli a refrigerio della colta poesia e dello scrivere regolare e sensato, riescí un senapismo efficace a’ due poeti ed a’ loro parziali discepoli. [p. 222 modifica]

Parecchie ottave pulciane piacevoli e ragionate che indirizzai in quegli Atti, parte a’ religiosi dell’uno e dell’altro sesso, parte a’ cavalieri, parte alle dame, parte a’ cittadini, parte alle cittadine, parte a’ mercanti, parte alla plebe, col titolo d’Introduzione agli Atti granelleschi, piene d’urbanitá, di avvertimenti, di riflessi, di pronostici, di raccomandazioni, di preghiere, di ragionevoli esagerazioni a risorgimento e a salvezza della coltura nella eloquenza italiana, ci cattivarono degli animi; e de’ miei sonetti, usciti in que’ fogli di argomentazione trattata laconicamente, convincentemente e burlescamente, ebbero un partito di risibili considerabile, che gli apparava a memoria.

Tutta la cittá era in movimento per quegli Atti. Un gran numero di giovanetti collegiali si davano volontari sotto allo stendardo de’ granelleschi. Le famiglie nobili a’ lor maritaggi, alle loro monacazioni volevano picciole raccolte di poesie semplici, ragionate e purgate uscite dalla nostra accademia, dalle quali era sbandita ogni composizione che odorasse della goffaggine goldoniana e dell’ampollosa frenesia chiarista, e le quali erano, per lo piú, sferzate a’ cattivi poeti.

Potrei porre in queste Memorie non degne di memoria molte testimonianze che sono alla stampa d’illustri scrittori non spregiatrici le mie scherzevoli fatiche di quella stagione; ma io non ho la boria meschina di tanti altri schiccheratori.

Soltanto per una prova ch’io non mentisco giammai, porrò qui un endecasillabo a me diretto dal dottissimo dottore Natale dalle Laste, pubblicato l’anno 1761 in una raccoltina poetica uscita dalla nostra accademia e fatta per la monacazione nel convento detto delle Vergini di Venezia d’una dama Balbi.

Era io lo stimolatore de’ miei confratelli granelleschi perché concorressero a scrivere per quella raccolta. Stimolai anche il predetto maturo rispettabile signor Dalle Laste. Egli m’inviò l’ironico leggiadro endecasillabo seguente, che fu stampato nella raccoltina colla traduzione a fronte del mentovato giovine Giannantonio Deluca accademico granellesco. [p. 223 modifica]

Natalis Lastesii ad Carolum Gozium


hendecasyllabi


     Gozzi floscule, Gozzi ocelle vatum,
cui linguae venus et lepos etruscae
leni ex ore fluit malos poetas
gaudenti sale perfricare multo;
urges officiosus, atque blandam
Balborum genus inclitum puellam
commendas prece non malis poetis:
candore ut niteat perinde carmen,
lacte ut purior illa, liliisque
coetus virgineos renidet inter:
illam os atque oculi ut decent modesti,
ut simplex tunica atque mensa simplex,
sic et versiculis decus pudorque
adsit, nil tumidum, nihil sit audax,
et nugis careant, inaniisque.
Fugit te ratio? An patere dudum
nescis hoc stadium malis poetis,
totum quod rapidis vorent quadrigis?
Bonorum hic piger, odit ille trita
argumenta; senex hic arma fixit;
non tempus vacuum alteri; horret alter
misceri Baviisque Maeviisque
et saeclo tacet hostis inficeto.
Eheu pagina, crede, lenta surget;
paucique et graciles et indiserti
Balborum genus inclytum puellam
laudabunt tibi. Quare, ocelle vatum,
si quid iam meditaris urbi amicum,
quod Zattae, Albritiique praela vincat,
quod aures sonitu impleat capaces,
in rem consule; gratiaque sarta
iunge, o, foedera cum malis poetis.

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Traduzione del Deluca


Gozzi, delizia ed occhio de’ poeti,
cui le grazie ed il fior del tosco stile
dal facil labbro scorre, e i tristi vati
punzecchiar godi con acuto sale,
soave sforzi, e per piacevol guisa
accomandi a poeti e non a’ tristi,
la verginetta inclito onor de’ Balbi:
onde d’egual candor sia puro il verso
come del latte e del giglio piú pura
splend’ella in cerchio d’alme verginette:
come modesto labbro, e modest’occhio
e schietta tonacella e schietta mensa
a lei si addice, sí a’ versetti sia
beltá e rossor; nulla di gonfio e audace
e netti sien di ciance e freddi scherzi.
Ov’hai tu il senno? E non per anche sai,
che questo è corso aperto a’ vati guasti
onde il divorin tutto a briglia sciolta?
Fra’ buoni pigro è questi, e quello ha in odio
triti argomenti; questi vecchio l’arme
depose; ad altri vien men ozio; ed altri
ir misto a’ Bavii e Mevii inorridisce,
e nimico all’avverso secol tace.
Ahi tardo crescerá, credilmi, il foglio;
e pochi ed ispossati e ineleganti
la giovinetta inclito onor de’ Balbi
loderanti. Or tu, o occhio de’ poeti,
se vuoi far opra al paese gradita
che del Zatta e d’Albrizzi1 i torchi avanzi,
che i capaci orecchioni empia col suono,
in ciò pon cura, ed omai fa la pace,
e in brigata ne va co’ tristi vati.


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Il dolce avviso che mi dava quel grand’uomo, assennato per etá, per dottrina e per esperienza, fu guardato da me come una veritá, ma come una veritá che non dovesse troncare le mie risa e il mio divertimento e le difese della purgatezza dello scrivere e della buona morale, contaminati dall’incolto libero modo di comporre e dal sfrenato modo di riflettere tendente alla sovversione de’ costumi.

Un certo cherico appellato Placido Bordoni, sviscerato amante e discepolo dell’abate Chiari, raccoglitore ed editore non so di quanti volumi delle rime del maestro, ch’egli ha intitolate: Poesie liriche, pretese di sbaragliare la nostra accademia con un libricciuolo a cui pose il titolo di Nuovo secreto, ecc., e con una epistola in versi sciolti della nuova ampollosa tempera, diretta all’abate Chiari, ebbe la pretina inciviltá di voler morto e sotterrato mentalmente alla vita letteraria il benemerito mio fratello Gasparo, cantarellando:

          Giá è morto Fannio, in pace
Riposi, ch’io non turbo, quale ei sia.
Quel ch’ei gode lá giú riposo oscuro, ecc.

L’abate Chiari dispose di dare la risoluta sconfitta e la fuga alla schiera de’ granelleschi con certo libro d’un anonimo francese scrittore, da lui pubblicato come sua traduzione, intitolato: Genio e costumi del secolo.

Quel libro francese, che come si deve credere non aveva a far nulla con noi accademici, fu dal Chiari, il quale, per essere uomo uscito dalla compagnia de’ padri gesuiti, si piccava d’essere eccellente scrittore, impastricciato qua e colá d’infiniti squarci mal innestati sulle pagine di quel libro innocente, diretti agli accademici granelleschi colle piú dozzinali e fangose invettive e co’ piú villaneschi strapazzi che un rabbioso scrittore superbo vergasse. Il trattare gli accademici da semplici grammatici, da pedanti inutili, da insetti spregevoli, furono i piú piccioli insulti.

Per un decreto della nostra allegra assemblea, la quale aveva per sozi molti eruditi patrizi veneti, rintuzzai la petulanza del Nuovo secreto del Bordoni e il cattivo impasto del Genio e costumi [p. 226 modifica]del secolo del Chiari, con un libretto di centosettantacinque pagine pubblicato dal libraio Colombani l’anno 1761, sotto al titolo di Fogli sopra alcune massime del «Genio e costumi del secolo» dell’abate Pietro Chiari e contro ai poeti Nugnez de’ nostri tempi.

Nugnez, che dopo aver esercitati parecchi mestieri, con poca educazione e molta ignoranza, divenne improvvisamente autore d’un lago di commedie e di romanzi, descritto nel famoso romanzo del Gil-Blas di Santillana, fu somigliantissimo all’abate Chiari ed a’ suoi seguaci, ch’io presi di mira nelle mie centosettantacinque pagine.

Non darò la pena a me di scrivere, né ad altri di leggere l’estratto di quel libro giá pubblicato in difesa della nostra accademia contro al Chiari, contro al cherico Bordoni, contro al Goldoni e contro gli alunni de’ cattivi scrittori. Chi vorrá prendersi la briga di leggerlo, troverá le cagioni, le controversie di que’ tempi; troverá una scherzevole ferocia e (posso dirlo con un’umile franchezza) troverá una incontrastabile veritá.

Il foglio settimo posto alla pagina cinquantotto, ch’è il confronto fatto da me dell’anonimo autore francese del Genio con la traduzione del Chiari, atto a mortificare un uomo di porfido, fece il gran prodigio di mortificare anche il Chiari. La lettera d’un seminarista a me diretta posta alla pagina centoquattro, e la risposta mia alla pagina centonove, a me sembrano efficaci, non indegne d’essere lette e considerate anche al proposito de’ tempi ne’ quali si troviamo oggidí.

Due sermoni cristiani d’esortazione, in versi sciolti, posti nel principio dell’opera mia, l’uno indirizzato al Chiari, l’altro al di lui alunno Bordoni, chiusero in casa per la vergogna otto e piú giorni il primo, e fecero disperare e girare per la cittá come discervellato e aombrato il secondo, il quale era un giovine di buon intelletto, ma guasto dall’affezione che aveva a de’ strani princípi.

Nel bollore di quella letteraria battaglia mi vidi innanzi una mattina un nunzio del patrizio veneto Giovanni Donado, esponente che l’Eccellenza Sua voleva favellare con me. [p. 227 modifica]

Siccome, per costume e per istinto, la mia vita è d’uomo solitario, che conversa molto con se medesimo forse scipitamente, io non aveva l’onore di conoscere quel cavaliere, che per quella luminosa rinomanza ch’egli aveva nella nostra inclita repubblica e altrove, di mente vasta, di giustizia, di probitá e di rigorismo nelle sue repubblicane ispezioni di governo: attributi che lo faranno vivere immortale ne’ secoli.

Protesto che l’immagine ch’io aveva di quel gran signore e il tremendo tribunale che allora egli occupava, mi scossero a quella chiamata, quantunque la mia comparsa dovesse essere semplicemente al di lui privato palagio. Ebbi per guida confortatrice l’innocenza e v’andai.

Il cavaliere m’accolse con affabilitá, e dopo alcune espressioni comuni d’introduzione chiesi quali fossero i comandi suoi. Egli ebbe la benigna curiositá di squadrarmi dal capo a’ piedi con viso sorridente, poscia d’esprimere con laconismo le seguenti parole:

— Mi sono divertito a leggere le vostre letterarie questioni. Ho desiderato di conoscervi. Avete ragione. È bene che la gioventú s’illumini del vero. Seguitate a difenderlo. Basterá che non veniate alle pugna, perché allora le controversie sarebbero da sospendersi.

Sapeva benissimo che quelle espressioni uscite dalla voce d’un tanto cavaliere dovevano animarmi, perocché gli scrittori che vengono considerati utili alla popolazione, sostenuti dalle provvide mani imperanti, possono cagionare qualche buon effetto; ma sapeva ancora che in Italia, e spezialmente tra noi, alcune pietre scagliate per diga, non sostenute, non protette e non fatte rispettare, servono piú a far maggiormente muggire che a fermare un torrente di strane illegittime innovazioni di corruttela.

I fogli mensuali, che uscivano sotto all’umile titolo di Atti granelleschi, patroneggiati, avrebbero potuto coll’andare de’ mesi passare ad argomenti piú utili alla gioventú, che non era la materia frivola goldoniana e chiarista, essendo particolarmente la granellesca comitiva composta non di limitati ingegnetti, ed [p. 228 modifica]essendo avversa (come si può rilevare da’ nascenti parti suoi) alle infinite massime sparse dalla contagiosa scienza del secolo, alla rovesciata morale di mal esempio e d’incentivo attissimo ad ammutinare l’umanitá subordinata.

Tutto ha sempre servito a farmi studiare il genere umano, né vado soggetto gran cosa ad alterazione o alla meraviglia sopra a ciò che vedo succedere, né se talora scorgo la prudenza in necessitá d’operare contro a lei medesima, per troncare de’ mali maggiori, a’ quali sono paratissimi i cervelli sovvertiti e in tumulto nel bulicame della nostra specie.

I granelleschi furono dipinti molesti, maldicenti, indiscreti ed ingiusti. I loro fogli mensuali furono predicati, iniquamente, pidocchiosi tentativi del bisogno, e non furono chiusi gli orecchi in tutto alle ipocrite calunniose querimonie ed agli uffizi privati de’ torcicolli, ch’ebbero il vigore e l’industria d’accendere sino la gelosia nelle rispettabili giurisdizioni contro a quegli Atti, tutori della sempre orfana veritá, minaccevoli, ma ingenui ed innocentissimi. Il furore contro quelli fu grande, e fu la prudenza che ricise il corso loro.

Le dette scaramuccie letterarie, che incominciarono l’anno 1757 dalla mia Tartana e che seguirono sino l’anno 1761, formarono i gradini che mi condussero a ordire de’ capricci scenici.

Oltre a che le accennate questioni avevano pregiudicato alquanto all’opere teatrali in andazzo de’ due poeti Goldoni e Chiari, essendo quelle guardate con minor cecitá di fanatismo, la pace fatta tra essi aveva terminato di raffreddare i loro letterari interessi.

L’emulazione che ardeva prima tra loro e le critiche che si facevano l’un l’altro, avevano riscaldati e fatti bollire due partiti divisi d’opinione, che con le gare erano stati fruttiferi.

Non s’era veduto giammai partito diviso in una tanto inconcludente materia, con maggior susurro, né con maggior ingiustizia. Dico ciò in favore del Goldoni, e per poco onore delle umane geniali intelligenze e dell’umano discernimento.

Quella pace e quella lega offensiva e difensiva de’ due poeti teatrali contro gli accademici granelleschi, partorí la conseguenza [p. 229 modifica]della freddezza all’opere loro, e il giro del tempo che dá fine ad ogni andazzo faceva apparire un languore di mal augurio.

Nulla di meno, rincorati que’ due scrittori dall’argine posto al proseguimento degli Atti granelleschi, seguitavano a vilipendere la brigata degli accademici co’ titoli di grammatici, di pedanti, di cruschevoli affettati e stitici, di scrittorelli inutili.

Il Chiari, con rodomontesca prosopopea, gli aveva sfidati a comporre delle commedie in sua competenza. Di ciò fanno tesumonianza que’ versi d’un sonetto di mio fratello Gasparo, stampato negli Atti granelleschi, sotto al nome del «Fecondo»:

     Prima di fare a’ granelleschi invito
fanne una tu non pazza né bestiale,
ma ch’abbia il suo ripien sano e l’ordito.
                    Allor poi sali ardito
sul monte d’Elicona e gli disfida;
intanto lascia che di te si rida.

Il Goldoni, quantunque avesse confessato pubblicamente di non aver studiato a’ buoni fonti e d’essere un cattivo scrittore, non rifiniva però di deridere la coltura dello scrivere.

Armatosi in sua difesa di quegli elogi che qualche merito dona e la impostura cerca con tutti i mezzi, soccorso da de’ fautori che l’ammiravano e cercavano d’imitarlo con delle commedie, con una spossatezza sventuratissima, e che essendo unicamente nuvoloni di vuote parole poste in dialogo, chiamavano me semplice «parolaio», si era trincierato nel dire che l’enorme concorso popolare veduto alle sue opere teatrali decideva della essenzialitá del suo vero merito, che altro era una critica sottile di parole ed altro le cose approvate e acclamate da’ popoli ne’ pubblici teatri.

Sembra impossibile che ad un uomo il quale si vantava studente accurato de’ popoli e della natura, che aveva veduto un immenso terribile partito in concorso a lui avverso, suscitato dalle opere snaturate e bestiali del Chiari, suo critico e suo scenico competitore, uscisse di bocca una cosí debil prova del suo vero merito. [p. 230 modifica]

A quella sua proposizione, che sembrava a’ mal pratici della umanitá una torre inespugnabile, opposi quel sonetto bernesco:

     Dottor, se incontra qualche tua commedia,
non dir per questo ella sia buona mai;
perché se incontra una del Chiari assai,
tu di’ ch’ella è cattiva, e ch’ella tedia;
     e se a qualche altra il popol non t’assedia,
stolto e ignorante non lo chiamerai;
o s’una al Chiari casca non dirai:
— Ciò fu perché ella è una fola, un’inedia. —
     O tu vuoi che il concorso sia buon segno,
o l’abbandono un tristo segno sia,
o il popolo a decider non sia degno.
     Perdio, Dottor, di qua non fuggi via.
Rispondi e aguzza quanto vuoi l’ingegno:
o tu, o il Chiari, o il popolo è in pazzia.
                    Se astratto e in balordia
rispondi: — È sempre buon segno il concorso, —
viva il Goldoni, il Chiari, il Sacchi e l’orso.

Ma forse perché cento consimili mie composizioni d’argomenti scherzevolmente ed efficacemente trattati, con le quali fui invero un martirio a quel buon uomo, erano pur chiamate tuttavia con disprezzo da lui e da’ suoi partigiani eco della di lui voce, frivole e non curabili maldicenze uscite dall’animo d’un uomo torbido, invidioso e cattivo, e perché egli citava sempre ostinatamente il concorso popolare per autenticitá del merito delle sue teatrali produzioni, espressi un giorno, senza rimordimento del mio cuore, che il concorso in un teatro non decideva che le opere sceniche sue fossero buone, e che io m’impegnava di cagionare maggior concorso delle sue orditure colla fiaba dell’Amore alle tre melananze, racconto delle nonne a’ lor nipotini, ridotta a scenica rappresentazione.

Delle risa incredule e beffeggiatrici accesero il mio puntiglio e mi fecero accingere a quel cimento bizzarro.

Composto e letto da me il mio strano apparecchio a’ nostri dotti accademici granelleschi, benché le loro risa sulla lettura [p. 231 modifica]mi facessero un buon pronostico, essi medesimi però nel fine mi sconsigliarono, anzi mi pregarono a non esporre quella fanciullaggine, adducendo che sarebbe fischiata e che poteva pregiudicare il decoro accademico con tanto onore sino a quel punto sostenuto.

Risposi che conveniva assalire l’intero pubblico sul teatro per cagionare una scossa di diversione, ch’io donava e non vendeva il mio tentativo di nobile vendetta all’accademia vilipesa a torto, e che le loro signorie, intelligentissime di coltura, d’esattezza e di buoni libri, conoscevano molto male il genere umano e i nostri simili.

Donai alla compagnia comica del Sacchi la mia originale stravaganza scenica e fu esposta nel teatro in San Samuele in Venezia nel carnovale dell’anno 1761.

La novitá d’una tal fola inaspettata, ridotta ad azione teatrale, che non lasciava d’essere una parodia arditissima sull’opere del Goldoni e del Chiari, né vuota di senso allegorico, ha cagionata un’allegra rivoluzione strepitosa e una diversione cosí grande nel pubblico, che i due poeti videro come in uno specchio la lor decadenza.

Chi averebbe predetto che quella favilla fiabesca dovesse debilitare l’andazzo dell’opere sceniche ch’erano prima tanto ammirate, e rialzare sopra a quello l’andazzo, acclamatissimo per tanti anni, d’una mia serie successiva di fiabe fanciullesche? Cosí va il mondo.



Note

  1. Famosi stampatori di Raccolte.