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CAPITOLO XXXIV

Séguito di letterarie giocose baruffe da me sostenute. Goldoni e Chiari. Mia determinazione di spassare i miei concittadini con delle sceniche bizzarre fantasie sul teatro.


L’andazzo introdotto di libera irregolaritá e d’entusiasmo faceva de’ gran progressi come andazzo comodo. Le menti traviate e confuse avevano perduto il discernimento del mal scrivere dal ben scrivere, e applaudivano per ignoranza e per supposizione il pessimo e l’ottimo indistintamente.

Poco a poco si adottarono le goffaggini comuni e intelligibili, le gonfiezze tuonanti e tenebrose, e lo scriver puro, colto, giudizioso e naturale apparve snervatezza e spregevole affettazione.

Il sciagurato contagio si diffuse per modo che furono considerati, acclamati e applauditi generalmente per eccellenti, originali, inarrivabili scrittori italiani, sino il dottore Carlo Goldoni e l’abate Pietro Chiari, i quali dovevano anch’essi cagionare un andazzo di pochi lustri, per contribuire alla fatale sconfitta dell’accurato e purgato scrivere.

Que’ due poeti teatrali, emuli e critici l’uno dell’altro, ebbero il vigore di far bollire i cervelli della nostra popolazione per modo che, divisa in due procellosi partiti, faceva poco meno che alle scientifiche pugna per sostenere la sublimitá dell’opere loro.

Una tempesta di commedie, di tragicommedie, di tragedie, ammassi di imperfezioni, poste in iscena a gara e a furore successivamente da que’ due geni dell’incoltura, e un’influenza sterminata di volumi d’opere teatrali, di romanzi, di lettere critiche, di poemi, di cantate, di apologie de’ due guastatori co’ quali inondavano la cittá di Venezia, sbalordí, tenne occupata e sviò da ogni regolaritá e dal buon senso tutta la gioventú.

La sola nostra allegra societá granellesca si tenne monda dall’andazzo epidemico goldoniano e chiarista.