Meditazioni sull'Italia/Terza parte/III

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Terza parte - II Quarta parte
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III

Commemorazione di

Machiavelli1


In due maniere possiamo vendicarci del destino: o reagendo o aiutandolo senza crederci a scatenarsi.

Io mi sono ubbriacato delle passioni che detestavo e le ho offerte agli uomini.

Il mio secolo era popolato d’esiliati. Io sono rimasto radicato alla terra e ho preferito essere l’esiliato di me medesimo.

Giusto Lipsio. — Machiavelli, ti commemorano su tutta la terra.

Machiavelli. — Gli uomini, ogni tanto, si ricordano di noi. Ridiventiamo dei soggetti per i giornalisti.

Giusto lipsio. — Congratulazioni.

Machiavelli. — Contento? Un poco, perchè

Giusto Lipsio. — Non mi sembri troppo contento. [p. 184 modifica]

Machiavelli. — Contento? un poco, perchè anch’io, come tutti gli uomini sono vanitoso; ma per troppe ragioni questo centenario mi adombra.

Giusto Lipsio. — Questo succede sempre.

Machiavelli. — Forse hai ragione.

Giusto Lipsio. — Gli uomini ti capiscono male; ma ti ammirano. Non trovi che — in questo — c’è un certo compenso?

Machiavelli. — No. Tu credi che faccia piacere, una ammirazione inesatta? Quando mi sporgo dal regno delle ombre, vedo un mondo formicolante d’amici. Ma niente è cosí difficile come difendersi dagli amici che ti amano male. Io ti dico che sono più pericolosi dei nemici. Perchè sono vile; e ci vorrebbe un cuore di quarzo per rimetter le cose a punto. E poi, che vuoi, quando gli uomini, che son cosí dimentichi, cosí lascivi, si ricordano di te dopo quattro secoli che sei morto, non hai più il diritto — credimi — di cercare il pelo nell’ovo. Bisogna ringraziarli, perchè questo non succede a tutti.

Giusto Lipsio. — Infatti nessuno si ricorda di me, salvo qualche studente — ogni tanto — ; un disperato che spera di vincere un concorso commentando la mia Politica. Ma questo obblio non mi rattrista; e non credo, d’altronde, d’avere all’immortalità tanti diritti quanti ne hai tu. Posso dirmi soltanto, Machiavelli, che sono stato più savio, di te.

Machiavelli. — Questo spiega perchè gli uomini ti abbiano dimenticato. [p. 185 modifica]

Giusto Lipsio. — Credi?

Machiavelli. — Gli uomini non hanno mai amato la saggezza. Ti pare che, se no, m’avrebbero amato? Ma credono di amarla. Guarda quel che m’è successo. Io — come dici tu — non sono stato savio per nulla. Eppure oggi il mondo con gran pompa mi commemora. E tutti mi ammirano, non come un pazzo di genio, che sarebbe poi la sola maniera ingegnosa e morale di ammirarmi, ma come un uomo, politico, pieno di previdenza, chiaro esempio di buon senso. Io — dunque — uomo di buon senso? Ti giuro che non mi ci raccapezzo! Non paghi di ammirarmi, gli uomini mi vogliono anche giustificare; non paghi di giustificarmi, mi vogliono leggere. Non era pericoloso, che gli uomini mi ammirassero, quando non mi leggevano; ma da quando han cominciato a leggermi mi sento ansioso e indispettito allo stesso tempo. Tu sai come abbia scritto da spregiudicato, da cattivo soggetto. I miei libri mi parevano degni, almeno, di un po’ di scandalo. Avrebbero dovuto, per lo meno, provocare negli uomini un sentimento di irritazione, se non di inquietudine, — ma acquietarli no — questo no. Che mi si dica: «ecco un modello di buona politica», è troppo. Invece di bruciarmi nelle piazze, gli uomini vengono a me come mandre di pecore, devotamente, scolasticamente immorali. Oh! Questa universitaria e dotta birbanteria! I miei libri sono commentati nelle scuole: e questo è il più grande scandalo. Perchè si cerca di persuadere i bambini — povere [p. 186 modifica] creature innocenti — , che non sono così brutto come pare a prima vista. Che vuoi che succeda? Glielo dicono tutti: finiranno per crederci. Davvero, Giusto Lipsio, lo spettacolo del mio centenario mi inquieta. In fatto di crisi, sono un vecchio esperto; che ce ne sia una molto grave mi pare indiscutibile, a giudicare da questi sintomi. Gli uomini non hanno più sensibilità morale; ecco un periodo solenne. Perchè le civiltà sono come la cupola di Santa Maria del Fiore: non reggono che grazie al contrappeso della lanterna — e questa lanterna è la morale.

Giusto Lipsio. — Oh! Perchè hai aspettato, a diventar saggio, d’essere in mezzo alle ombre? lo t’ho combattuto appunto per le ragioni che hai detto.

Machiavelli. — Ah! Ah!

Giusto Lipsio. — Perchè ridi?

Machiavelli. — E’ buffo, che noi si trovi il modo di litigare, quando siamo peccatori dello stesso cerchio. Ma chissà, forse è per questo. Apri gli occhi e guarda nella tua coscienza con disinteresse. Dimmi ora se tutte le mie colpe non sono anche le tue? Si io — forse — in un momento di disperazione, ho concepito una dottrina diabolica; ma tu te ne sei fatto l’araldo. Perchè mai tu, Giusto Lipsio, umile servo della Contro Riforma, capzioso difensore della Ragion di Stato, hai scritto dei libri, solo per diffondere un principio di cui avevi orrore? [p. 187 modifica] Se questo principio l’ho creato io, certo l’hai diffuso tu; se io l’ho immaginato, tu l’hai giustificato, chè dico, te ne sei servito senza misura. Ma poiché il mio nome non era il sigillo più opportuno, per far diventar rispettabile la Ragion di Stato, tu e i tuoi accoliti avete ricorso — oh! oh! a chi mai? — a Tacito! Ma non v’accorgete, che fate ridere? Mi bruciate in effigie, e intanto mi rubate sotto mano le idee e le spandete nel mondo, unte dal papa legittimate da Tacito, e cioè da uno storico che le ha combattute tutta la vita. Oh! A quell’epoca avrei voluto incontrare la sua ombra.

Giusto Lipsio. — Tutto questo discorso non è preciso.

Machiavelli. — Allora ricorriamo ai testi. Prendiamo la tua famosa Politica. Ci troviamo, a colpo, questo innocuo precetto: «Se al mio Stato son necessarie una città o una provincia, e so che un altro, nel caso in cui non mi movessi, le occuperebbe con grave mio danno, non debbo forse prevenirlo? » Ecco un consiglio istruttivo, Giusto Lipsio. Ma non ti sei contentato di sottrarmi, camuffandoli, dei principî: mi hai ripreso anche delle immagini, se non sbaglio, ho scritto che gli uomini sono cattivi e pazzi e che per governarli non basta esser leone, ma bisogna esser volpe. E tu: «In mezzo a chi viviamo? Tra i furbi, i cattivi, e quelli che sembrano fatti tutti di frodi, tranelli e menzogne. Gli stessi Principi appartengono a questa classe; e per quanto [p. 188 modifica] preferiscano esser leone, tengono sotto il petto l’astuta volpe. Ma come se questo non bastasse tu fai dello zelo: offri ai principi una definizione ricca di risorse politiche, che avrei avuto vergogna, non dico di scrivere, ma solo di pensare. Io non so come giudichi ora la Frode. Allora pensavi che «La Frode è un sottil disegno, a virtute aut legibus devium, e buono per i Re e per gli Stati». Tu pensi che la Frode è un «argutum consilium» quando io la considero come una triste necessità. Ma poi, chissà! Forse non è vero neanche questo!

Giusto Lipsio. — Lasciami rispondere con calma. Vorrei raddrizzare, se non ti dispiace, certi argomenti che hai storti alla tua tesi semplicemente con l’astuzia. Definiamo dunque la Ragion di Stato: il Botero, uno de’ suoi filosofi, ha scritto che la Ragion di Stato è «notizia di mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio così fatto ». Ma questa definizione, te lo confesso, mi sembra ipocrita, la Ragion di Stato. Lo sappiamo tutti, è una dottrina, che permette allo Stato, in certe occasioni, di violare la legge morale. Ma la Contro Riforma l’ha rinserrata, come si faceva coi venti, in certi otri santi. Non devi ridere, quando ti dico che la Ragion di Stato dev’essere unta dalla Chiesa. E’ già un modo di limitarla; questo diritto infame e necessario non è più concesso a tutti, ma solo a certi Stati legittimi, consacrati dalla Chiesa. Tu stesso hai detto che « il Principe naturale ha meno ragioni [p. 189 modifica] e necessità di offendere». Per il fatto stesso ch’è legittimo è anche più forte e la Ragion di Stato gli è meno necessaria. Se tu mi dici che gli Stati che non sono legittimi, non avranno nessuno scrupolo di violar questa regola, io ti dó ragione; ma devo, a ogni modo aggiungere che c’è una differenza: noi non li giustifichiamo più. Ecco un altro limite. Ma non è il solo. Ne abbiamo creati alla morale. Tu hai letto i miei libri con molta attenzione; ma, come succede sempre, non ne hai citati che i brani, che servivano ai tuoi argomenti. Se permetti, mi citeró da me. Tu m’hai maliziosamente ricordata la mia definizione della Frode, ma ti sei fermato a mezzo; io invece ho continuato, e ho detto:

«Ci sono tre specie di Frodi: una frode leggera, una mediana, e una grave. Chiamo leggera quella che non s’allontana troppo dalla virtù ed è appena inumidita dalla rugiada della malizia. In questa classe metto la Diffidenza e la Dissimulazione. Chiamo Mediana quella che s’allontana sempre più dalla virtù e arriva ai confini del vizio. In questa classe metto la Falsità e l’Inganno. Alla terza classe appartengono quelle malizie già robuste e perfette, che non s’allontanano solo dalla virtù; ma anche dalle leggi: e cioè la Perfidia e l’Ingiustizia. Consiglio la prima specie, tollero la seconda, condanno la terza ». Esaminiamo ora la tua dottrina. Fin da principio si oppone alla mia, perchè io non ammetto tutte le frodi e tu le ammetti tutte. Tu dici: « Un [p. 190 modifica] Principe, e massime un Principe nuovo, non puó osservare tutte quelle cose, per le quali gli uomini sono tenuti buoni, essendo spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione».

E aggiungi: « A un Principe non è necessario avere tutte le soprascritte qualità, ma è ben necessario parere d’averle... Deve dunque avere un Principe grande cura, che non gli esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità e paia, a vederlo ed udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione ».

I tuoi Principi non hanno soltanto il diritto di essere infinitamente immorali; ma anche quello di nascondere i loro delitti sotto una illusoria apparenza di rettitudine. Non hanno dunque nè limiti morali, nè responsabilità. Tu vedi la differenza: questo privilegio del delitto, una volta che è smascherato e messo in piazza, non è più lo stesso: noi abbiamo fatto, della Ragion di Stato, un principio pubblico, che ha certi vantaggi, ma ha molti pericoli. Tu non lo suggerisci ai Principi che facendo l’occhietto. Noi non l’abbiamo concesso che agli Stati legittimi. Secondo te, regge le «azioni di tutti gli uomini, e massime de’ Principi». Lo consigli persino al capitano che ritorna in patria dopo una guerra vittoriosa, perchè « cerchi di punire il suo signore di quella ingratitudine che esso gli userebbe ». Ma [p. 191 modifica] rimandiamo a poi questi paralleli. Lascia che esamini la mia. La tua dottrina è stata senza dubbio favorita dalla gloria. La storia le ha trovato una formula: il fine giustifica i mezzi. Non so quanto ti soddisfi. A me — te lo confesso — pare imprecisa. Leggo, nel tuo Principe, che esistono due speci di crudeltà, quelle bene usate e quelle male usate. Alla prima specie appartengono le crudeltà, molto grandi, che si fanno di un colpo e che non si ripetono più; alla seconda quelle che, invece di spegnersi, crescono ogni giorno.

Il fine non giustifica dunque tutti i mezzi. Perchè, seguendo questo principio alla lettera, non si dovrebbe badare al numero: il fine dovrebbe giustificare non una, ma infinite crudeltà. Questo peró mi parrebbe un principio barbaro non degno del tuo sottile ingegno. Tu tieni conto, senza volerlo, della legge del minimo mezzo, che giustifica, economicamente, qualunque principio politico. C’è dunque nel tuo principio più e meno di quel che si crede. In verità tu sei più logico, ma allo stesso tempo più immorale, perchè non dici il fine, ma il successo giustifica i mezzi. E’ nato, molto tempo dopo di te, un filosofo, un certo Hegel, che devo aver incontrato fra le ombre e che ha scritto, se non mi sbaglio, qualcosa di simile. Questo principio mi sembra più logico, perchè sarebbe veramente ridicolo che tu battessi le mani a un Principe il quale, dopo aver usato di tutti i mezzi, leciti e illeciti, non riesce nemmeno a vivere; ma mi sembra anche più immorale, perchè [p. 192 modifica] dovendo scegliere tra un Principe saggio e disgraziato e un fortunato birbante, concedi per definizione a quest’ultimo il tuo favore.

Bisogna, in ogni modo, rilevare che questo principio, che sia savio o no, è molto lontano dal nostro. Perchè tu lo dài agli uomini come una regola rigorosa; e noi non pensiamo, invece, che a limitarlo. La monarchia assoluta doveva conciliare le necessità del suo sviluppo, con le tradizioni morali e religiose del seicento. Noi abbiamo cercato il solo accordo in cui queste contraddizioni potessero risolversi. Il nostro compito, come ti dicevo, è stato di chiudere in vasi di ferro la tempesta che hai scatenato.

Se è dunque vero che il successo giustifica i mezzi, ciò che non credo, la tua dialettica, per questa volta, non è giustificata, perchè mi pare che non abbia ottenuto il più piccolo successo.

Machiavelli. — Forse hai ragione Giusto Lipsio; ma c’è, tra noi due, questa differenza: tu sei un ragionatore, io sono un uomo. E’ come dirti che mi riempiono le passioni. Oh! Com’è facile fare di una teoria delle preparazioni anatomiche; come è difficile ritrovarne l’origine! Vedi, quello che mi interessa, in una teoria, sono le brume psicologiche da cui è venuta fuori. La gente pensa: Machiavelli ha guardato il mondo, s’è chiesto che cosa bisognasse credere dinanzi a quella moltitudine di pazzi e di disonesti, ed è arrivato al suo principio, di gradino in gradino, per la comoda e dolce via della [p. 193 modifica] logica. Giusto Lipsio, sulla terra, a questo modo, le cose non succedono mai! I principï nascono dalle passioni, che nascono dalle cose. Ma la trama degli avvenimenti è imprevedibile. Le passioni, per esprimersi, scelgono gli sbocchi più sorprendenti. Alle volte s’oppongono agli avvenimenti, alle volte, per reazione, ci si modellano sopra. Non è incredibile? Ma forse questo è italiano. Ti meraviglieró, Giusto Lipsio, dicendoti che i nostri principî, che non s’accordano punto, nascono poi dalle stesse passioni. Non ho avuto che una nostalgia: l’ordine; che un amore: la giustizia. Ma come parlarti del mio tempo? Tu non lo conosci. Ti diró solo che non ci si viveva così comodamente, come ora gli uomini credono. Era il trionfo del provvisorio. E’ come dirti che era il trionfo del delitto. La mia esperienza m’ha insegnato che qualunque Stato provvisorio è criminale, e che uno Stato è tanto più giusto quanto più è vecchio. E io, io che avrei potuto governare quella tempesta; io che, solo tra quegli uomini ubriachi di potenza transitoria, avevo nel sangue la passione della giustizia, io, Machiavelli, giocavo alle carte all’Albergaccio — rialzando il bavero della mia veste perchè non si vedessero sul mio collo magro, le striscie rosse dei tratti di corda! Non ti stupire, Giusto Lipsio; questo succede a tutti gli uomini che amano la giustizia, quando vivono nel regno dell’ingiustizia. Che pensi tu dell’ingiustizia? Io la stimo una delle più funeste epidemie sociali; e perchè no? civili. Socialmente, non è che un [p. 194 modifica] immenso spreco. Non mi sembra possibile che uno Stato ingiusto possa presentare un bilancio attivo. Oh! Giusto Lipsio, io sono stato, nel segreto del mio cuore, un uomo profondamente morale. Posso, dirlo, oramai: non credo alla forza politica dell’immoralità. Un paese onesto è sempre più forte, quando si considera la sua storia dal fondo dei secoli, di un paese disonesto. Sono più rigoroso di te: non concedo la Ragione di Stato neanche agli Stati Legittimi, unti dal papa. La Ragion di Stato non è soltanto un’infamia: è una stupidaggine; e la politica più furba è sempre quella più saggia.

Che cos’è, infatti, una « malizia » politica? E’ la rottura di un equilibrio: trionfa una nuova combinazione di cose che è falsa e conserva soltanto l’apparenza della vecchia solidità. La Potenza che l’ha stabilita prospera; ma è come se giacesse sul piatto di una bilancia alterata: alla minima debolezza, riprende il sopravvento l’equilibrio naturale dei pesi. E come evitare quel momento? La potenza furba è sempre inquieta. Si difende con altre malizie, che alterano ancora un assurdo equilibrio. E più la bilancia pende dalla sua parte, più questa Potenza si adombra, perchè teme, giustamente, una reazione che dev’essere uguale all’azione.

Le sciocchezze si fanno appunto in questo stato di diffidente irrequietudine. Tu mi dici che c’è in tutti i tempi un minimo di squilibrio naturale, che l’equilibrio naturale non coincide mai perfettamente con l’equilibrio politico. E’ vero. Questo minimo [p. 195 modifica] esiste; ma le epoche savie non cercano che di diminuirlo.

Lipsio. — Casco dalle nuvole! Ma allora, perchè hai scritto il Principe?

Machiavelli. — Giusto Lipsio, sei troppo sapiente per capirmi. Ci sono, nella vita umana, dei momenti scintillanti, in cui lo spirito umano si placa nel paradosso di sé. In due maniere soltanto possiamo vendicarci del destino: o reagendo, o aiutandolo, senza crederci, a scatenarsi. Io, in mezzo alla tempesta, ho ritrovato la calma nel rovesciamento dei miei eccessi; mi sono ubriacato delle passioni che detestavo e le ho offerte, preda ironica, ai vizi degli uomini, per vederli malati del mio stesso dolore. Il mio secolo era popolato d’esiliati: tutti coloro che non avevano voluto vivere secondo l’uso del tempo. Io son rimasto radicato alla terra, che m’aveva generato. E ho preferito essere l’esiliato di me medesimo.

Note

  1. Da «Solaria» — 1927.