Lydia/IX
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IX.
Quel dolore era piombato così improvvisamente nella vita frivola della fanciulla, ch’ella ne era rimasta atterrita e quasi indignata come di cosa ingiusta.
Aveva visto piangere qualche volta senza che le fosse passato per la mente la possibilità per lei di spargere lagrime.
Essere bella, divertirsi: questa cara e incessante occupazione, la sola a cui era avvezza fin da bambina, non le aveva mai lasciato il tempo di guardarsi attorno e di riflettere.
Tutto ciò che vi era in lei di sensibile, nervi affinati, gusti eleganti, abitudine di leggiadria e di sorrisi, tutto ciò ricevette un urto fortissimo da quel cadavere che le si era irrigidito nelle braccia, lasciando il sudore della morte sul suo abito bianco. Niente poteva consolarla, niente frenava il parossismo di quella disperazione, alla quale Lydia si abbandonava con la voluttà di una sensazione ignorata, mordendo il frutto amaro ma nuovo del dolore.
Parlava sempre con tutti della madre morta, esaltandosi alle sue proprie parole, trovando dei gesti drammatici e certe inflessioni di voce per le quali restava sorpresa, in ammirazione di sè stessa; poiché guardarsi e ammirarsi era nelle sue abitudini, ma non si era accorta di possedere quella nota appassionata, e la curiosità della scoperta le faceva prendere diletto nel ripeterla.
Il suo dolore era vero e reale; ma questa piccola messa in scena, pur vera e reale anch’essa, intimamente legata al suo modo di sentire, questa irritava il mondo.
Non le perdonavano di aver messo a lutto il salotto, con dei veli neri distesi sui lampadari e dei mazzi di fiori sotto il ritratto della madre defunta. Non le perdonavano la sua posa di andare al cimitero tutti i giorni, dalle cinque alle sei, in carrozza chiusa, coi cavalli neri, i paramenti neri, il cocchiere vestito di nero, ed ella stessa chiusa da capo a piedi in un lungo velo funebre, sotto il quale traluceva appena l’oro, l’argento e il rame dei suoi capelli. Non le perdonavano di spargere lagrime autentiche dentro i fazzolettini trinati col profumo di Ixora, che aveva sostituito la peau d’Espagne.
Era lei, era Lydia. Piangeva nello stesso modo che rideva, con sforzo, con apparato, preoccupatissima dell’effetto — ma non glielo perdonavano. Al club, tra uomini, si dilaniava la sua reputazione con parole che erano lame di pugnale. Calmi, a cui bruciava ancora la scena del balcone, non la difendeva certo. Nei crocchi delle signore la si pungeva delicatamente, con sottintesi che erano punte di spillo avvelenate.
Qualcuno disse di aver veduto le sue camicie da notte, ricamate in nero, con un nastrino nero infilato nei trafori. Un altro, per non stare indietro, affermò che Lydia aveva ordinato delle giarrettiere di velluto con un teschio d’argento al posto della fibbia.
Allora il presente non bastò più; si ripescarono le vecchie storie; si disse che ai bagni Lydia andava, nuda, in un canotto insieme a due o tre giovinotti, e dopo avere spacciato queste novelle le ridevano quasi in faccia, se l’incontravano, di ritorno dal cimitero, tutta chiusa nel velo di lutto.
Due amiche non l’abbandonarono, Eva e Costanza. Costanza le scriveva lunghe lettere, ispirate ai conforti di una religione elevata, ed Eva passava da lei quasi tutte le sere, rinunciando alla società che l’acclamava sempre regina.
Erano serate intime, piene di dolcezza. Il baronetto Seymour, nella sua grande bellezza di vecchio vegeto sedeva in disparte con don Leopoldo — mesti e silenziosi entrambi, dominati dai rimpianti del passato; ma don Leopoldo si accasciava, si rimpiccioliva, spariva tutto nelle tribolazioni della vita, timido e senza forze; il baronetto invece sembrava trovasse una luce nuova sotto l’aureola de’ capelli bianchi; la sua calma era imponente.
Le due ragazze chiacchieravano, prima di tutto, con qualche lagrima, rammentando la bontà di donna Clara; poi, insensibilmente, scivolavano in argomenti più mondani. Già la loro prima giovinezza era passata; s’erano fatte più donne, più serie, con quella nube leggera di mestizia che pare la traccia dell’ala del tempo. Nei loro discorsi fluttuava, inconsapevole, un principio d’amarezza.
Lydia affettava più che mai lo spirito forte. Diceva spesso che non voleva prendere marito, che non comprendeva affatto l’amore, che era sicura di non amare mai. Divertirsi era stato lo scopo de’ suoi anni trascorsi, ora abbracciava un altro ideale: quello di soffrire e di piangere per tutta la vita una persona cara.
Era convinta che tutte le sue lagrime sgorgassero per la madre morta. E però trovava un grande vuoto intorno a sè. Nessuno più l’interessava; gli uomini che le avevano fatto la corte erano tutti viziosi o imbecilli o vani o speculatori. Si esaltava raccontando cento minuti particolari, dichiarazioni, dialoghi, motti spiritosi, documenti umani presi sul vero, palpitanti ancora. E tutte le sue osservazioni erano acute, mordaci, imbevute di uno scetticismo disinvolto che aveva l’apparenza della maggior leggerezza.
Eva non faceva confidenze. Più riservata, più fredda, ascoltava sorridendo a fior di labbra. In fondo a’ suoi occhi neri, nel raggio vellutato dello sguardo che sembrava, talvolta, nascondersi all’ombra delle palpebre, ella proteggeva il suo segreto; e se, ad onta de’ suoi sforzi, un pallore più intenso, un rapido sollevamento del petto tradiva la violentata emozione, miss Seymour aveva pronto il suo raggiante sorriso che accaparrava tutta l’attenzione, e impediva di scrutare più in là.
— Che io non mi mariti — diceva Lydia qualche volta — è naturale. Sono fantastica, imperiosa, e mi burlo di tutti gli uomini che aspirano alla mia mano. Ma tu, con tanta bellezza, con tanta virtù e tanti meriti, è impossibile che rinunci a formare la felicità di un uomo; sarebbe un delitto.
A tali insinuazioni miss Seymour chinava i bellissimi occhi e non rispondeva nulla.
Per un istante Lydia aveva sospettato di Mario Avella. Il giovane studioso, che frequentava pochissimo la società, non si vedeva che a quelle riunioni dove c’era Eva. A un teatro, a un ballo, a un concerto, dovunque miss Seymour portasse l’incanto della sua bellezza da dea, appariva, come evocata da una bacchetta magica, la testa intelligente di Mario Avella. Ma quasi due anni erano trascorsi, nè egli usciva dalla sua taciturnità, nè Eva aveva mai fatto allusione a lui.
Una volta, in occasione di un premio straordinario conferitogli dal ministero, Mario Avella ebbe ventiquattro ore di vera celebrità. Nei salotti non si parlava che del giovane siciliano. Lydia allora credette di scorgere un lampo di gioia sulla fronte della sua amica, e nella speranza di carpirle il segreto, se c’era, le disse improvvisamente:
— Ho sentito che il ministero ha proposto Mario Avella per una missione importante all’estero. Egli accetta, non è vero?
Eva stava in quel momento osservando un ricamo e non si vedeva del suo volto che la linea purissima del profilo. Rispose, senza muoversi, colla sue voce calda e tranquilla:
— Non lo so; farebbe benissimo ad accettare. La gloria deve essere un’incantevole sirena.
— Più della donna? — chiese Lydia, cacciando il volto birichino tra il volto dell’amica e il ricamo che essa guardava.
— Forse.
E miss Seymour sorrise.
Da quel giorno, Lydia abbandonò l’idea che Mario Avella corteggiasse Eva; molto più che ad un tratto il giovane sparve, ritornato in Sicilia, dicevano gli amici, per affari di famiglia.
Eva intanto rifiutava ricchissimi matrimoni, e si mostrava sempre meno in società. Verso il principio dell’inverno la sua salute si fece cagionevole. Il baronetto, che viveva per lei sola, la condusse subito in riviera, nel dolce clima di San Remo. Lydia restò sola.
La sua posizione in società era bizzarra. Indipendente e non maritata; vergine e già passata attraverso le corruzioni della fantasia; non avendo mai concesso un bacio, eppure vituperata dalla fama. Sentiva che tutto vacillava intorno a lei, che le mancava il terreno sotto ai piedi, e faceva un po’ come gli ubriachi, i quali per non confessare di esser brilli bevono ancora. Ella ormai non poteva vivere senza un eccitamento qualsiasi.
Aveva chieste le sue gioie ai trionfi mondani, al lusso, all’ebbrezza delle feste; le aveva chieste alle raffinatezze dell’arte, alle letture seducenti, a tutto quanto la sensualità ideale può suggerire ad una donna nata e cresciuta in mezzo ai trionfi di una classe privilegiata.
Aveva portato fino all’adorazione il culto di sè stessa, l’amore dell’eleganza e della bellezza; era satura di omaggi, non sapeva più che cosa chiedere a sè stessa ed agli altri.
Il dolore della madre morta l’occupò per molto tempo; ma un giorno si accorse con terrore di non avere più lagrime.
È finita, pensò, non so più nemmeno soffrire. E la prese uno sgomento maggiore ancora di quello che aveva provato per la morte della madre. Adesso era lei che moriva. Che fare? Dove aggrapparsi? A chi o a che cosa chiedere un’emozione?
Da tanti anni si guardava nello specchio, da tanti anni riceveva visite e le rendeva, andava a teatro o a passeggio, vedeva sfilare davanti a sè le meraviglie dell’arte e dell’industria; da tanti anni strofinava la sua carne e la sua immaginazione a tutti gli eccitamenti di un godere delicato; motteggiava, civettava, udiva menzogne e mentiva. Era stanca alla fine. Non c’era altro? Niente altro?
Costanza le scriveva ancora lunghe lettere, dalle quali spirava la serenità di un’anima che ha trovata la sua missione. Anche Costanza era stanca del mondo, e giudicava ingannatrice la società che dopo averla proclamata bella, cara ed amabile, non sapeva darle l’amore. Per qualche anno la lotta era stata straziante. Aveva visto sfiorire la sua bionda bellezza nella solitudine, invocando un uomo meritevole di lei, del suo cuore, e quest’invocato non giunse! Costanza Jeronima volle imitare allora la sua antenata; quella si era immolata ad un amante, ella si immolò al suo ideale. Non pose i bei capelli biondi sotto la cuffia di una monaca, perchè i tempi sono cambiati e non è più di monache che abbisogna il mondo; ma consacrò tutta sè stessa alla carità, alla beneficenza, e poichè era stata tanto pudica da non accendere mai un desiderio, l’amore che un uomo non le aveva chiesto ella trasfuse generosamente nell’amore degli altri.
Questa volontaria abdicazione di una donna giovane ancora, questa fiera rinuncia ad una felicità mondana condizionata e sbocconcellata, fece molta impressione su Lydia. Ella aveva ingegno sufficiente per comprendere l’elevatezza di un orgoglio trasformato in virtù.
Volle imitarla.
Con ardore febbrile si pose alla ricerca dei poveri, si informò delle diverse società di beneficenza, e chiese di esserne patronessa.
Chiusa in un semplice vestitino nero, i capelli lisci, accompagnata da un vecchio domestico, intraprese il pellegrinaggio degli ospedali, dei ricoveri pei vecchi, dei presepi dove le madri povere portano i loro lattanti, degli asili infantili. Vide un mondo nuovo. Conobbe le vere malattie, le vere miserie, le vere lagrime. Sentì i vagiti dei bambini anemici, dei fanciulli rachitici; sentì i lamenti degli infermi e il rantolo dei moribondi. I suoi sensi delicati si urtarono a tutte le nausee. Le piaghe dello scrofoloso e il delirio del beone le colpirono, ad un punto, gli occhi, l’odorato e l’udito.
Al capezzale di una bambina, dibattentesi fra la meningite e la tisi, ella credette di morire per davvero. Quella larva che non aveva più nulla di umano, che schiudeva le labbra solamente per gemere o per prendere bestialmente un cibo che prolungava le sue sofferenze; quell’avvilimento della creatura pensante nel trionfo crudele della materia; quel dissolversi spasmodico, mostruoso, di una persona fatta a sua immagine e somiglianza, a lei nata per la gioia, fu soverchia prova.
Ammalò. Stette cinque o sei giorni a letto, sofferente di tutte le malattie che aveva viste; sognando, la notte, i lunghi dormitorii dell’ospedale, coi muri squallidi, i lettini allineati e il grande crocifisso di legno dalle braccia allargate; immagine del dolore eterno in mezzo a quei dolori quotidianamente rinnovati.
Quando guarì, volle conoscere un altro genere di miserie. Coraggiosa e ardita, salì le scale del povero, penetrò nelle stanze dell’operaio, e vide le donne a trent’anni invecchiate dagli stenti, gli uomini abbrutiti, i fanciulli abbandonati e maledetti. L’amore, l’infanzia, la casa, tutto ciò che ella aveva conosciuto attraverso il brillante miraggio della ricchezza, ciò che era sempre stato per lei fonte di gioie, vide trasformato in occasione di pianto. Parole burbere, rabbuffi, bestemmie, in luogo dei baci e delle tenerezze, fiori rari che sbocciano nel tepore delle serre. I focolari spenti, i talami cenciosi le strinsero il cuore di angoscia e di ribrezzo.
Parlò a quelle donne, e non fu compresa. Gli uomini la guardarono o sospettosi o indifferenti. Che cosa poteva fare per essi? Lo spirito della carità le mancava; le mancava il tramite che unisce il ricco al povero, quel filo invisibile che è la più pura essenza dell’amore, essendo la negazione dell’egoismo — un palpito, un sospiro, una stretta di mano, una lagrima, tutto ciò che meglio dell’oro benefica e fa credere veramente al beneficato che siamo fratelli. Le mancava la conoscenza del dolore fatta su sè stessa, acquistata a prezzo del proprio sangue, il solo dono caritatevole e santo che si possa fare a quelli che soffrono.
Lydia si trovò più sola di prima, con un gran freddo nell’anima. Era scoraggiata. Aveva speso mille lire, in quindici giorni, senza sanare una ferita, senza formare la felicità di nessuno, senza provare lei stessa un solo momento di soddisfazione.
Rinunciò a visitare i poveri.