Lezioni sulla Divina Commedia/Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855/IX. Catone, sintesi del purgatorio; Belacqua dell'antipurgatorio

Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855 - IX. Catone, sintesi del purgatorio; Belacqua dell'antipurgatorio

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Lezione IX (XXXI)

[CATONE, SINTESI DEL PURGATORIO;
BELACQUA DELL’ANTIPURGATORIO]


Determinata la concezione, le nostre lezioni saranno quello che sará la poesia, la stessa concezione fecondata e sviluppata. Il purgatorio nella sua apparenza ha ben poco che lo distingue dall’inferno; e le fantasie popolari lo immaginano un luogo di pena avvolto di fiamme, e le antiche leggende ce lo rappresentano come una succursale, un’appendice dell’inferno, una specie di carcere a tempo aggiunto ad un carcere a vita, un ergastolo. Si dee a Dante la gloria di aver concepito il purgatorio, com’è nella sua essenza, contentezza nel fuoco, amore e pace nel tormento, paradiso nell’inferno, lo spirito che combatte ancora con la carne, ma giá consapevole di sé, giá sicuro del suo trionfo. La qual redenzione dello spirito per via del dolore non è in fondo che il concetto cristiano individuato nel Cristo, che non redime l’umanitá se non patendo il dolore e la morte; concetto che nel linguaggio religioso dicesi redenzione, nel linguaggio politico emancipazione o affrancamento dalla schiavitú, nel linguaggio poetico libertá. E cosí Dante va cercando libertá, cioè l’emancipazione dello spirito dalla servitú de’ sensi. E come nel primo ingresso dell’inferno, nella sua scritta, abbracciamo tutto il sublime del concetto dell’inferno; cosí nella prima soglia del purgatorio noi troviamo tutta la concezione, questa libertá dello spirito, fatta persona viva in Catone, il piú alto tipo di libertá [p. 238 modifica]che ci abbiano tramandato gli antichi. L’ammirazione di Dante per Catone si ritrae dal Convito, nel quale lo chiama «la piú perfetta immagine di Dio in terra». E chi di noi, quando abbandonati agli studii storici ci vedevamo passare dinanzi come in rassegna tutti gli eroi di Plutarco, chi di noi non ha sentita la sua parte di questo entusiasmo dantesco per Catone, per quella «nobilissima anima», come Dante altrove lo chiama? Ma in Dante, quando si vale della mitologia e della storia antica, è a distinguere un doppio scopo. Quando si propone di rappresentare la mitologia o la storia come fatto, non mira che ad idealizzare, secondo poeta, la personalitá storica, riproducendo Ulisse o Capaneo non altrimenti che Farinata o Pier delle Vigne. Quando si propone di far servire le forme mitologiche e storiche a segni delle sue idee, quelle forme allora egli le cala nel bronzo e le fonde, e da quel fermento esce fuori una creatura nella quale risplende il nuovo senza che vi sia cancellato l’antico. Questo vedemmo in tutte le figure demoniache dell’inferno; questo vediamo ora in Catone. Nel quale vi è il savio antico, e qualche altra cosa ancora: il savio cristianizzato, sulla cui fronte il poeta ha versato l’acqua battesimale della nuova religione. Vediamo in effetti il suo aspetto e il suo portamento. Vi sono certe fisonomie che comandano il rispetto prima ancora che si conosca la persona: tale è la calma e la gravitá d’una decorosa vecchiezza a lunga barba, ideale dell’antico filosofo, secondo che ce lo rappresentano i pittori. In Catone vi è gravitá, che non ha niente di severo, una gravitá amabile, che incoraggisce, che ispira la confidenza; e felicissima è l’immagine colla quale il poeta esprime l’impressione che quella vista produce sull’anima, riverenza si, ma una riverenza affettuosa, la riverenza di un figlio verso il vecchio suo padre. Vi è dunque in quell’aspetto il savio antico, ma qualche altra cosa ancora; vi è il paradiso, la grazia illuminante, le quattro mistiche stelle del purgatorio, che comunicano splendore e vita alla calma de’ suoi lineamenti, e lo fanno parere un sole.

A quell’ideale d’antica saggezza noi ci sentiamo riverenti; [p. 239 modifica]innanzi a questa saggezza santificata noi facciamo come Dante, noi pieghiamo le ginocchia, la nostra riverenza sale infino all’adorazione. Ma il corpo non è tanto trasfigurato, che non sia piú l’animo. Per Virgilio, che è estraneo alle cose celesti. Catone è il savio uomo, che egli conosceva, e per indurlo a cedere a Dante l’entrata del purgatorio, fa vibrare tutte le corde che hanno efficacia sopra di un cuore terreno. — Dante, egli dice, è qui venuto per ammirare un si gran personaggio. Egli cerca libertá, e chi piú degno di comprenderlo che colui che alla libertá ha sacrificato la vita? — Catone amava Marzia, e Virgilio non dimentica di pregarlo ancora per l’amore che egli porta a Marzia sua, della quale gli reca novelle. Libertá, gloria, ricordanza della sua morte, tutto è posto in opera da Virgilio che possa muovere il cuore di un uomo. Sono lodi che egli fa a Catone, ma degne dell’uno e dell’altro, fatte con finezza e delicatezza: vi si sente la veritá, il linguaggio di un uomo, che è mosso a farle non solo per il bisogno che ha d’ingraziarsi Catone, ma ancora perché le son vere, dettate da un verace senso di stima e riverenza. Ma Virgilio non ha capito Catone; vede in lui il grand’uomo, non comprende l’uomo divino; ed il poeta che nelle parole di Virgilio ci rappresenta il Catone terreno, nelle parole di Catone ci rappresenta il Catone divino. Catone non ha dimenticato Marzia; se ne ricorda con compiacenza; ma non si lascia piú muovere da alcun affetto terreno; le passioni non possono piú abitare nella sua anima calma. Vedete in lui giá abbozzato il tipo dell’anima purgante come io ve l’ho esposto, tutta la concezione sul fimi tare del purgatorio raccolta ed unificata in un uomo, in quella unitá che dicesi anima o persona. E se volete far paragoni, voi potete misurare tutta la distanza che è tra il Purgatorio e l’Inferno con solo porre a ragguaglio Catone con qual vi vogliate personaggio dell’Inferno; e vi accorgerete che in Catone ci è un sesto senso, che manca a tutti i dannati, il senso del divino, che illumina la sua faccia, ed acqueta e letizia il suo cuore. Ma il divino trasfigura, non cancella l’umano; ed il giorno in cui l’umano sará liquefatto innanzi al divino, in cui la forma fatta intangibile ed [p. 240 modifica]invisibile non potrá piú essere appresa dalla fantasia, in quel giorno il poeta esclamerá:

                                    All’alta fantasia qui mancò possa;      

e la poesia finirá e calerá il sipario.

Il purgatorio è dunque non la distruzione, ma la trasfigurazione dell’umano iniziata; è il Cristo trasfigurato sul monte Tabor, in cui giá splende il Dio senza che egli cessi di essere uomo; è un momento di mezzo che non è piú pura carne, e non è ancora puro spirito, e tiene dell’uno e dell’altro. E cominciando dalla carne, che cosa diventa nel purgatorio? Nell’inferno la carne è il sostanziale, è di fine a se stessa, è essa la concezione, essendo l’inferno il regno della carne o delle passioni; e tiene sotto la sua signoria tutta l’anima, l’intelligenza, l’immaginativa, la volontá. Nel purgatorio la carne non è piú il tutto, ma un momento della concezione, e non tiene sotto di sé lo spirito, ma dirimpetto a sé, come suo avversario, e suo giudice e suo futuro vincitore, innanzi al quale si va dissolvendo. E dapprima ella serba una parte del suo antico potere; e rimane nell’anima come una vecchia abitudine, da cui non si sa ancora sprigionare. Rammenterete il Padre Cristoforo, in cui sono due uomini; e l’uomo antico iroso e violento si affaccia talora d’improvviso e la fronte si corruga e gli occhi lampeggiano. Questa concezione è seria, perché la volontá del Padre Cristoforo è forte, e se non può impedire che l’uomo antico si affacci e recalcitri, sa immediatamente domarlo, come si farebbe di un cavallo indocile. Ma in Dante la concezione è comica. L’anima purgante giunta di fresco in purgatorio e rimasa al di qúa della porta non sa ancora spiccarsi di dosso le abitudini del peccato, il quale però non signoreggia tutte le sue facoltá: l’intelligenza lo riprova lo condanna; ma perché la sua volontá non è ancora fortificata dalle prove del purgatorio, ella fa quello che condanna, perché non sa resistere ancora alle sue abitudini. La carne, divenuta un’abitudine involontaria e meccanica, che non ha piú forza di turbare e viziare l’anima, è giá tanto scaduta d’impero, che [p. 241 modifica]ella desta il medesimo riso, che suole prenunziare la caduta delle istituzioni sociali ridotte a vacua forma, ad una falsa abitudine, dalla quale si è ritirato ogni significato; come il terribile riso di Luciano, accompagnamento funebre del paganesimo morente. E questo medesimo riso desta qui l’uomo, che giunto di corto in purgatorio, con abitudini peccaminose ancor fresche, non le sa scuoter da sé per una poltroneria d’anima, per una fiacchezza di volontá, che è sempre comica: concetto che il poeta ha individuato in Belacqua, il re de’ poltroni. E qui non posso non ricordare i negligenti dell’inferno, «che mai non fur vivi», per misurare tutto il terreno che ha perduto la carne. La negligenza in questi è codardia d’anima, che abbassa tutto l’uomo e che move sdegno e disprezzo; nel povero Belacqua è un’abituale poltroneria, il peccato fatto meccanico ed esterno. La concezione lí è tragica, e qui è comica: lí è il peccato in tutto il sublime della sua serietá; la carne in tutta la sua possanza; qui è la carne nell’ultimo avanzo del suo impero, la carne evanescente innanzi alla porta del purgatorio, e che morrá, quando si sará passata quella porta. Questa gradazione delicatissima non è sfuggita all’occhio di Dante; e mirabile è la rappresentazione che egli ne fa in Belacqua. Il vizio, operando nell’uomo, produce certe attitudini nel corpo ed un certo modo di sentire nell’animo, che costituiscono la sua manifestazione; ed avremo vera manifestazione del vizio e diretta, quando il poeta, fine osservatore, mi sa cogliere quelle attitudini e quel modo di sentire e riprodurlo senza aggiungervi osservazioni, rapporti, contrasti ed altri mezzi indiretti ed obliqui, che costituiscono un genere di rappresentazione inferiore e posteriore. Che cosa dee dunque qui fare il poeta? Dee porre Belacqua in tale situazione, che egli sia costretto a manifestarsi in quelle attitudini e in quel modo di sentire, che è proprio del poltrone, e dopo obbliarsi e lasciarlo fare. Vi sono certi casi della vita, che cacciano l’uomo dalla sua inerzia e lo sospingono all’opera; il poeta dee immaginare uno di questi casi, per vedere in che modo se la sa cavare Belacqua. La montagna del purgatorio è nel principio faticosíssima a salire; pur Dante, spronato da Virgilio, vi [p. 242 modifica]si travaglia co’ piedi e colle mani, e sale e sale insino a che, giunti in su una ripa molto aspra, stanchi, si arrestano entrambi. Il corpo riposa, ma non lo spirito, poiché Dante, maravigliato come, volto a levante, il sole lo ferisca da mancina, entra con Virgilio in un discorso d’astronomia. In questo scoprono a sinistra un gran petrone, dietro del quale stannosi all’ombra i negligenti:

                                         Ed un di lor, che mi sembiava lasso,
[Sedeva ed abbracciava le ginocchia,
Tenendo il viso giú tra esse basso.]
     

Voi giá riconoscete in costui il nostro amico Belacqua. Quest’uomo, che per fuggire i raggi del sole se ne sta all’ombra, seduto, inchinata la persona, le mani intorno alle ginocchia, e gli occhi tra le ginocchia, è colto dalla fantasia poetica in una di quelle attitudini scultorie, che esprimono lassitudine, rilassamento, la persona in tutto il suo abbandono. A quella vista Dante non può tenersi di additarlo a Virgilio con un frizzo pungente, che la maraviglia gli cava di bocca. Ed ecco che il povero Belacqua non è lasciato in pace, non è lasciato vivere; ecco un caso in cui è costretto a far qualche cosa. Un uomo che si sente pungere, balza in piedi, si fa rosso di collera; Belacqua si volge e guarda; ma per guardare non si prende giá egli l’incomodo d’alzar la testa, come fa il comune degli uomini; alza solo la faccia, spingendo l’occhio per di sopra la coscia. E quando Dante gli giunge di rincontro, credete che egli si raddrizzi o che tolga solamente le mani dalle ginocchia? Punto del mondo. «Alzò la testa appena», dice il poeta. È il piú grande sforzo a cui egli giunge. Avete qui tutto l’esterno della poltroneria; ma le attitudini e i gesti non sono tutta la poesia, la quale è posta principalmente nell’anima, nel modo di sentire. Ciascun vizio ha la sua sofistica, colla [quale] colora ed inorpella se stesso: la poltroneria ha anch’ella la sua logica, una certa maniera di giudicare le cose. Tra Dante e Belacqua vi è un piccolo tratto di salita alquanto aspro; Dante motteggia Belacqua; e costui [p. 243 modifica]cerca la sua rivincita, e che risponde? — Tu di’ ch’io sono un poltrone; «vien su tu che sei valente». — Belacqua nella sua poltroneria s’immagina che sia un grande atto di forza fare quel piccolo tratto, e sfidando Dante crede che egli si ricusi alla prova, e spera di coglierlo in quello stesso atto di poltroneria che rimprovera a lui. Ma Dante, ancor che stanco, accetta l’invito, ed eccoli faccia a faccia. Belacqua è vinto e cerca altrove la sua rivincita, e senza saperlo scopre un altro lato della sua poltroneria. Aveva egli inteso parlar Dante d’astronomia, e spiegare come il sole possa ferirlo da mancina; ora a parer suo tutto questo non vale la pena che un galantuomo si debba incomodare a pensare; e dice a Dante irridendo:

                                                   ... Hai ben veduto come il sole
Dall’omero sinistro il carro mena?
     

L’ultimo tratto è ancora piú finamente osservato. «Dici poltrone: dimani dimani, e cosí all’un dimani succede l’altro dimani», osserva un trecentista. Il poltrone rimette sempre gli affari all’ultimo istante. Le anime purganti sanno bene che ancorché elle si affrettino alla porta del purgatorio, la non s’aprirá se non quando verrá la volta di ciascuna secondo il tempo predeterminato da Dio. Ma tant’è: elle si avanzano a chi può prima per una naturale impazienza, per l’impazienza d’ire a farsi belle. Ma Belacqua con una sua logica si fa un altro conto: — Salire e non salire, egli pensa, è lo stesso; quando sará tempo, ci andrò; per ora bonum est nos sic esse; non ci muoviamo di qua: forse che andando ora l’angelo ci aprirá la porta? — Le attitudini ed i gesti non sono rappresentati qui essi prima, e poi il modo di sentire, secondo la mia esposizione. Come critico, io sono costretto ad esporvi diviso ed analizzato quello che nella poesia è uno e contemporaneo. Le attitudini sono qui l’accompagnamento delle parole e le parole sono l’espressione immediata de’ sentimenti, e i sentimenti sono provocati da circostanze estrinseche uscite dal fondo della situazione naturalmente, il tutto espresso con molta parsimonia, con austera semplicitá. [p. 244 modifica]senza che il poeta si sforzi punto di provocare il riso, senza che presti pretensione al ridicolo con sue osservazioni piccanti e spiritose. Lo spirito è qui tutto nella natura de’ particolari con tanta fantasia ritrovati, e nella natura delle impressioni che ne riceve Belacqua, con tanta sagacia osservate.

Innanzi alla porta del purgatorio la carne è un’abitudine involontaria, un obbietto di riso; passata la porta, la carne cessa di essere un potere, una realtá, e diviene una ricordanza. Di che nell’altra lezione.