Lezioni sulla Divina Commedia/Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855/X. Varia forma poetica degli esempi di peccato nel purgatorio

Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855 - X. Varia forma poetica degli esempi di peccato nel purgatorio

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Lezione X (XXXII)

[VARIA FORMA POETICA DEGLI ESEMPI DI PECCATO
NEL PURGATORIO]


Poco innanzi alla porta del purgatorio, la montagna si spiana in una valle amena, dove la carne comparisce l’ultima volta, comparisce per morire. Il peccato nella poesia cristiana non è che il demonio, il tentatore di Èva e di tutti i figliuoli di lei, che in aspetto di serpente, simbolo della scaltrezza, ti presenta il peccato sotto forme amabili, si che ti adeschi al male. Il demonio dunque rimane ancora nell’avantipurgatorio; vi sta non re e tormentatore de’ dannati, come in inferno, ma demonio seduttore, serpente avvolto tra l’erbe ed i fiori, di sotto a’ quali spia il momento a tentar le sue ultime insidie. In effetti, quando le anime dopo faticoso cammino giungono nella valle a vista della porta, ecco sbucar di mezzo a’ fiori il serpente,

                                    Forse qual porse ad Èva il pomo amaro;      

ed ecco dall’altra banda due angioli, verdi in veste ed in penne, colore della speranza, che piombano colle spade infocate e senza punta, e lo cacciano in fuga. Stupenda concezione è questo avantipurgatorio di Dante, quasi transizione dall’inferno al purgatorio; il peccato vi è e non v’è; è ancora nel corpo, non è piú nell’anima: il demonio comparisce per scomparire quasi nel tempo stesso, per far quasi testimonianza ch’egli se ne va dalla scena. Il demonio scompare e non riappare piú mai; la carne muore innanzi alla porta del purgatorio. Io dico «muore»:io dico impropriamente; poiché come in natura niente muore e tutto si trasforma; cosí in questa magnifica sintesi poetica la vita anteriore non muore, ma innalzandosi ad una vita superiore cessa di essere ella tutta la vita, come in prima, e diviene una parte, un momento di quella. Cosi la carne cessa di essere il tutto, come nella vita infernale, e diviene un momento della vita purgante. L’anima non appartiene piú alla carne, ma ella l’ha avuta una volta in sé, e se ne ricorda; la carne non è piú una realtá, un potere; ma non perciò va via; ella rimane come ricordanza: ed è sotto questo nuovo aspetto che noi dobbiamo studiarla. Passata la porta, troviamo sette gironi, corrispondenti a’ sette peccati mortali ne’ quali l’anima permane per espiare il suo fallo, insino a che solva le schiume della coscienza, come dice Dante. E vien netta di peccato, quando contrae abitudini contrarie alle peccaminose della vita terrestre, esercitandosi a rammentare colle sue compagne ora le colpe ora le virtú umane: ricordano le colpe per giudicarle e condannarle; ricordano le virtú per compiacersene ed innamorarsene. Quel ricordare le colpe non è se non l’inferno che ricomparisce in purgatorio per esservi giudicato e condannato; quel ricordare le virtú non è se non il paradiso che preluce in purgatorio per esservi desiderato e vagheggiato: l’uno vi sta come rimembranza, l’altro come desiderio. Cominciamo dall’inferno, cioè dal peccato.
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Il peccato riapparisce nel purgatorio o ricordato alle anime, o intagliato e figurato; due modi, che hanno lo stesso fondo poetico, la ricordanza, e la stessa forma poetica, il descrittivo. La ricordanza tiene in sé chiusi due momenti, il passato ed il presente; il passato non quale apparve nel momento che avvenne, ma quale appare ora a’ cangiati occhi dell’uomo pentito. La poesia dunque qui consta di due elementi, del fatto passato e della impressione presente:

                                    Accusiam col marito Safira:      

«col marito Safira» vi dá il fatto; «accusiamo» vi dá l’impressione; il tutto in una forma ancor grezza, in una sempliceenunciazione. Vediamo ora in che modo il poeta lavori questa forma, dove non è ancora orma di descrizioni. Il primo modo è quando il fatto esprime il peccato, e lo stile esprime l’impressione:
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                                         Noi ripetiam Pigmalione [allotta.
Cui traditore e ladro e patricida
Fece la voglia sua dell’oro ghiotta.]
     

Qui il fatto in se stesso esprime il peccato dell’avarizia che le anime ricordano in Pigmalione; ma il colorito lo stile le idee accessorie esprimono l’indegnazione delle «anime. In quel verso:

                                    Cui traditore e ladro e patricida      

avete quasi un crescendo, un aumento di orrore, che va di conserva con que’ delitti accumulati da quelle «e» gli uni sugli altri. In quello:
                                    La voglia sua dell’oro ghiotta      

sentite l’«auri sacra fames» di Virgilio. Modo di poesia perfettissimo, come quello che conserva alla descrizione la sua unitá, senza scinderla in due parti, qua descrizione e lá impressione; modo di cui tanti esempii troviamo presso gli antichi, massime presso Omero, e scarsissimi presso i moderni, ne’ quali per lo piú l’impressione pretenziosa si va spiccando dalla descrizione. Ma questo modo ancorché perfettissimo, qui è insufficiente, perché qui il principale non è la descrizione. Credete voi che le anime stieno in purgatorio per far da paesisti e da ritrattisti, fermar lo sguardo sopra il peccato e guardarlo a lor bell’agio per farcene una descrizione? La descrizione non è il principale; ma l’impressione delle anime, che dee manifestare il loro pentimento e la loro purificazione. Quindi l’impressione non può rimanere semplice stile, ma si spicca dal fondo e si pone come idea principale dirimpetto al suo opposto: onde nasce l’antitesi, il fatto e l’impressione l’uno di contro all’altra; il peccato quale fu ed il peccato quale è. Fu glorioso e possente; ne’ bassorilievi del purgatorio è rappresentato in rovina ed in cenere.
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                                         Vedea colui, che fu nobil creato
[Piu ch’altra creatura, giu dal cielo
Folgoreggiando scendere da un lato.]
     

Le anime veggono Lucifero scender precipite dal cielo, e ricorrono col pensiero al Lucifero d’un tempo, la piú nobile creatura del mondo.

                                         Vedea Nembrot [appiè del gran lavoro
Quasi smarrito, e riguardar le genti
Che in Sennaár con lui superbi foro.]
     

Le anime veggono Nembrotte, smarrito tra smarriti, e lo ricordano in Sennaar cosí superbo.

                                    Vedea Troia [in cenere e in caverne.]      

L’anima a tanta bassezza corre con la mente all’antica grandezza di Troia, e l’istantaneo paragone le pone in bocca una subita esclamazione. Avete qui dunque due termini, il passato ed il presente congiunti nella ricordanza; due momenti che escono fuori sotto l’aspetto di pensieri in contrasto piú che d’immagini; l’impressione uccide la descrizione. Prendiamo questo ultimo esempio:

                                    Vedea Troia [in cenere e in caverne.]      

La vista di quel cenere e di quelle caverne produce una cosí subita impressione sull’anima, che prorompe in una esclamazione di meraviglia: la visione rimane strozzata. Dice Dante:

                                    Morti li morti [e i vivi parean vivi.]      

Fatto sta che quantunque dica di veder cosí bene, egli ci nasconde quello che vede per la troppa fretta che ha di mostrarci quello che sente; e chi di voi mi dirá che cosa è quel [p. 249 modifica]segno che mostra Troia si vile? Quando io dico: «e le biade ondeggiar dove fu Troia», io veggo un campo di biade in luogo di Troia; ma quel segno rimane li senza forma; è un abbozzo di visione, le prime linee dalle quali dee uscire il quadro; non vi è ancora quadro, l’impressione ha ucciso la descrizione. L’unica specie di bellezza che può patire questo genere, è il pensiero, un pensiero a contrasti, il quale, quando è felicemente serrato in un verso solo, rimane incancellabile nella memoria del lettore:

                                                                  .   .   .   .   .   Crasso,
[Dicci che il sai di che sapore è l’oro.]

Sangue sitisti, [ed io di sangue t’empio.]
     

Una specie di bellezza, che troviamo ne’ Trionfi e nella Bassvilliana, come:

                                    Primo pittor delle memorie antiche.

Un gran delirio che chiamò sistema.
     

Ma chi di voi sa dirmi a che proposito ha detto il Petrarca quel verso, e di quale insieme fa parte? È un bel verso, che rimane pensiero staccato nella memoria; un bel braccio che non sappiamo a qual corpo appartenga, un suono di un’armonia dimenticata, che freme tutto solo nel nostro orecchio; perché in quelle poesie non vi è un tutto organico, ma solo qua e colá di bei pensieri e di bei suoni dispersi. Ma Dante non si sta contento a questo, e lavora la forma, sicché la conduce ad una perfetta descrizione. La moltitudine esprime i suoi risentimenti collettivamente, in tre o quattro parole comprensive, che chiudono in sé tutta una serie d’idee. Finché quel concetto è posto innanzi alla moltitudine delle anime purganti, rimane in un vago indeterminato. Scegliete ora di quelle anime una che pensi e senta come individuo quello che innanzi ha sentito in comunanza colle altre, e ne uscirá una poesia piú figurativa. Quest’anima è Dante, che sta in purgatorio per lo stesso fine delle anime purganti, e pensa e soffre e sente nella stessa guisa. La [p. 250 modifica]vista di que’ bassorilievi, que’ ricordi di colpe umane lo attirano a sé, e vi si addentra e vi si dimentica: stato dell’anima che dicesi estasi. In questo stato l’anima vede farsi dentro di sé una luce improvvisa, in mezzo alla quale pullulano immagini sopra immagini, l’una dall’altra, come bolle di acqua, che gonfiano e sgonfiano:

                                                             a guisa di una bulla.
Cui manca l’acqua sotto qual si feo;]
     

e l’universo visibile si dilegua innanzi aH’occhio fiso solo in questa visione interiore, in quest’altro mondo che ci luce al di dentro, di modo che il suono di mille trombe non basterebbe a svolgere l’anima dalla sua contemplazione. Attonito il poeta innanzi a questo fenomeno, vedendo chiaramente senza che il senso gli porga nulla innanzi, ne reca la cagione a Dio.
                                         Oh imaginativa, [che ne rube
Talvolta si di fuor, ch’uom non s’accorge
Perché d’intorno suonin mille tube!]
     

Il pensiero non rimane ora in questo pallido indeterminato; perché in questo stato di furore divino esso esce, esso rampolla da un’anima esagitata, dal di dentro d’una fantasia esaltata, fatta alta: «Poi piovve dentro all’alta fantasia». Prendiamo ad esempio il martirio di S. Stefano. Il poeta nel girone degli irosi si sente rapire in estasi, e la fantasia gli pone innanzi vivi e presenti alcuni esempli d’ira. Tra l’altro contempla il giovine Stefano lapidato; ed il contrasto esce subito fuori, da una parte gente cieca di sdegno che gitta pietre contro il santo; ed il giovine che cadendo prega perdono a’ suoi nemici: è il peccato dell’ira, che ha la sua confutazione nella mansuetudine del santo. Ma il contrasto non rimane un semplice concetto; vi è la fantasia di un uomo ratto in ispirito, che vede con l’immaginazione piú vivamente che non con l’occhio. Vede la folla nell’ira de’ suoi movimenti, e in quelle grida selvagge, che manda fuori quando è inferocita; vede il santo in un’attitudine pittorica, in un doppio movimento corporale in [p. 251 modifica]contrasto, la persona che aggravata dalla morte s’inchina verso terra, e gli occhi costantemente levati al cielo, preganti pace e perdono: attitudine imitata da molti pittori, che esprime assai bene il soprastare dell’anima nell’abbandono del corpo. Qui il concetto è fuso compiutamente nell’immagine. Ma il concetto rimane pur sempre implicato nel particolare degli esempli; astraendolo da quelli, il concetto non è se non il peccato amabile seducente, che in purgatorio si scopre nudo e brutto. Il poeta, pervenuto verso la fine del purgatorio, acquista chiara coscienza del significato di quelli esempli, e gli si rivela il concetto nella sua forma generale, lotta tra il peccato e la virtú, che gli appariscono in sogno sotto l’aspetto di due donne simboliche. Nel sogno l’immagine è abbandonata a se stessa, povera di pensiero, scarsa d’impressioni: qui dunque il concetto, ancorché nel suo significato generale, è rappresentato in tutta la sua concretezza; ed i tratti deformi della donna, il suo tramutarsi innanzi allo sguardo di Dante, la dolcezza del suo canto, che nell’amabile sprezzatura del verso ci fa presentire lo stornello toscano, e l’ultimo verso, che con la rapiditá dell’impressione esprime il subito scomparire del vizio tosto che è fatto nudo; tutto questo è detto con grande ricchezza di determinazioni e gradazioni. È lo stesso concetto diversamente lavorato; e se paragoniamo il primo verso da che siamo partiti a questa forma si ricca a cui siam giunti, possiamo estimare la feconditá di una fantasia, che conduce la forma da quel semplice ed arido tema a tanta pienezza di descrizione. Da prima i due termini sono appena enunciati; poi si fondono insieme, e l’uno diviene il fatto e l’altro lo stile; poi lo stile si spicca dal fondo e si pone come idea principale; e la rappresentazione diviene un’antitesi di due pensieri, crudi ancora e grezzi, che acquistano tutta la pienezza dell’immagine nella visione estatica. Il concetto da ultimo si sviluppa dal particolare, e si manifesta in una forma generale e simbolica, che nel sogno viene individuata in due donne, e vi si mostra in tutto il concreto della descrizione.

Le virtú sono parimente ricordate ed intagliate; ma sullo stesso terreno con le stesse forme, essendo il contenuto diverso, nasce una diversa poesia. Lo vedremo nell’altra lezione.