Lezioni sulla Divina Commedia/Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855/IV. Dalla comicità alla depravazione e all'ironia
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Lezione IV (XXVI)
[DALLA COMICITÀ
ALLA DEPRAVAZIONE E ALL’IRONIA.
VANNI FUCCI E IL «DIAVOLO LOICO»]
Sancio Panza è un uomo credulo e smaliziato con una pretensione alla furberia, uno sciocco che vi sputa ad ogni tratto proverbii con un’aria di sufficienza: il padrone ha sempre in bocca cavalleria e gloria, ed egli in risposta ha sempre in bocca pancia e danari: è una prosa vivente attaccata a’ fianchi di don Chisciotte che sogna poesia, che sogna elmo di Mambrino, e trova bacile di barbiere. Ma Sancio ha molte buone parti, fedele schietto aperto leale; tu puoi ridere di lui, ma non puoi disprezzarlo; perché i suoi difetti procedono da ignoranza da volgaritá, ma non da pervertimento di animo. Parimente don Abbondio in fondo in fondo è una buona pasta d’uomo: e nel massimo accecamento della paura non perde mai una certa bontá e naturale rettitudine, che te lo fa voler bene. Con questa sorta di uomini si passa volentieri una mezz’ora: dimentichiamo in loro i pensieri e le noie della vita. I poeti, o signori, nella loro solitaria stanza conversano anch’essi co’ fantasmi che hanno evocati; e quando alla loro fantasia si affaccia uno di questi esseri comici, il Cervantes ed il Manzoni ci si spassano, ci si trastullano, si obbliano in quelli. Dante non ha questo sublime obblio comico, questa dimenticanza della propria personalitá. Egli teme di sporcarsi, mescolandosi con l’abbietta gente che ha a descrivere, e se ne sta a distanza curvo e corrugato: simile ad un uomo di fine educazione, capitato per mala ventura in una lurida taverna, il quale, mentre la plebea moltitudine batte le mani ad un cantastorie o ad una marmotta, si tura il naso, torce gli occhi, e guardando alla porta dice fra sé, come giá don Abbondio: — Oh fossi a casa mia! — Quindi quel non so che di duro e di costretto ne’ suoi ritratti comici, una certa mala voglia d’intrattenersi fra tanta abbiezione, una impazienza di cavarsene fuori: quindi ne’ suoi difetti qualche cosa piú del difetto; ne’ diavoli un’oscenitá ed una ferocia che fa ribrezzo; negli uomini qualche cosa di cosí bassamente plebeo, che fa stomaco. Onde il comico dantesco non è lavorato accarezzato vagheggiato abbastanza, e rimane nello stato di pura concezione: di rado s’innalza fino alla caricatura, di rado giunge alla sua naturale espressione, il riso. Ma quando il difetto si trasforma in vizio, sentimenti piú serii succedono, e noi troveremo Dante nel vero suo campo.
Il difetto per esser comico non dee supporre depravazione di anima o di corpo, di anima, quando offenda non pure il senso estetico, ma il senso morale; di corpo quando renda la persona orrida e laida a vedere: un animo tristo non è ridicolo ma odioso; un corpo marcio non è ridicolo ma disgustoso.
Vediamo ne’ dannati di Malebolge. In costoro il difetto intrinseco e generale è l’anima fatta tanto plebea che rasenta la bestia; ed il plebeo è comico, di tanto piú in quanto gli uomini plebei non hanno coscienza di essere personaggi comici, come in Sinone e maestro Adamo, i quali nella loro ignobile gara di villanie e di pugni non arrossiscono, anzi si atteggiano alla eroica: è un comico di bassa lega, rozzo, grossolano, se volete, ma è un comico. Date ora a quest’anima una coscienza, fate che non pure ella sia bestiale ma si sappia bestiale; e nascerá il rossore. Colto l’uomo in fallo, la coscienza che egli ha del suo difetto glielo fa parere al di fuori in quella che cerca nasconderlo, anzi appunto perché cerca nasconderlo, glielo fa apparire al di fuori nel rossore della fronte e nel turbamento della parola; arrossendo fa atto di uomo, perché in questo appunto è la differenza tra l’uomo e la bestia: la bestia non nasconde il suo difetto, non arrossisce; il rossore è proprio della faccia umana. Signori, e quando l’uomo consapevole del suo difetto s’innalza al di sopra del suo difetto, quando non solo non lo cela ma ne fa pompa; egli rinuncia all’umanitá, in quello che uno ha in sé di uomo, e si fa animale; e dicesi sfacciato, perché perde la faccia umana, e dicesi sfrontato, perché perde la fronte umana. Qual è la differenza che passa tra maestro Adamo e Vanni Fucci? In amendue trovi lo stesso plebeo con gli stessi modi e pensieri volgari; amendue non hanno vergogna, e manifestano schiettamente il loro difetto; ma la schiettezza nell’uno è ignoranza, nell’altro è sfacciatezza e depravazione. Maestro Adamo è come un animale che non ha coscienza di sé; Vanni Fucci ha avuta la coscienza e la ha soffocata; essi sono a’ due estremi della scala del vizio: l’uno non è mai salito infino all’uomo; l’altro è passato per l’uomo ed è ricaduto nella bestia. La sfacciataggine qui uccide il comico; tanta abbiettezza disgusta; e la propria abbiettezza predicata e portata in trionfo aggiunge al disgusto un sentimento, che tocca quasi l’orrore. Qual è la forma artistica conveniente al difetto innalzato fino alla sfacciatezza? Non piú la caricatura come io ve l’ho rappresentata. Il difetto in quanto difetto ha per sua forma la caricatura; perché siccome l’uomo non ne ha coscienza, e lo mostra come uomo non come artista, cioè accompagnato con circostanze ed accidenti serii od indifferenti, che non lo fanno spiccare in tutta la sua veritá poetica; si richiede l’opera di un terzo, che con una rapida intuizione comica ti colga a volo il difetto, e lo riproduca isolato ed idealizzato. Ma qui ne’ caratteri sfacciati non è necessaria l’opera di un terzo. L’uomo sfacciato non solo non vela o adombra il suo difetto, ma se ne pavoneggia, ma se ne orna come d’un manto reale, ma se ne incorona e se ne fa un’aureola; e senza che altri lo ponga in questa o quella positura, si atteggia egli e si situa nel modo piú acconcio a dire: — Miratemi — ; piú acconcio a dare spicco al suo difetto: egli è la sua propria caricatura, l’artista di se stesso. Se Dante vedendo il Fucci tramutarsi in bestia e rifarsi uomo, con un accento di dispregio gli dicesse: — Tu sei una bestia, e Pistoia fu tua degna tana — ; lasciamo stare che dalla bocca di Dante non potrebbero uscir mai cosí abbiette parole; ma posto che ciò fosse, il fatto sarebbe comico e volgare: è un uomo che dá della bestia ad un altr’uomo. Ma qui è Vanni Fucci che dice di sé:
Io piovvi [di Toscana, Poco tempo è, in questa gola fera. Vita bestiai mi piacque, e non umana, Si come a mul ch’ i’ fui: son Vanni Fucci Bestia, e Pistoia mi fu degna tana.] |
Qui è Vanni Fucci, che si pone come tipo, che è il suo proprio artista e sceglie le circostanze piú acconce a dar risalto all’ideale bestiale, che egli vagheggia come suo ideale. Un altro uomo direbbe: — Io caddi— ; no: — Io piovvi! — Piovere è un verbo impersonale e non si dice: — Io piovo — , perché esprime un’azione fatta dal cielo e non da una persona, e la sola persona può dire «io», alla sola persona si può dire «tu». Era riserbato a Vanni Fucci il dire: — Io piovvi — , il personalizzare, permettetemi nuova parola a cosa nuova, il personalizzare questo verbo, lo scegliere una immagine impersonale, nella quale egli annega la sua propria persona. «Vita bestiai mi piacque»; e non se ne contenta, e vi aggiunge la vita umana a contrapposto ed esclusione. «Siccome a mul ch’io fui»: alla degradazione dell’anima aggiunge la degradazione della sua origine: egli si proclama bastardo e l’espressione è degna della sua intenzione: l’immagine ch’egli sceglie è quella del mulo. Un uomo può dire di sé: — Io sono un bastardo — ; ma solo un terzo che vuol metterlo in caricatura gli dice: — Tu sei un mulo. — Vanni Fucci fa la caricatura a se stesso. Ma tutto ciò potrebbe essere una figura rettorica, un dire cosí per dire, senza significato serio; la parola propria suggella e formola la sua intenzione; e l’impressione giunge al sommo, quando si vede il suo nome di uomo congiunto con bestia. E siccome a Dante non sfugge il menomo particolare, si trasfonde nel suo personaggio. Un uomo direbbe: — Pistoia fu mia patria — ; Vanni Fucci bestia soggiunge: — E Pistoia mi fu degna tana. — È una professione di bestialitá dalla prima all’ultima parola: è Vanni Fucci che fa della sua bruttezza la sua apoteosi e si proclama bestia con lo stesso orgoglio con cui Giove direbbe di sé: — Io son padre degli Dei e degli uomini. — Ma Dante non esce mai da’ confini della natura; non concepisce mai gli uomini secondo un tipo assoluto ed astratto, difetto degl’ingegni mezzani. La donna può essere un’eroina; ma sotto l’eroina deve rimanere la donna. Vanni Fucci può essere una bestia, ma sotto la bestia dee rimaner l’uomo; e con un senso profondo Vanni Fucci si muta in bestia, ma la bestia si rifá uomo, né mai nelle piú oscure bolge dell’inferno l’uomo si cancella del tutto. Vanni Fucci non è tanto bestia quanto sei crede; in lui è rimaso qualche cosa di Adamo; egli esagera e calunnia se stesso.
Quando l’uomo è scacciato dal suo paese non perde solo la patria: la patria non è solo il luogo: è la famiglia, gli amici, il conoscere ed essere conosciuto, una certa pubblica opinione, la quale, quando facciamo qualche cosa, ci sforza a dire; — Che cosa ne diranno gli amici? Che cosa ne dirá il paese? — Con la patria sen va una parte di moralitá per quegli uomini che a lor guida non hanno un principio piú elevato della pubblica opinione, e sono la maggior parte degli uomini. Trabalzato in terra straniera, l’uomo si abbandona a certi atti che non oserebbe commettere innanzi agli occhi de’ suoi concittadini, perché egli dice fra sé: — Che importa? nessuno mi conosce — . Il che vaglia se non a scusare, almeno a comprendere i trascorsi inconcepibili di alcuni emigrati, de’ quali certi altri piú abbietti di loro si valgono ad infamare un nome che la libertá e la sventura dovrebbe rendere sacro: il nome di emigrato che io mi glorio di portare.
Vanni Fucci avea rubato in Chiesa, ed il furto era stato apposto ad altri, che venne in suo luogo appiccato. Vanni Fucci nel suo paese passava per un uomo di sangue ma non per un ladro. E la pubblica opinione scusa talora l’uomo di sangue ma non perdona mai ad un ladro, e voi troverete uomini che vi diranno senza rossore, anzi con un’aria di vanteria: — Io ho ucciso — ; ma nessuno vi dirá: — Io ho rubato. — Nell’inferno egli si crede innanzi a sconosciuti ed oscenamente tripudia della propria degradazione, quando si vede riconoscere da Dante, quando si trova alla presenza di un toscano colto in quell’atto bestiale, colto nelle bolge de’ ladri e scoperto per ladro. Non se l’aspettava, non era in guardia; e l’uomo si mostra a suo dispetto, ed un subito rossore monta su quel viso ineducato a vergogna. Ritorna l’uomo; ma è un lampo: sottentra il pentimento, il dispetto di aversi dovuto mostrare uomo, di aver dovuto arrossire innanzi a Dante, e se ne vendica da suo pari, annunziandogli con grandezza di stile profetico la sconfitta de’ Bianchi, la rovina del suo partito: — «E detto l’ho, perché doler ten debbia». — Vanni Fucci è scaduto per poco dal suo piedistallo di bestia, e sente il bisogno di riabilitarsi, e ricuperata la sua prima audacia esce in un tratto, che lo ricolloca più alto sul suo piedistallo. Questo atto inaudito fa esclamar Dante:
Per tutti i cerchi dell’inferno oscuri [Non vidi spirto in Dio tanto superbo, Non quel che cadde a Tebe giú da’ muri.] |
Vanni Fucci risveglia in lui Capaneo. E qui potrebbe domandare il lettore: — Perché non ci ha egli rappresentato Vanni Fucci con la stessa magnificenza? Perché Capaneo è sf grande, e Vanni Fucci che fa lo stesso è si piccolo? — Capaneo è fulminato da Giove per la sua superbia; ma il fulmine ha ucciso il suo corpo non la sua anima, che serba tutta la sua fierezza; e nelle sue parole trovi alcun che di dispettoso, ma niente di basso e di plebeo: tutto vien nobile e grande. In Vanni Fucci l’intenzione è la stessa; ma la forma è piú che plebea, è oscena: egli fa le fiche a Dio: diversa rappresentazione, diversa impressione. Capaneo desta l’indegnazione di Virgilio, che gli si volge con eloquenti parole; Dante non degna Vanni Fucci pur di una parola, ed esprime la sua impressione indirettamente. Onde tanta diversitá di rappresentazione e d’impressione? Giá, perché l’intenzione è la stessa, ma gli uomini sono diversi; perché da’ violenti noi siamo caduti in Malebolge; perché Capaneo è un eroe; e Vanni Fucci è plebe, è ladro. Bene egli ha l’intenzione di ergersi sino a Dio; ma vi sono uomini che non possono levarsi fino al sublime, e che ancora che ci si pongano di rincontro e ci sfidino, non possono alzarsi fino al nostro livello, non ci possono offendere: Capaneo è della taglia di Giove; Vanni Fucci rimane un facchino che ti fa una smorfia, e che tu prenderesti a calci se non temessi di sporcarti gli stivali.
Maestro Adamo e Vanni Fucci sono a’ due estremi della scala del vizio; nel mezzo vi è il difetto più conveniente all’uomo, il difetto con la coscienza e con la vergogna. L’uomo che ha coscienza del suo difetto, ne sente vergogna, e cerca di nasconderlo, e per occultarlo sceglie la forma opposta al difetto, l’apparenza contraria a quel che egli è; il poltrone fa il bravo, ed il Voltaire, che uccellava alle sostanze di uno zio prete, faceva in sua presenza il divoto. E come è questa una forma di accatto, che non ben si attaglia alla sua persona, che egli non può portare con disinvoltura e naturalmente, la esagera, la carica, ne fa ostentazione; e l’esagerazione e l’ostentazione scopre il difetto. Se voi vedete uno spaccamonti, un tagliacantoni col perpetuo ritornello del «lasci fare a me, e dirò e farò», voi dite subito: — Costui è un poltrone, è un mangiatedeschi. — Se voi vedete un uomo che si circonda di livree e di carrozze, e si compiace di essere salutato non col suo nome e cognome, ma col suo titolo, voi dite: — Costui è un marchese o un cavaliere dell’altro ieri. — Se voi vedete un uomo incedere maestosamente, petto in fuori, testa in aria, quasi riceva allora l’ispirazione dal cielo, quasi disdegni questa bassa terra, voi dite: — Costui è uno sciocco che vuol farla da grand’uomo. — E voi chiamate un dappoco quel maestro che per tema d’avvilirsi non dice mai: — Le mie lezioni — ma: — Le mie conferenze — , e non dice mai: — La mia scuola — ma: — Il mio trattenimento accademico — e non si fa chiamare mai maestro, ma professore: simile a quel macellaio, che domandato da me una volta che cosa facesse, rispose: — Io sono un negoziante in carne. — Qual è l’impressione che produce questo difetto? È il riso; noi ritorniamo nel comico. E perché fa ridere un uomo che cerca di nascondere il suo difetto? Perché non sa nasconderlo bene, perché di sotto alla bravura ci lascia intravedere il poltrone, e moveci il riso il contrasto istantaneo che ci lampeggia dinanzi tra quello che egli vuol apparire e quello che egli discopre: di sotto al pavone scopriamo la cornacchia. E qual è la sua forma artistica? Come sogliamo noi rendere ridicolo il difetto? Qui l’uomo altro pare ed altro è, e noi scegliamo una forma falsa che altro dica ed altro intenda. Fingiamo di crederlo e di secondarlo; accettiamo la forma che egli si dá; ma in luogo d’idealizzarla come si fa del vero, noi la carichiamo ancora di piú; la forma corrispondente alla realtá è modesta; noi ne facciamo una forma pretenziosa, ambiziosa: egli si dá del dotto e noi lo chiamiamo un «Platone»; egli si dá del bravo e noi lo chiamiamo un «Orlando». E siccome colui che fa il bravo sa di essere un poltrone, e noi lo sappiamo con lui; le parole sono accompagnate da un ammiccar d’occhi ch’esprime scambievole intelligenza, da un tuono di voce caricato, da un cotal riso falso, che vuol dire: — Io ti conosco malerba. — La forma dunque non è qui la caricatura ma l’ironia, la rappresentazione ironica. L’ironia è giá un secondo stadio nella storia dell’arte, il riflesso che succede allo spontaneo, l’immagine sottilizzata nel sentimento: perché nell’ironia l’immagine è una semplice apparenza, ed il sostanziale non è in quello che si esprime, ma in quello che è sottinteso. L’ironia è una forma delicata e gentile, perché l’uomo ironico alla vista del difetto che altri cerca di mascherare, non si lascia prender dall’ira, non strappa dal viso la maschera, anzi se la mette egli stesso e serba una compostezza ed una pulitezza, equivoca ne’ movimenti e ne’ gesti. L’ironia è rara perciò ne’ tempi barbari e nelle poesie primitive ed è propria de’ tempi civili essenzialmente ironici: ne’ quali è permesso di sbudellarsi, ma con tutte le regole; ne’ quali è permesso di odiare e di essere odiato, di farsi una guerra sorda d’intrighi e di calunnie, ma salutando, porgendo la mano e domandando: — Come state? — ; ne’ quali si tollera piú volentieri la cattiva azione, che la parola cattiva. Dante non sa, non può usare questo genere d’ironia pariniana; ed è simile ad un uomo severo, che non rinunzierebbe per cosa al mondo al decoro del suo portamento, contraffacendo altrui, facendo boccacce con un dimenarsi della persona, con un tuono di voce in falsetto; vedetelo ne’ suoi ritratti accigliato, brusco, tutto d’un pezzo. Schiettissimo e passionatissimo, la vista degli umani difetti lo accende di collera e non sa infingersi: sicché i suoi motti sono anzi assalti alla svelata che insidie ed imboscate. Mosca dei Lamberti con le sue mani mozze, con la faccia insozzata di sangue, levando i moncherini, cerca di muoverlo a compassione; la risposta di Dante non è un’ironia; è una pugnalata. Ma vi è una persona che dee usar l’ironia, il diavolo. Il diavolo è l’ironia incarnata; né ci è uomo tanto briccone che egli non sia più briccone di lui: e, come capite, il diavolo non è disposto a guastarsi la bile per le bricconerie degli uomini. L’uomo può ingannare un altro uomo, ma non può ficcarlo al diavolo, perché il diavolo nel suo senso poetico è se stesso, e la sua anima, che risponde con un’alta risata a’ sofismi, co’ quali egli cerca d’illudere sé ed altrui. L’uomo che prende una forma d’imprestito ha l’ironia dentro di sé: e quando si picchia il petto divotamente, vi è qualche cosa d’ironico dentro di lui che ride, e che mentre sta per farsi la croce, gli dice; — Tu sei un birbante! — Date corpo a questo qualche cosa, ed avrete il diavolo nel suo concetto poetico, che con tanta profonditá è stato rappresentato dal Goethe nel suo Mefistofele, il cui germe è nel diavolo che mena all’inferno l’anima di Montefeltro. Costui stanco del mondo erasi renduto frate francescano. Il papa volea soggiogare Prenestino, e non ne veniva a capo. E sapendo quant’era la pratica del frate in questi negozii, fattolo venire a sé gli dice:
[Tuo cuor non sospetti; Finor t’assolvo, e tu m’insegna fare Sf come Prenestino in terra getti. Lo ciel poss’io serrare e diserrare. Come tu sai; però son due le chiavi Che ’l mio antecessor non ebbe care.] |
Il frate si finge persuaso:
[Padre, da che tu mi lavi Di quel peccato ov’io mo cader deggio, Lunga promessa con l’attender corto Ti fará triunfar nell’alto seggio.] |
Consiglio rimaso famoso nella storia de’ popoli. Vi è oggi una logica colla quale si cerca di giustificare questi mancamenti di fede; ma la logica è vecchia; e Guido aveva ancora la sua: — Di che mi potete riprendere? Io ho commesso un peccato; ma il papa mi aveva prima assoluto. — Ma non è vero. Tu peccasti perché avevi paura, perché temevi che dal tuo silenzio noi. te ne venisse alcun male. — Di sotto alla ragione apparente vi è la vera ragione, che Dante con una profonda intelligenza del cuore umano gli fa involontariamente uscire dal labbro. Guido mentre visse potè ingannare gli altri; due sole persone non potè ingannare: se stesso ed il demonio, o piuttosto l’altro se stesso, la sua coscienza fatta demonio accusatore. Morto, mentre S. Francesco sta per recarselo in paradiso, eccoti un: — Ferma! — del demonio, che ti sfodera la sua logica, una logica ironica; in tuono da cattedratico, contraffacendo i dottori scolastici di quel tempo, tra i quali era Guido, ti fa anch’egli il suo sillogismo in tutte le regole, fondato sul principio di contraddizione. Poi prendendo un’aria maliziosa d’ingenuitá, e contraffacendo certi solenni birbanti, che fanno gl’innocenti e dicono: — Io non sapeva! — [aggiunge]:
Forse [Tu non pensavi ch’io loico fossi!] |
Signori, si sono scritti volumi in folio sopra questa pretensione del papa; il tal principe commetteva un adulterio: — E che importa? Il papa mi ha assoluto. — Il tal re commetteva uno spergiuro: — E che importa? Il papa mi ha assoluto. — Molti volumi in folio si sono scritti, e tutti dimenticati; ciò che è rimasto è solo questa risposta del diavolo a quel papa ed a quel principe.
Il difetto senza coscienza ha per sua forma la caricatura; trasformatelo in vizio e la caricatura sparisce. Il difetto con coscienza ha per sua forma l’ironia; trasformatelo in vizio e l’ironia sparisce. A maestro Adamo succede Vanni Fucci; a Guido succede Bonifazio VIII. Il poeta incarica il diavolo di rispondere a Guido; per rispondere a Bonifazio non ha bisogno che di se stesso. Lo vedremo nell’altra lezione.