Lezioni sulla Divina Commedia/Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855/III. Carattere del comico e difetto di rappresentazione

Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855 - III. Carattere del comico e difetto di rappresentazione

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Lezione III (XXV)

[CARATTERE DEL COMICO
E DIFETTO DI RAPPRESENTAZIONE:
MAESTRO ADAMO]


Cominciando le lezioni sull’Inferno, io mi posi questa domanda: — L’inferno è il regno del male e dell’errore; esteticamente, del brutto: come Dante ha trasformato il brutto e levatolo a poesia? — A questa domanda abbiamo soddisfatto nell’inferno degl’incontinenti e de’ violenti: ivi sono colpevoli, ma grandi e passionati colpevoli. Nella rappresentazione è grandezza di caratteri e di passioni; nella impressione è pietá ed ammirazione. Ma in Malebolge la scena è mutata: nella rappresentazione avete il male abbietto e vizioso o prosaico, e nella impressione il disprezzo e lo schifo. Come si trasforma questo brutto? Che cosa è di poetico in Malebolge?

Due sole cose, io vi dissi, o signori, il fatto esterno ed una persona. Il fatto esterno è la colpa, la quale separata dal colpevole e considerata in se stessa può avere in sé alcuna grandezza. Bertramo è un personaggio ignoto; ma il fatto uscito da lui genera il sentimento sublime dell’orrore, come tutto ciò che viola le leggi della natura, il delitto di Edipo e di Mirra, il fero pasto del conte Ugolino, la ribellione di un figlio contro il padre. La poesia non è nel colpevole, ma nella colpa e nel castigo, o piuttosto nella colpa poiché essendo il castigo un [p. 181 modifica]busto diviso dal capo, ed essendo la colpa un figlio diviso dal padre, il castigo non è se non la stessa colpa rappresentata sensibilmente al di fuori e fatta poesia. Questo ci spiega perché in Malebolge prevale il genere descrittivo: rimasi nell’ombra i personaggi, non resta che l’esterno. Nell’inferno anteriore le descrizioni sono sobrie e rapide, perché l’interesse principale è ne’ personaggi che prendono la parola; ma qui i grandi individui spariscono; vi è un gregge muto veduto da lontano; è Virgilio che dice a Dante: — Vedi lá Mirra, vedi Giasone, vedi Manto. — Voi dite prima: «il canto di Francesca, di Farinata, di ser Brunetto Latini»; qui dite: «il canto de’ falsarli, de’ ladri, de’ truffatori»: vi sono gruppi, non individui; vi è il descrittivo, vi manca il drammatico. In queste descrizioni Dante talora si alza al sublime, spesso col nuovo, col grottesco cerca di fare impressione su’ sensi, non potendo sul cuore. Di questa rappresentazione esteriore può darci esempio il teatro nello stato di decadenza, voglio credere passeggera, in cui si trova al presente. Il teatro non ha in sé niente di serio e di originale, come presso i Greci; vi si va come a luogo di ritrovo e di passatempo, per guardare ed essere guardato. Ora, tal pubblico, tale artista: tra loro è reciprocanza di azione: sí alzano a vicenda e si corrompono a vicenda. Il pubblico batte le mani a’ quadri e colpi di scena, e l’artista in luogo di passioni e di caratteri, vi dá quadri e colpi di scena: l’azione teatrale non è cosí che un panorama o un giuoco di cavalli. Poiché è raro quell’artista che abbia tanta forza d’ingegno e di carattere da poter dire a se stesso: — Io conosco il modo di farmi applaudire, conosco le passioni del pubblico e so lusingarle; ma io disprezzo questi facili applausi, ma io non ambisco un effetto momentaneo, una impressione che duri appena quanto il suono delle parole. Il pubblico è distratto, solo senso, solo occhio; ma di sotto a questa superficialitá apparente vi è sempre un cuore che batte; e se io giungo fin lá, io lo caverò dalla sua distrazione: entrerá spensierato ed uscirá raccolto e commosso. — Ma perché sia cosí, se il pubblico è distratto, l’artista dee essere serio, e tale artista, credetelo, fará col tempo tal pubblico. [p. 182 modifica]

Dante, dunque, ha ricoperto il disgustoso, che è e dee essere in Malebolge, parte col sublime, parte col fantastico. Ma in Malebolge non è tutto esterno; e sarebbe intollerabile la lettura de’ suoi tredici canti, se non fosse altro che rappresentazione esteriore. La natura è cosa morta senza la presenza dell’uomo, che è il suo secondo creatore, che contemplandola le comunica una parte di sé, la sua anima, il suo pensiero e le sue passioni. In Malebolge vi è l’uomo, ed il poeta dee ritrarlo con tutti i suoi vizii e difetti; poiché in questo è il significato di Malebolge, che il brutto vi stia come brutto, il male come male. Si può tagliare il nodo anziché scioglierlo; si può cogliere nel brutto alcun lato bello che lo ricopra, e Dante si vale di questo mezzo talvolta. Nella bolgia de’ consiglieri fraudolenti Dante pone Ulisse, e Ulisse è un gran personaggio storico, e Dante si guarda bene di confonderlo cogli altri; onde ce lo rappresenta in uno de’ momenti piú sublimi della sua vita. Nelle sublimi parole che gli pone in bocca il poeta, quando lo fa giugnere allo stretto di Gibilterra, vi si sente un entusiasmo di fantasia, che guarda desioso al di lá dello stretto, e ti prenunzia il Colombo: è una maraviglia di mondi nuovi, di cui l’antichitá era oscuramente presaga, e che una poesia gitta dentro Malebolge ad irraggiarlo di luce. Dante si vale di questo mezzo talvolta; poiché infine la difficoltá ritorna sempre, e questo brutto bisogna affrontarlo e vincerlo. Come si fa a vincerlo? Come si fa a renderlo estetico? Chiamiamo un oggetto estetico, quando desta in noi il sentimento del bello. Una vista bella c’innamora di sé, e noi vi ci obbliamo, dolcemente pensosi: impressione e rappresentazione sono conformi: nasce come una simpatia tra lo spettacolo e lo spettatore: il cuore di Dante risponde al cuore di Francesca, e la sua ammirazione risponde alla grandezza di Farinata. Ma che cosa avviene, quando lo spettacolo è brutto? Se il vostro gusto è depravato, se in voi è spento ogni senso morale ed estetico, voi non potete dire: «Questo spettacolo è brutto»: voi vi ci deliziate, vi ci avvoltolate entro, come certi animali nel fango. Per dire: «Questo spettacolo è brutto», bisogna che in voi si serbi immacolato il sentimento del bello, si che [p. 183 modifica]repugni e reagisca e si rivolti contro quello spettacolo; e il riso la collera lo schifo il torcer degli occhi il protender delle braccia non sono che modi diversi, ne’ quali si esprime questo sentimento, che la negazione di esso fa suscitare in voi e che reagisce. È il bello suscitato dal brutto, l’armonia del mondo che esce dal caos, e l’impressione non corrispondente alla rappresentazione, ma in reazione con quella, ed è in questa reazione che è posta la poesia. Immaginate quattro paltonieri, buffoni plebei, cosí compiutamente plebei, che non ne abbiano coscienza: nessuno dirá, dell’altro: «Tu sei un paltoniere»: essi si ammirano e si congratulano l’uno con l’altro. La bestia ignora la bestia ed il vile ignora il vile. Per dire: «Voi siete paltonieri», bisogna che sia tra loro una persona seria, nella cui anima generosa quel brutto intoppandosi riconosca se stesso e si trasformi e diventi il suo contrario. E in Malebolge la persona, in cui il brutto riceve il battesimo di poesia, è Dante, poeta e spettatore. Come poeta, egli descrive in modo il brutto che generi di per sé una reazione nell’animo del lettore. Come spettatore, egli è uomo di alto animo, contemplatore indegnato di quelle bassezze; e la sua indegnazione trabocca in orrende parole. Al quale ufficio egli è tanto piú acconcio, in quanto non ci si pone come un uomo straordinario, che voglia imporre le sue impressioni al lettore. Virgilio è la intelligenza elevata, che corregge in Dante gl’istinti umani che egli ha comuni con noi. li Virgilio che lo corregge quando egli sente pietá nel vedere il viso umano travolto in sulle spalle; o quando egli porge orecchio alle ignobili querele di Sinone e maestro Adamo. Questo suo rimaner sempre uomo ce lo concilia, e rende meno sospette le sue impressioni, e fa che elle giungano a noi, umili mortali come lui, in tutta la loro efficacia. Vediamo ora le diverse specie di brutto, e la reazione che nasce in Dante, poeta e spettatore.

Ciascuno ha nella mente un archetipo, un tipo, un modello, secondo il quale giudica delle opere di natura e di arte; e quando vi è disformitá, si dice: — Vi è mancamento o difetto. — Ma i difetti sono cosí comuni, che il perfetto è una eccezione; e nella [p. 184 modifica]nostra mente è cosí consociata con l’idea del perfetto l’idea del nostro essere finito e manchevole, che noi non sappiamo sdegnarcene o sentirne schifo, salvo che non vi si aggiunga un nuovo elemento, per esempio la malvagitá o il disgustoso. La vista di un difetto, adunque, non risveglia in noi se non l’idea di un contrasto impreveduto tra il modello e la cosa: e ne scoppia d’improvviso una reazione che si esprime col riso. Vi sono molti che credono sia il medesimo «comico» e «ridicolo». Siccome ciò che è bello è piacevole, ma non tutto ciò che è piacevole è bello; cosí il comico è ridicolo, ma non ogni ridicolo è comico. Il ridicolo è fondato sopra cagioni subbiettive ed accidentali — l’educazione, il carattere, le mode, ecc. — e la stessa cosa fa ridere me, che empie altri di sdegno. La plebe ride di difetti naturali che in sé non hanno niente di comico; e sono comici, quando si rivela qualcosa di straordinario nello stesso difetto, o quando nasce dal difetto una conseguenza impreveduta, come se uno scilinguato va per pronunziarti un complimento e ti fa una smorfia, o se uno zoppo va per farti una riverenza e ti fa una capriola. Gli sciocchi ridono de’ gesti animati di un oratore appassionato, perché non comprendono un’acca delle sue parole che danno serietá a quei gesti; or qui il difetto non è nell’oratore, ma in loro: sono essi ridicoli; e se uno scrittore dovesse scegliere un argomento da commedia, non sceglierebbe a subbietto colui del quale si ride, ma coloro che ridono. Il vero comico dee avere qualche cosa di obbiettivo e di permanente nella umana natura e non nascente da cagioni transitorie. Esso è il contrasto permanente tra l’essere e l’apparenza, tra il modello e la cosa. Cosi, comico è colui che suda e si affanna intorno ad uno scopo frivolo, o colui che usa frivoli mezzi intorno ad uno scopo serio, per il contrasto che è tra lo scopo ed i mezzi. Comico è colui che descrive con lo stesso fracasso di frasi una rissa ed una battaglia, come quella tra i topi e le ranocchie di Omero, e gli Dei che intervengono tra loro con lo stesso ardore con cui combattono a prò o contro di Troia. Ora, se il contrasto è nella stessa coscienza dell’uomo difettoso, cioè se egli ha coscienza del suo difetto e cerca nasconderlo; il [p. 185 modifica]riso è [da una parte] contenuto dal bisogno che sentiamo di non mostrare di accorgerci di quello che egli vorrebbe nascondere, e dall’altra, negli sforzi successivi ch’egli fa, ci è qualcosa di graduato, si che il riso è preparato e si può rattenere. Ma se l’uomo non ha coscienza del suo difetto, egli lo manifesta con una naturalezza, con un improvviso, che non ci lascia tempo a signoreggiarci, ed il riso si propaga in una risata, in un’allegria generale, massime se colui, non comprendendo, fa l’attonito ed il maravigliato. Questi caratteri senza coscienza sono i piú perfetti, come una perfetta bellezza è quella che sgorga spontanea dalla mente dell’artista. Tali sono Sancio Panza e Don Abbondio, che si esprimono con una perfetta, buona fede ed una comica serietá.

Qual è la forma nella quale devono uscir fuori questi caratteri? In natura non si dá brutto né bello perfetto: il difetto è accompagnato con altre qualitá o accidenti repugnanti o indifferenti. Un uomo, se mostra all’improvviso un suo difetto, fa ridere; ma se altri lo imita e lo contraffá, riproducendo il difetto isolato da altre qualitá che l’oscurano, il riso riscoppia piú forte; perché avete innanzi non il difetto naturale e reale, ma il difetto idealizzato e fatto poesia, un vero contro-modello. Questo imitare o contraffare dicesi «caricatura», che è la regina delle forme comiche e la piú difficile. E dico la piú difficile, perché si richiede una vera vocazione comica per caricare il difetto senza oltrepassarlo. E dico la regina delle forme comiche, perché essa è pel brutto quello che l’immagine è per il bello. L’immagine è il pensiero calato e quasi obbliato nel corpo, greca perfezione; se il sentimento si scioglie dall’immagine e si pone come sentimento, se il pensiero si scioglie dall’immagine e dal sentimento e si pone come pensiero avremo forme inferiori dell’arte. La caricatura è il brutto riprodotto come immagine; è la plastica e la statuaria della commedia; è l’immagine non ancora svaporata nella riflessione e nel sentimento; è Socrate insegnante di su una cesta sospesa in aria come in mezzo alle nuvole, perché la plebe ateniese chiamava nebulosa la dottrina di Socrate, come alcuni plebei de’ nostri giorni chiamano nebulose certe dottrine che non comprendono. [p. 186 modifica]

I dannati di Malebolge sono difettosi senza coscienza, a cominciare da’ diavoli, esseri tra l’uomo e la bestia, in cui i difetti sono ciechi e istintivi. Nel canto XXII essi si mostrano rissosi, feroci, abbietti, vanitosi e ciò non per via di descrizione o di ritratto, ma per via di azione: l’anima è calata interamente nel fatto. Con costoro si rassomiglia tutto ciò che è plebe in Malebolge, i ladri, i truffatori, i barattieri, ecc., ne’ quali il vizio e la bassezza è cosí connaturata e parte di sé, che non se ne accorgono piú. Cosi Niccolò III ha una cosí ferma persuasione della sua grandezza di papa, che crede con la miglior buona fede che Dante sia sceso nell’inferno a bella posta per veder lui; e Sinone e maestro Adamo si ricambiano pugni e villanie con la serietá di due dottori che disputano intorno al salasso, con una passione, con un interesse, con un crescendo di contumelie. Dante ha voluto rappresentare in essi la bassa plebe, l’infimo grado del comico, la buffoneria. Mettete di rincontro due giovani male allevati e di poco spirito: — «Tu sei un asino», — dice l’uno, e l’altro che non sa trovare una risposta pronta, rimanda la stessa parola con qualche aggiunta o accrescitivo: — «E tu sei un asinone.» — «Non tanto quanto te.» — «Guardati prima in faccia», ecc. — Tu dicesti il falso in Troia, grida maestro Adamo, e Sinone:

                                         Se io dissi falso, e tu falsasti il conio
[.   .   .   .   .   e son qui per un fallo,
E tu per più ch’alcun altro dimonio.]
     

Aggiungete i giuochi di parole, quand’uno non sapendo rispondere alla cosa si appiglia alla parola, e quel rispondere ad una osservazione giusta con una impertinenza o con un pugno.

                                         Ricorditi spergiuro del cavallo
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .
E sieti reo che tutto il mondo saffo.
     A te sia rea la sete [onde ti crepa.
Disse ’l greco, la lingua, e l’acqua marcia.
Che’l ventre innanzi gli occhi sf t’assiepa.]
     
[p. 187 modifica]Dove Sinone appigliandosi alla parola «reo», non sapendo che rispondere intorno al cavallo, se la prende con la pancia prominente di maestro Adamo. In queste due scene ci sono tutti gli elementi del comico buffonesco, rozzo e grossolano: vi è la concezione comica; ma vi è la rappresentazione, cioè a dire la caricatura? Quando Sinone scaglia un pugno sulla pancia di maestro Adamo, il poeta dice:
                                    Quella sonò come fosse un tamburo.      

Qui vi è la caricatura e si ride. Ma quando soggiunge:

                                    E mastro Adamo gli percosse il volto;      
qui si riman freddi perché vi manca l’immagine.

Un altro esempio.

Immaginate due persone che lottano avviticchiate l’una all’altra, e sdrucciolando cascano in un lago di acqua calda: quel bagno caldo fa da paciere e le divide. Per rappresentare ciò comicamente il poeta dee saper cogliere quel movimento quel gesto quella smorfia, che fanno quando si sentono scottare e si sciolgono. Dante dice:

                                    Lo caldo schermidor subito fue.      

Qui il fatto è comico ed espresso anche con vivacitá; ma non vi è un tratto, un movimento che lo innalzi fino alla caricatura ed al riso che ne è l’espressione. Manca spesso a Dante la caricatura, ed i suoi versi piú comici di rado fanno ridere. Perché questo? Perché a voler fare una caricatura bisogna che l’uomo vagheggi il difetto come l’artista la bellezza, che lo vagheggi insino a che di sotto al suo sguardo il difetto si idealizzi e s’innalzi fino a contro-modello; che lo vagheggi con un sentimento che è piú dell’indulgenza, che è quasi una compiacenza. Per far ciò l’uomo dee avere quell’amabile tolleranza, che ci rende cosí caro il Le Sage; non dee aver collera o disdegno. Ora Dante [p. 188 modifica]era troppo nobile e sdegnoso e non sapea indugiare con pazienza lo sguardo sulle umane fralezze: il suo sorriso è amaro; di sotto alla facezia spunta il disdegno, e spesso nella mano la sferza gli si cambia in pugnale. Quando il difetto gli comparisce dinanzi alla fantasia, non vi riposa su lo sguardo, ma ne lo torce sdegnoso; sicché il comico gli esce abbozzato e crudo, e non idealizzato fino alla caricatura. Quando leggiamo nell’Ariosto una descrizione seria, non ci arrischiamo a comporci in serietá, perché ci par di vedere l’autore con quel suo riso in bocca, che esca in una facezia. Quando leggiamo in Dante alcuna cosa ridicola, non ci avventuriamo a ridere, perché ci par di vedere l’autore con quella sua faccia severa che ci sgridi di questa debolezza. Noi abbiamo riso alle parole di maestro Adamo; ma guai se Dante fosse presente! Poiché egli si fa correggere da Virgilio, non dico di aver riso, ma di aver potuto ascoltare quelle ignobili parole. In mezzo a queste scene plebee egli sta a malincuore, e gli fa mille anni di uscirne. Ma quando il difetto si trasmuta in vizio, e provoca la collera ed il disprezzo, noi troveremo Dante nel vero suo campo. Del che nell’altra lezione.