Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/XVI. La natura nell'inferno

Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XVI. La natura nell'inferno

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Lezione XVI

[LA NATURA NELL’INFERNO]


Vi ho esposto il concetto dell’inferno, la depravazione dell’anima; indi ve l’ho distinto ne’ suoi singolari momenti, la progressiva depravazione dell’anima, moralmente il successivo incattivire dello spirito infino alla compiuta malvagitá; esteticamente il successivo bruttarsi dell’anima infino alla compiuta bruttezza. Cosi tra i due estremi, tra i negligenti e Lucifero, vi ho mostrato un lunghissimo spazio di mezzo, che è la storia dello spirito colpevole da quello che egli ha in sé di nobile infino all’ultima e prosaica bassezza. E dico «nobile», quando lo spirito è libero, volente e possente e quando anche nel male, anche nell’inferno mostra tutta la ricchezza delle sue forze interiori, un sentimento elevato sino a passione, una volontá sublimata insino a carattere. E dico «basso», quando il di dentro è fiacco, quando la passione diviene vizio ed il carattere sfacciatezza, quando alla tragedia succede il comico, il satirico ed il prosaico. In effetti da Francesca da Rimini a Capaneo non trovate un solo tratto comico: tutto vi è grande. E voi vedete comparirvi davanti ora Dio, o la legge morale nella sua infinitá, ora l’uomo nella violenza della passione e nella energia del carattere. Ma quando si pone il piede in Malebolge, la commedia ci si dispiega dinanzi in tutte le sue gradazioni, dal faceto, dal malizioso, dall’ironico fino all’ultima lordura ed oscenitá. E perché tal differenza? Perché in quei tempi di rigoglio e sovrabbondanza di vita Dante stima gl’incontinenti ed i violenti come quelli, le [p. 103 modifica]cui colpe procedono dall’irrefrenabile impeto di quel di dentro e disprezza i fraudolenti, i cui peccati derivano da fiacchezza e volgaritá interiore. Ed agli uni riserba tutta la sua pietá e sugli altri sparge il ridicolo e il sarcasmo.

Questo disegno è egli eseguito pedantescamente colla squadra e col compasso? Questo che io chiamo ordine poetico ed è la vita interna della poesia, il disotto che si rivela sulla superficie, ha egli le stesse leggi dell’ordine scientifico? L’ordine scientifico ci presenta una serie di concetti astratti; il poetico una serie di azioni e d’individui: il primo una serie di delitti, il secondo non solo una serie di individui colpevoli, ma di tali e tali individui. Vedete lá una moltitudine confusa di rei: voi li classificate in vari gruppi, degli omicidi, de’ ladri, ecc. Perché quei violenti costituiscono il gruppo degli omicidi? Perché voi considerate non quello che ciascuno ha di proprio e di distintivo, ma quello che ha di comune con tutti gli altri: l’omicidio commesso. Cosi mediante l’astrazione una classificazione è possibile ed una esatta riduzione a generi e specie. Il poeta, al contrario, non rappresenta astrazioni, ma uomini vivi e compiuti; e solo cosí è possibile alla poesia di potere nella permanente unitá serbar tutta la varietá che nasce dal libero arbitrio dell’umana persona e dal particolare dell’accidente. Il poeta dee, dunque, concepire il suo disegno largamente e non chiudersi egli stesso in angusti cancelli, non legarsi le mani: egli dee molto meditare il suo subbietto, ma non lasciar trasparire nella poesia alcuna orma d’intellettuale e di pensato; egli dee serbare l’unitá, ma tale che ne’ generali lineamenti si muova con libero giuoco ogni maniera di contrasti, e quanto la persona ha di proprio e quanto l’accidente ha di particolare. Ed in questo Dante è eccellente. Egli serba l’ordine scientifico con quella minuta puntualitá, che è propria de’ tempi, ne’ quali preminente qualitá del metodo scolastico era il dividere e il suddividere. Tanti cerchi quanti delitti, e tanti gironi di ciascun cerchio quante specie di ciascun delitto. Ma quando egli scende alla rappresentazione, il suo fare è libero, largo, a grandi tratti; e l’idea unica, che penetra in tutto l’inferno, discende tanto nel particolare delle passioni e degli [p. 104 modifica]accidenti che ella raggiunge quella compiuta realtá poetica, di cui si sente il difetto nel purgatorio e nel paradiso.

Veduto il concetto nella sua unitá e nella sua successione, ovvero ordine, e determinati i limiti di questo ordine, noi abbiamo un criterio per giudicare l’inferno ne’ tre elementi che lo costituiscono: nella natura, nel demonio e nell’uomo.

La natura può esprimere il concetto? e fino a qual punto? La natura, come opera d’arte, come prodotto dello spirito, costituisce il primo scalino dell’arte: l’architettura, nella cui immobilitá il concetto sta solo simbolicamente, senza figura e senza successione; e però ella si aiuta de’ suoi simboli, de’ suoi bassirilievi, delle sue statue e de’ suoi quadri, della scoltura e della pittura. Onde la natura dantesca esprime il concetto con manco di precisione che le pene, e queste meno precisamente che il demonio, e questo meno che l’uomo, in cui il concetto si esprime in tutta la sua veritá, divenuto passione e carattere. Quando, dunque, io considero la natura, per necessitá scientifica scompagnata dal demonio e dall’uomo, io mi pongo in una posizione ipotetica ed incompiuta, avendo il poeta tutto concepito d’un getto ed insieme; ed avremo la veritá estetica, quando vedremo questi elementi fondersi insieme in azione e compiersi ed integrarsi l’un l’altro. Cominciamo dalla natura.

Quando si sente il bisogno di idealizzare la terra, lo sguardo si alza verso il cielo, dove collochiamo l’ideale del bello; e la fantasia si profonda nelle inferne viscere della terra, dove collochiamo l’ideale del brutto. Quello che è al disopra e quello che è al disotto di noi sará sempre fonte inesausta di poesia, perché si sottrae in parte al nostro sguardo; e dove l’occhio non giunge penetra pili ostinatamente la fantasia, la quale per liberamente spaziare ha bisogno che il velo d’Iside non sia mai sollevato del tutto e che la natura le presenti sempre un lato misterioso. Come Dante abbia concepito il cielo lo vedremo nel paradiso. In che modo ha concepito l’inferno?

Se mi è permesso di trasportare una parola dal morale al fisico, l’inferno è la depravazione, la progressiva depravazione della natura, il terrestre che si dissolve, si corrompe e muore, [p. 105 modifica]la vita che muore a poco a poco, il moto che a poco a poco si spegne, il brutto che a poco a poco si leva su. Vediamolo.

Quando l’inferno si presenta la prima volta innanzi alla nostra fantasia, esso non è brutto né laido, ma terribile; e cosí si presenta la prima volta innanzi a Dante, terribile, infinito, sublime. I caratteri del sublime infernale, come giá osservai, sono l’eterno e il tenebroso. Dell’eterno si è giá ragionato altrove: parliamo del tenebroso.

In che è posto il sublime delle tenebre? Nell’annullamento della forma, nella morte della fantasia: la vita della fantasia è il dar corpo e figura agli oggetti, e nelle tenebre il corpo e la figura si dileguano, e la fantasia, spaurita, ondeggia nell’indeterminato e nel vuoto. Onde quel sublime negativo, che noi congiungiamo con ciò che non è, con la morte, col male, col nulla, con le tenebre.

In che modo la poesia può formare ciò che non ha forma? Essa giunge per indiretto dove è impossente la pittura e la scoltura. Prendete un cieco nato: per lui le tenebre non sono sublimi, ma sono soltanto il suo stato quotidiano ed ordinario, perché egli non concepisce la luce. La conoscenza della luce rende sublimi le tenebre, la conoscenza dell’essere rende sublime il nulla. Noi poniamo l’ideale della luce nel sole e nelle stelle; la luce è per noi la vita, l’anima, la parola dell’universo; la luce è la visione e la vita dell’occhio. È lo spettacolo delle stelle annullate che rende sublimi le tenebre:

                                         Quivi sospiri, pianti ed alti guai
Risonavan per l’aer senza stelle.
               

E la luce come parola dell’universo che rende sublimi le tenebre silenziose:

                                         Io venni in luogo d’ogni luce muto.                

É l’annullamento della visione, la morte dell’occhio, che rende sublimi le tenebre: [p. 106 modifica]

                                         Vero è che in su la proda mi trovai
Della valle d’abisso dolorosa,
Che tuono accoglie d’infiniti guai.

     Oscura, profond’era e nebulosa.
Tanto che, per ficcar lo viso al fondo,
I’ non vi discernea veruna cosa.
               

L’eterno e il tenebroso sono, dunque, i caratteri estetici dominanti de’ primi sei cerchi. — E che? — mi direte voi — tutto l’inferno non è egli eterno e tenebroso ugualmente? — Le tenebre sono dappertutto; ma sono poesia solo ne’ primi canti, e nel rimanente sono una mera realtá, un fatto prosaico. La natura è perpetuamente giovane, è sempre la stessa; ma ella si cangia e s’invecchia ai nostri sguardi; e l’eterna corroditrice della sua bellezza è la consuetudine, perseverante e dissolvente, che ci ruba ogni di una parte di poesia, insino a che non ci ha affatto disabbellito la vita. Il sole, in cui le primitive fantasie de’ popoli meravigliati riposero la stessa esistenza di Dio, fatto prosaico dall’abito di guardarlo, non è per noi che spettacolo quotidiano e volgare. Parimenti le tenebre sono state spogliate dalla consuetudine d’ogni loro sublimitá; e quando diciamo «tenebroso», «oscuro», questo concetto, al quale siamo avvezzi, lascia inerte la nostra fantasia. Ora Dante non parte da principii preconcetti nell’arte; egli si abbandona alla spontaneitá della sua ispirazione, e la sua impressione è sempre vera. Dapprima le tenebre infernali esaltano la sua fantasia, come l’esaltano a chiunque la prima volta le concepisce; ma, quando procede oltre, quando vi si ausa, attirato da nuovi obbietti, signoreggiato da nuove situazioni, egli non si ostina nelle prime immagini e non ripete mai se stesso; ma si sente ricco abbastanza per trovar nuove forme e nuovi colori. E che cosa diventano allora le tenebre? «Oscuro», «tenebroso», «nero», «buio», un epiteto volgare e comune:

                                    .   .   .   .   .   .   .   .   .   Maestro, chi son quelle
Genti, che l’aer nero si gastiga?
               
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                                    L’acqua era buia assai piú che persa.

Cosi giú veggio, e niente affiguro.
               

E qual è la configurazione de’ primi cerchi? Nessuna: l’annullamento della figura, l’indeterminato; il sublime esclude ogni determinazione. Fiat lux, et lux facta est. Aggiungetevi un particolare, e il sublime è distrutto. Nessun carattere che distingua l’un cerchio dall’altro, salvo che è eterno e tenebroso. E se un pittore domandasse a Dante un tratto, un tratto solo, che guidasse il suo pennello. Dante risponderebbe ancora: — «eterno e tenebroso». — Cosi, come pone piede nell’inferno, che cosa è l’inferno per lui? «Secrete cose», «tenebre», ed il resto nuota nell’indefinito. E che cosa è il primo cerchio? «Primo cerchio». Ed il secondo? «Luogo». Ed il terzo? «Terzo cerchio», ecc.

Nell’immobilitá della natura il concetto non ha né figura né successione; nelle pene acquista giá una maggiore chiarezza. Le pene sono come le suppellettili di edificio, che ne mostrano l’uso. Ergete un palco in mezzo a una piazza, e voi potete dire: — Ecco la piazza infame. — Qual è il fondo estetico delle pene in questi cerchi? La violenza del movimento, della natura e dell’uomo: sono le passioni nella loro violenza; è la natura nell’esercizio violento delle sue forze. Cosi Dante prende dalla natura ciò che è di piú sublime ne’ suoi moti violenti, una tempesta, un rovescio di grandine; e gli avari ed i prodighi cozzano gli uni contro gli altri, e gl’iracondi sono dalla stessa loro passione costretti ad usar forza in se stessi con quei piú incomposti moti, onde la passione si rende visibile sulla persona umana. Tutti questi elementi, il tenebroso, l’illimitato, il violento. Dante ha congiunto insieme ne’ noti versi:

                                         Io venni in loco d’ogni luce muto,
Che mugghia come fa mar per tempesta,
Se da contrari venti è combattuto.
               
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                                         La bufera infernal, che mai non resta.
Mena gli spirti con la sua rapina;
Voltando e percotendo gli molesta.

     Quando giungon davanti alla ruina.
Quivi le strida, il compianto e ’l lamento;
Bestemmian quivi la virtú divina.
               

La natura fin qui è tragica, severa, e a quando a quando sublime.

Entriamo nel regno de’ violenti. Qual mutamento di pena! Non piú il tenebroso, ma un chiaror cupo, fosco, rossigno, color di sangue e di fiamme; non piú l’illimitato, ma gli obbietti naturali in tutta l’integritá e determinazione, una cittá, una campagna, un lago, e giú in mezzo al lago una selva, e giú in mezzo alla selva un deserto. Non piú il violento, ma uomini giacenti parte rinchiusi in sepolcri, parte incarcerati negli alberi, parte distesi sotto una pioggia di fuoco, non violenta, ma d’un cader lento. Quale è il carattere estetico di questa natura? La grandezza indeterminata è sublime. La grandezza chiusa in regole di simmetria, di proporzioni e d’unitá è bella. La natura è qui la negazione del bello: la bellezza è sbandita dall’inferno. Vi è la natura terrestre; ma invano domandi qui particolari, che ce la rendono bella in terra; ci sono sepolcri, ma non ornati di fiori, non confortati di lagrime; e ci è un lago; ma cerchi invano le tranquille acque entro cui si riflettono gli alberi capovolti; c’è una selva, ma non trovi il suo verde né il rigoglio della sua vegetazione. E quando il poeta ci richiama alla memoria queste bellezze, non possiamo difenderci da un senso di malinconia e di tristezza. Quando la campagna è smaltata di verde, noi diciamo che la campagna ride; e quando le frondi cadono e la natura si spoglia de’ suoi vivaci colori, la natura si attrista e noi ci attristiamo con lei. E cosí niente è più triste che la selva de’ suicidi, senza il suo verde, i suoi rami e i suoi frutti:

                                         Non frondi verdi, ma di color fosco;
Non rami schietti, ma nodosi e involti;
Non pomi v’eran, ma stecchi con tosco.
               
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La natura vi è spogliata d’ogni sua bellezza e vestita a bruno. Né basta. Dante non solo l’ha scompagnata da quegli elementi che la rendono bella, ma l’ha congiunta con elementi innaturali, prodotto del peccato e della depravazione dello spirito; la violenza come peccato è la forza usata contro il fine, a cui è destinata dalla natura. La natura è qui snaturata dall’uomo: vi è un lago d’acqua quale ce lo dá la natura, ma quale l’uomo solo ha il tristo privilegio di farlo, un lago di sangue. Di che nasce un sentimento assai piú attivo del dolore: l’orrore. Alcuni credono l’orrore incapace di poesia, e s’ingannano. L’orrore è la poesia del disgusto. Un oggetto disgustoso, se ha in sé alcun che di straordinario che contraddica alle leggi naturali e morali, come in Mirra, in Medea, in Tieste, fa drizzare i capelli e levare le mani. Ne addurrò un esempio celebre. Quando il capo del conte Ugolino sta come cappello sul teschio dell’arcivescovo Ruggieri, questo spettacolo contro natura, fuori dell’umano, contrario a l’homo sum, genera raccapriccio ed orrore. Ma quando vi si dá un secondo sguardo e si può guardarlo nelle sue parti, quella bocca sozza di sangue e i capelli lordi, coi quali se la forbisce, generano disgusto. Il che spiega perché alcuni lodano, altri biasimano questa invenzione. I primi stanno alla prima impressione, che tramanda le parti e coglie l’insieme; i secondi stanno alle seconde impressioni attutite, quando la fantasia è raffredda e non rimane che il solo occhio corporale ed anatomico. L’orrore tiene sotto di sé il disgusto; in Malebolge questo si leva su e sale alla superficie. Malebolge non risponde piú ad alcuno oggetto terrestre: è la natura in frammenti, che il poeta ha raccolto e formatone una nuova combinazione. Rupi scoscese, schegge, fossi sforacchiati, abissi nel fondo, sassi, balze, borse, ecc.; scogli gittati in mezzo agli abissi a guisa di ponti, e sul confine delle bolge massi di pietre che si muovono sotto i piedi. La diresti una cittá in rovine, la natura in frantumi. Ed in effetti il poeta immagina che alla discesa del Cristo quella parte sia venuta in conquasso, tremando tutta la valle feda. Qui è che il disgusto soverchia. Il disgusto nel demonio e nell’uomo è il laido e l’osceno; nella natura il putrido. Dante ha [p. 110 modifica]ammassate nel fondo dell’inferno le acque che ivi ristagnano e imputridiscono e mandano fetidi vapori. E, quasi ciò non bastasse, vi ha aggiunto gli oggetti piú disgustosi.

Gittate un occhio su d’una carta topografica dell’inferno; e quando vedrete questa piramide capovolta, questo cono, questo imbuto a rovescio, quando vedrete quei cerchi indeterminati prender figura di cittá, e la cittá di bolge, e le bolge di pozzo, entro cui Dante ha seppellita e pietrificata la natura ed indurite le acque; quando vedrete all’uno estremo il primo cerchio d’immensurabile grandezza ed all’altro un tristo buco sopra il quale pendono tutte l’altre rocce, voi avrete una immagine visibile d’una natura in decadenza.

Volete voi un’altra immagine per la successiva depravazione de’ caratteri estetici? Mirate una di quelle perturbazioni violente, che diconsi rivoluzioni; e voi vedrete nella prima febbre dell’entusiasmo comparire il sublime del sacrificio e dell’abnegazione; indi a poco a poco venir fuori il sanguinario, il feroce, l’orribile, finché da ultimo sale su da’ bassi fondi della societá quanto di piú laido ed abbietto è nella plebe.

Cosi l’inferno apparisce prima in quello che esso ha di terribile; indi lo spettacolo si fa sempre piú scuro, sanguinoso e crudele, insino a che si cade nella decomposizione e nel putrido, e il disgusto, soverchiato innanzi dal terrore e dall’orrore, sale sulla superficie ed occupa solo di sé i sensi e la fantasia.