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i06 | primo corso tenuto a torino: lez xvi |
Vero è che in su la proda mi trovai Della valle d’abisso dolorosa, Che tuono accoglie d’infiniti guai. Oscura, profond’era e nebulosa. Tanto che, per ficcar lo viso al fondo, I’ non vi discernea veruna cosa. |
L’eterno e il tenebroso sono, dunque, i caratteri estetici dominanti de’ primi sei cerchi. — E che? — mi direte voi — tutto l’inferno non è egli eterno e tenebroso ugualmente? — Le tenebre sono dappertutto; ma sono poesia solo ne’ primi canti, e nel rimanente sono una mera realtá, un fatto prosaico. La natura è perpetuamente giovane, è sempre la stessa; ma ella si cangia e s’invecchia ai nostri sguardi; e l’eterna corroditrice della sua bellezza è la consuetudine, perseverante e dissolvente, che ci ruba ogni di una parte di poesia, insino a che non ci ha affatto disabbellito la vita. Il sole, in cui le primitive fantasie de’ popoli meravigliati riposero la stessa esistenza di Dio, fatto prosaico dall’abito di guardarlo, non è per noi che spettacolo quotidiano e volgare. Parimenti le tenebre sono state spogliate dalla consuetudine d’ogni loro sublimitá; e quando diciamo «tenebroso», «oscuro», questo concetto, al quale siamo avvezzi, lascia inerte la nostra fantasia. Ora Dante non parte da principii preconcetti nell’arte; egli si abbandona alla spontaneitá della sua ispirazione, e la sua impressione è sempre vera. Dapprima le tenebre infernali esaltano la sua fantasia, come l’esaltano a chiunque la prima volta le concepisce; ma, quando procede oltre, quando vi si ausa, attirato da nuovi obbietti, signoreggiato da nuove situazioni, egli non si ostina nelle prime immagini e non ripete mai se stesso; ma si sente ricco abbastanza per trovar nuove forme e nuovi colori. E che cosa diventano allora le tenebre? «Oscuro», «tenebroso», «nero», «buio», un epiteto volgare e comune:
. . . . . . . . . Maestro, chi son quelle Genti, che l’aer nero si gastiga? |