Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/XV. La passione tra l'indifferente e il brutto

Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XV. La passione tra l'indifferente e il brutto

../XIV. Gradi della depravazione ../XVI. La natura nell'inferno IncludiIntestazione 24 agosto 2023 75% Da definire

Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XIV. Gradi della depravazione Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XVI. La natura nell'inferno
[p. 98 modifica]

Lezione XV

[LA PASSIONE TRA L’INDIFFERENTE E IL BRUTTO]


Tra l’indifferente e il brutto, tra queste due negazioni è posto l’inferno dantesco, successivo sparire dello spirito nella materia. Cominceremo, dunque, dal considerare lo spirito in quello che ha di piú elevato, accompagnandolo man mano infino al suo ultimo scadere. E poiché l’ideale poetico ha la sua rispondenza nella realtá, ci faremo a considerare questo dapprima nella vita sociale ed individuale.

Dicesi stato sociale prosaico, quando le forze interiori s’incontrano in un ordine di cose predeterminato da lungo tempo, limitato da regole minute e meccanizzato dalla tradizione e dalla consuetudine. Dicesi stato sociale poetico, quando è l’immediato effetto del prorompere delle forze interiori: stato eroico o di barbarie. L’epopea che dee rappresentare un’epoca sociale sceglie questo tempo a sua materia. Né questo è perché in tempi remoti è fatta abilitá al poeta di mescolare il reale al fantastico, secondo spiega la scuola antica, quasi come se il poeta debba inventare il fantastico ed applicarlo al reale, e non piuttosto trovare il fantastico nel seno stesso della realtá ed apprenderli amendue in una sola vista; e d’altra parte mostraci Dante che si può rappresentare anche la storia contemporanea con tutta l’altezza della fantasia. Il poeta sceglie quei tempi, perché essenzialmente poetici ed epici, potendo ivi la libera individualitá dispiegarsi in tutta la ricchezza delle sue facoltá senza trovare al disopra una forza che la costringa e rinchiuda nel giro angusto [p. 99 modifica]del reale. E cosí libera rimane l’individualitá intorno a Giove, ad Agamennone, a Carlo magno. Il passaggio dallo stato poetico al prosaico costituisce il fondo del Don Chisciotte, il quale, circondato dalla vile prosa, s’immagina ancora di vivere in una etá poetica.

Questo doppio stato è altresi nell’individuo. L’individuo è prosaico, quando, educato in mezzo alla tradizione ed alla consuetudine, vi si affá e vi si ausa. L’individuo è poetico, quando si leva allo stato di passione: perché la passione raccoglie le forze interne, prima sparpagliate e distratte negli usi della vita, intorno ad un punto solo, dimodoché lo spirito agquista coscienza della sua possanza, anzi della sua infinitá: lo spirito, preso per sé ed isolato dal fatto esterno, è libero d’una libertá infinita, che non può esser vinta da nessuna forza, neppure da Dio, non potendo Dio stesso fare che io non creda a quello che credo, che io non pensi quello che penso. Nello stato di passione non vi è prigione o patibolo che possa costringere a non amare, a non odiare, a non disprezzare. — «Tu mi metti in prigione ed io ti disprezzo, e di sopra al patibolo io ti disprezzo; e, se mi chiudi la bocca, tu sai che nel mio cuore io ti disprezzo; e, morto ancora, questo sentimento si stacca da me e fa un patto con l’anima tua e sopravvive nella tua coscienza, ove udirai di continuo ripetere: — io ti disprezzo, io ti disprezzo.» — Non vi è tanto vile donnicciuola innanzi a cui non si riveli l’infinito quando è stretta dalla passione. — «Io ti amo e ti amerò sempre; e se dopo morte si ama, ed io ti amerò, e piuttosto con te in inferno che senza di te in paradiso.» — Tali sono le eloquenti bestemmie che traboccano da un cuore pieno ed appassionato. Possiamo addurre ad esempio l’addio di Zerbino ad Isabella e l’eroico carattere che dá l’amore alla timida e mansueta Giulietta.

Di rincontro a questo infinito vi è un altro infinito: quando la passione vuole realizzarsi al di fuori, s’intoppa nell’ordine generale delle cose, di cui l’uomo si sente parte e innanzi a cui non è che un fragile individuo. Questa forza esterna, il fato degli antichi, la Provvidenza da S. Paolo a S. Agostino ed a Bossuet, la stessa Provvidenza operante secondo le leggi della [p. 100 modifica]ragione, messa di rincontro alla passione, costituisce quella collisione che è il fondamento della situazione tragica. Nel cerchio della vita né l’individuo si mantiene nella sua altezza infinita, né il fato nella sua possanza divina, scambiandosi spesso col caso e divenendo espressione collettiva di tutti gli ostacoli naturali ed umani, ne’ quali intoppa la volontá del protagonista. Ma nell’inferno l’anima, isolata dal fatto giá sparito, è pura passione e puro carattere, rimasta in quella regione dove è inviolabile, ed il fato è Dio come eterna giustizia e legge morale: quindi la lotta è in tutte le sue colossali proporzioni, e Dante si mantiene a questa altezza, ora mostrandoci l’uomo in ciò che ha d’infinito, come in Francesca da Rimini, Pier delle Vigne ecc.; ora mostrandoci il fato in quello che ha di divino, come in Ciacco, negli avari, ecc. Questa grandezza si rivela nella sua tragica essenza in Capaneo, nel quale però lo spirito è giá disceso d’un grado dal suo piedistallo. Ivi abbiamo due estremi: Giove e Capaneo; Giove che fa degli sforzi successivi per domare una superbia che rimane sempre immutabile. Giove è troppo piccolo per Capaneo, che lo esagera, lo amplifica, e lui ingrandito pone di rincontro ad un semplice «me». Capaneo, quando ha detto di se stesso «me», ha creduto di aver detto tutto. Capaneo è posto tra i violenti e non è che un bestemmiatore, forza fisica, e quando è vinto in questa è vinto in tutto. Quindi le sue parole non esprimono verace grandezza, ma dispetto e rabbia, il veleno che dentro lo rode, la coscienza d’esser vinto, anzi di non poter vincere. Onde il suo giacere «dispettoso e torto» ed il suo fare avventato, che sente di millanteria, e gl’insulti e l’amarezza del suo sarcasmo. Il suo orgoglio è stato mortalmente ferito, e Giove non ha solo percosso il suo corpo, ma ha colpito ancora la sua anima.

In Malebolge entriamo in piena commedia: le grandi figure demoniache della mitologia spariscono, e vi succedono i demòni cornuti con le sfere e le scuriade. Nella commedia gli attori prendono maschere e con i loro gesti fanno la caricatura della faccia umana. Qui la faccia umana, rimasta finora intatta, comincia a trasformarsi, come ne’ simoniaci, negl’ipocriti, negli [p. 101 modifica]auguri, negli scismatici, ne’ barattieri, ecc. A questa trasformazione esterna corrisponde l’interna: non piú grandi caratteri e grandi passioni, ma risse, villanie, malizie e lordure; nel che i demòni stessi entrano in gara con l’uomo. Cosi lo spirito scende fino al bestiale, trasformandosi l’uomo in bestia e la bestia in uomo; dimodoché in una faccia sola compariscono il bestiale e l’umano: di che è tipo Vanni Fucci. Da ultimo si cade nella natura inanimata, e sparisce ogni aspetto di moto e di vita. Le acque si congelano; gli uomini vi perdono il sentimento vitale e vi si immobilizzano a poco a poco; le lagrime stesse si invetriano, finché l’uomo sparisce dalla scena e vi succede il mondo prima della etá umana, il mondo de’ giganti e ai Lucifero, massa enorme di materia vuota d’intelligenza, in cui lo spirito si è dileguato. E poiché questo suo successivo sparire è espresso nella natura, nel demonio e nell’uomo, noi considereremo ciò partitamente e di poi li coglieremo nella loro vivente unitá in singoli canti.