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LEZIONE SESTA 95

fanno in un luogo d’un tempo, e in uno altro d’un altro, secondo che son situate le provincie e i paesi dove ci sono o più o manco presso a l’equinoziale; onde si vede che quello, che accade verbigrazia a noi di maggio, accadrà in uno altro luogo di marzo. E di questo noi ne veggiamo l’esperienza manifestissima nel regno di Napoli, dove, ancor ch’ei non sia però discosto da noi più che un due centinaia di miglia, si maturan molto prima l’anno i frutti, ch’ei non fanno qui nel paese nostro. E perchè Dante teneva ancora egli, come opinione più comune, che la creazione del mondo fusse stata di marzo; e oltre a di questo egli ebbe questa sua visione, come io vi dimostrai già, la settimana santa; e la pasqua fu quello anno del mille trecento a’ nove dì d’aprile, nel qual tempo il sole non era ancora uscito d’Ariete, ma era ne’ venticinque o ne’ venzei gradi di quello; donde nasceva ch’ei saliva al nostro orizzonte, come considera diligentissimamente lo interpretre moderno, non col principio o col mezzo dell’Ariete, ma con tutte quelle stelle che fanno quel segno; egli dice che il sol movea con tutte quelle stelle, le quali eran medesimamente seco quando lo amor divino

Mosse da prima queste cose belle;

cioè creò e diede l’essere a tutte le cose delle quali è adorno e pieno questo universo. Come il cielo sia stato diviso da gli Astrologi in dodici parti, chiamate da loro dodici segni (uno de’ quali è lo Ariete), è stato trattato tanto largamente da ’l Landino, ch’ei mi pare superfluo il più parlarne; e però tornando al testo, dico che Dante dimostra in queste parole, con dottrina e arte maravigliosissima, la cagione la quale mosse Dio a creare il mondo, e oltre a di questo la natura e l’esser delle cose naturali; dicendo primieramente, come è il vero, ch’ei fu lo amore e la bontà divina, quella che diede lo essere a tutte le cose; conciosia cosa che Dio, essendo perfettissimo e felicissimo in sè stesso e nella essenzia sua propria, non aveva bisogno alcuno di creare altre creature. Niente di manco, perchè la natura del bene è di essere comunicativo di sè stesso, essendo egli la somma e perfetta bontà, e non si