Letture sopra la Commedia di Dante/Lettura prima/Lezione quinta
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LEZIONE QUINTA
Ma poi che io fui appiè1 d'un colle giunto,
Là ove terminava quella valle,
Che mi avea di paura il cor compunto.
Fermare in cose il cor, che il tempo preme,
Che mentre più le stringi son passate:
cominciò a pensar d’uscire dalla selva della confusione, per la quale egli era camminato insimo allora, e cercare e investigare il suo vero fine. La qual cosa volendo egli narrare e poeticamente descrivere, dice:
Ma poi che io fui appiè d'un colle giunto,
Là ove terminava quella valle,
Che mi avea di paura il cor compunto.
Dove, stando alla metafora già presa da lui, egli assomiglia questo discorso e questa considerazione, la quale non lo lasciò seguitare di camminar più in tal confusione e incertitudine, a un colle; il quale attraversasse di sorte questa valle, la quale gli aveva compunto più e più volte il cuore e la mente di paura, ch’ei non poteva seguitare più oltre il viaggio sui; ma gli era forza o uscir di strada o salire il colle. Per il che fare, alzando egli gli occhi, cioè cominciando a pensare e discorrere donde fusse venuto in lui nuovamente tal considerazione, conobbe come ella nasceva
Da quella Regina,
Che la parte divina
Tien di nostra natura, e in cima siede,
e che la sommità e il principio di tal discorso era vestito de’ raggi del pianeta,
Che mena dritto altrui per ogni calle,
cioè illuminato dai raggi di quella divina luce, la quale scorge per il dritto cammin della salute ciascheduno che vuole. Nè si può certamente intendere, per questo sole, altri che Dio ottimo e grandissimo, non si ritrovando cosa alcuna un questo universo, come scrive il nostro Marsilio Ficino in quel libro che egli fa De sole et lumine, che si assomigli più a Dio, che il sole; non tanto per quella similitudine generale, ch’egli ha con esso Dio per essere cagione della generazione continova di tutte le cose sullunari (onde fu chiamato dal nostro Poeta nel Paradiso
Lo ministro maggiore della natura),
quanto per rappresentare egli distintamente le tre persone della santissima Trinità. Imperochè con la sua potenza egli rappresenta il Padre, con la luce il Figliuolo, e con il calore lo Spirito Santo. Cognobbe adunque il Poeta nostro, che questo discorso, che l’aveva fatto accorgere della confusione nella quale egli si ritrovava, nasceva da l’anima sua intellettiva; la parte superiore della quale è illuminata da il lume e da la similitudine e bontà di Dio, sparsa per tutte le cose di questo universo a guisa de’ raggi del sole, ma molto più nell’anima nostra, per essere ella stata creta da lui, per mera liberalità sua, molto più capace di quella, che l’altra creature. Mediante il quale lume noi intendiamo le cose terrene, le sustanze divine, e conosciamo perfettamente noi stessi. Onde fu detto a tal proposito da Davit profeta nel salmo quarto, rispondendo a quella interrogazione: Quis ostendet nobis bona? Signatum est super nos lumen vultus tui. E qui è particularmente da notare che il dire Dante, che vide i raggi del sole, e mediante quegli venne dipoi in cognizion d’esso sole, non vuole inferire altro, se non ch’ei non si può venire, mentre che l’uomo è per il cammin di questa vita, in cognizione di Dio, se non per mezzo de’ raggi della potenza, sapienza e nontà sua, comunicati e sparsi nella più alta e più nobil parte di tutte le creature. Imperochè così come il sole, per esser sensibile troppo potente e troppo grande, supera di tal sorte la virtù nostra visiva, che l’occhio nostro non può ragguardarlo; così ancora Dio, per essere intelligibile troppo alto e troppo profondo, supera di sì gran lunga l’intelletto nostro, ch’ei non può contemplare l’essenza sua propria, ma solamente gli effetti che procedono da quella; onde gli bisogna tener quel modo nel cercar di conoscere Dio, che tengono gli uccegli notturni nel ragguardare la luce. I quali desiderando vederla, come cosa la quale è amata naturalmente da ciascuno, e conoscendo di non poter per la debolezza della loro vista sopportarla quando ella è il giorno sparsa per l’aria, si stanno racchiusi per le grotte e per le caverne della terra; e dipoi escon fuori la notte a vederla nelle stelle, nelle quali essa risplende participata e temperata di sorte, che i loro occhi posson sopportarla. Così bisogna ancor similmente che l’intelletto nostro non cerchi di conoscere Dio in lui stesso e nella essenza sua pua propia; chè gli avverrebbe a lui come a quel filosofo, che dimandandogli Dionisio più volte quel che fusse Dio, chiedeva sempre maggior spazio di tempo a rispondergli, dicendo che quanto più vi pensava, tanto gli pareva più difficile il conoscerlo. Ma gli bisogna contemplarlo in queste creature de l’universo,
Che son scala al fattor chi ben l'estima,
come disse non manco dotta che leggiadramente il nostro M. Francesco Petrarca. Da questi raggi adunque della divina bontà conobbe il nostro Poera, che la ragione, parte sua superiore, era illuminata da il lume del sole divino; per la qual cosa discacciò alquanto da sè la paura ch’egli aveva avuta fino allora, come segue il testo, e prese ferma e certa speranza d’avere a uscire delle tenebre della confusione, e d’avere a ritrovar la diritta strada. E se qualcuno si opponessi, dicendo che Dante non potette avere ancor questa speranza che io dico, non avendo egli avuto ancor dal cielo quel lume della fede, il quale io ho detto che gli fu mandato dipoi da la bontà divina per ordine di Beatrice (tenendo di comune concordia tutti i nostri teologi, che chi non ha fede non possa avere speranza, ma che l’una presupponga di necessità l’altra; conciosia che ei non si possa sperare una cosa della quale altrui non abbia cognizione, e l’obbietto della speranza sia vita eterna e Dio, che si conoscon veramente per fede), io gli rispondo che Dante aveva ancora egli, innanzi che egli avesse questa speranza, avuto in virtù il lume della fede; conciosia che subito che egli, accorgendosi della confusione nella quale egli si ritrovava, e ragguardando donde procedeva tal cognizione, conobbe ch’ella nasceva dal discorso della ragione illuminato particularmente da’ raggi della luce e della bontà divina; onde venne a cominciare a conoscere Dio, non più come motor primo, o come cagione universale di tutte le cose, come lo conosce la filosofia, ma come Dio suo salvatore, e che teneva conto particulare e di lui e della salute sua propia, come lo conosce la fede; per il che cominciò a sperare di avere a ritrovar la strada diritta, e conseguentemente cominciò a mancare in lui alquanto la paura. E perchè questa fede, la quale egli ebbe nel modo che io vi ho detto, non fu ancor quella fede vera e perfetta, informata di carità, la quale fa che chi l’ha non ama e non spera se non in Dio, ma fu più tosto una disposizione e uno seme e principio di quella, ei non mostra ancora che la paura, ch’egli aveva avuto fino allora, si partisse da lui affatto, ma solamente ch’ella mancasse e fermassisi in parte, dicendo:
Allor fu la paura un poco queta,
Che nel lago del cuor mi era durata.
Dove lasciando da parte quel che, ricercando qual sia questo lago del cuore, raccontino gli espositori, dicendo che il cuore ha tre ventricoli, che in quel del mezzo ha la perfezione sua il nutrimento, e de’ due estremi l’uno è recettacol del sangue che si trae da il fegato, e l’altro dello spirito che tirano i polmoni; e così ancor similmente l’opinione dell’interprete moderno, il quale dice che Dante chiamò il luogo, dove sta il cuore, lago metaforicamente rispetto a l’acqua, la quale è stata posta da la natura in quella cassetta, ove sta propiamente il cuore, per rinfrescamente del calor grandissimo di quello, chiamandosi comunemente, nella nostra lingua, tutte l’acque ragunate e ferme laghi; dico che io non penso, che il Poeta dicesse tanto lago per rispetto de’ ventricoli e dell’acqua sopradetta, quanto per rispetto del sangue che gli era ricorso (per essere suo costume nelle paure di fare così) nuovamente intorno al cuore. Per più piena notizia della qual cosa è da sapere, che ricercando dottissimimamente Donato Acciaiuoli, espositore d’Aristotile sopra l'Etica, per qual cagione gli uomini diventino nelle paure pallidi, e nella vergogna rossi, dice finalmente ch’ei procede da questo, che facendo la natura e’ nostri corpi quei medesimi ufficii, che fa in una città ch’egli ha a guardia un prudente e accorto capitano (il quale manda sempre più combattitori dove si sente più offenderla), manda ancora ella similmente il sangue a soccorrere e difendere quelle parti dove ella sente offenderci. E per tal cagione mandandolo ella ne’ pericoli al cuore, il quale è la sedia della vita, gli uomini diventan pallidi e senza colore, rimanendo le estremità e le superficie del corpo loro in tal caso o senza sangue o veramente con pochissimo. E mandandolo dipoi nelle vergogne nel volto, per far quasi a quello un velo che lo ricuopra (essendo egli la sedia della vergogna, e quel che teme più che parte alcun’altra del corpo l’esser disonorato), gli uomini per il contrario diventan rossi e coloriti. Nè vo’ lasciar di dire qui a questo proposito, per modo di digressione, leggendo io un poeta cristianissimo, a consolazione degli spiriti contemplativi cristiani una bella e non manco fisica che pia ragione, la quale adduce un teologo moderno, del sudare che fece Cristo salvator nostro, nel tempo della sua passione, o sangue o sudore simile al sangue; il che nacque, dice questo teologo, perchè rappresentandosi egli nella mente la morte crudelissima e obbrobriosissima ch’egli doveva sopportare, gli venne, come a quel ch’era vero uomo, tanto timore di quella, che il sangue gli ricorse subitamente tutto al cuore; per il che egli andò a orare nell’orto, pregando strettamente il Padre di non bere (se egli era possibile) così amaro calice. Ma intendendo dipoi che la volontà del Padre era che sopportasse tal morte, dice questo teologo, ch’ei si dispose con tanta prontezza a obbedirlo, ch’ei discacciò con tanto empito quel sangue, il quale gli era ricorso al cuore, nella superficie del suo corpo, che alcune parti più sottili di esso sangue uscirono de’ pori della carne e della pelle;’ et factus est sudor eius sicut guttae sanguinis, come dice Luca nel suo Evangelio. La qual cosa avendo noi detta, per la cagione detta di sopra, così per modo di digressione, e ritornando al proposito nostro, dico che il senso di questo luogo è, ch’ei si quietò e fermò alquanto nel Poeta quella paura la quale gli era durata in quel sangue, il quale gli era ricorso facendogli quasi che un lago intorno al cuore
La notte che ei passò con tanta pieta,
cioè quella notte ch’ei consumò, smarrito per la selva, con tanto duolo e con tanto aspro e duro lamento; chè così significa questa voce pièta con l’accento in su la e, come si vede poco di sotto, quando Lucia disse a Beatrice di lui:
Non odi tu la pièta del suo pianto?
Dopo la qual cosa, volendo egli narrare ancor meglio la disposizione nella quale egli si ritrovasse, egli usa una comparazione molto bella e molto atta e a proposito a manifestare il concetto suo, dicendo:
Nella qual comparazione è primieramente da notare, che questa voce lena significa appresso di noi quel medesimo che fa appresso i latini respiratio, il che è quel tirare dentro di loro e dipoi rimandar fuori aria, che fanno continovamente gli animali che hanno i polmoni; la qual cosa noi diciamo volgarmente alitare, chiamando quella tale aria alito da alo, verbo il qual significa appresso i latini nutrire; conciosia che tale aria concorra di tal volta ch’ei si manca o per qualche accidente, o per vecchiezza naturale, la quale disecca tanto i polmoni, ch’ei non posson più fare tale opera di potere alitare, si manca ancor similmente di vivere. E fu data questa tal passione del respirare a gli animali che hanno i polmoni per refrigeramento del cuore, che non consumassi troppo presto col suo calore l’umido radicale; e però non posson vivere senza far tal cosa. E quegli che sono animali d’acqua che abbin polmone, come sono verbigrazia il Vecchio marino, le Testuggini acquatiche e la Rana, e secondo alcuni il Delfino, non possono star lungamente sotto l’acqua, ma bisogna ch’eglino eschin fuori a respirare. E questa è la cagione per la quale ei dicono che il Delfino si vede saltare così spesso fuori dell’acqua; il che non avviene a gli altri pesci, ai quali la natura ha provveduto ch’ei serva a far loro il medesimo ufficio l’acqua; per il che eglino ne tiran continovamente dentro di loro della nuova per certi buchi ch’eglino hanno sotto quelle branche, che noi chiamiamo vulgarmente alette; per la qual cagione, non servendo ai pesci l’aria per respirare, ei non possono vivere fuori dell’acqua; e gli altri animali, non servendo loro l’acqua, non posson vivere ove non è l’aria. E perchè quando l’uomo (lasciando andare, per non fare al proposito nostro, gli altri animali) si affatica o nello sudare o in qual si voglia altra cosa più che l’ordinario, il calore suo del cuore si eccita e infiamma più che il solito, ha bisogno di maggior rinfrescamento che prima; la natura muove ancora ella allora i polmoni più spesso a tirare dell’aria nuova, e rimandarla, per riscaldarsi ella più presto ch’ella non faceva prima, subitamente fuori. E per questa cagione dicono alcuni, che i Delfini, quando egli ha a essere fortuna in mare, cavan più spesso il capo fuori dell’acqua, ch’ei non sogliono. Imperochè essendo eglino affaticati più che il solito da la quantità grande delle esalazioni, che getta allora fuori la terra del fondo del mare, donde nascon dipoi i venti che fanno fortuna, hanno ancora eglino più spesso bisogno di respirare. E questo tale affrettamente di respirare è chiamato vulgarmente da noi affanno; per la qual cagione quegli uomini, che se bene e’ duron fatica, non hanno bisogno di repisrare sì spesso, si chiamano volgarmente di buona lena; e quegli che per il contrario cascano per ogni minima cosa in tale affannom di poca lena. Per la qual cosa si piglia ancora spessissime volte lena per la forza e per il vigore, come fece il nostro M. Francesco Petrarca, quando disse:
Onde tolse Amor l'oro, e di qual vena,
Per far dua treccie bionde, ed in qual spine
Colse le rose, e in quai piaggie le brine
Tenere e fresche, e diè lor polso e lena?
E perchè chi ha a passare qualche gran quantità e profonda d’acqua (chè così significa nella nostra lingua pelago) cade, mediante lo affaticarsi, in tale affanno, il Poeta disse:con lena affannata, cioè affaticata e stracca; che è il propio significato di questa voce affannata. E così l’usò ancora il Petrarca, quando disse:
Deh porgi mano all'affamato ingegno;
Drizza a buon porto l'affannata vela.
Dice adunque finalmente il Poeta e fa questa comparazione, che come uno, ch’esce stracco e affannato di qualche pelago d’acqua, si ferma di poi in su la riva a ragguardare l’acqua e il pericol dond’egli è uscito, così l’animo suo, il quale ancor fuggiva (imperochè ei non era ancora uscito della selva, o veramente ch’era pien di tanto spavento, ch’e’ pareva che ei non restassi di fuggire; modo di parlare assai frequentato da noi, usando noi dire, quando uno per qualche paura o altra cagione si fusse fuggito velocissimamente: ei pare ancor che ei fugga), si fermò, e voltossi indietro a ragguardare donde egli era uscito, e il difficile e pericoloso passo,
Che non lasciò giammai persona viva.
Questo verso è, secondo il mio giudizion, molto oscuro e difficile a esporre. Per la qual cagione sono ancora molto diverse e molto varie, intorno al senso di quello, le opinioni degli espositori. Imperochè il nipote del Poeta, e il Leneo bolognese (i quali tengon, come io vi dissi, che la selva, nella quale si ritrovò smarrito Dante, fusse il viver licenzioso e vizioso) intendono ancor qui, per morte, la morte del peccato, morte spirituale de l’anima, come dicon le lettere sacre; onde espongono: il qual passo non lasciò già mai persona viva, cioè non lasciò mai passarsi da persona, che mentre ch’ella camminava per esso cammino de’ vizii, vivesse spiritualmente; da la qual morte e’ dicono poi, che risuscita ciascuno che si purga da essi vizii e piglia il cammino della virtù e delle buone operazioni. E il Landino, che intende per essa selva l’ignoranza, vuol che quella persona viva sia nominativo agente, ed esponlo così: il qual passo non lasciò mai persona alcuna viva, cioè non fu mai uomo che vivesse, che non lo passasse; non si potendo, nè essendo possibile di ritrovar mai alcuno, che per qualche tempo, e se non altrimenti, mentre che dopo il suo nascimento egli non conosceva distintamente cosa alcuna, non passasse per il cammin della ignoranza. Ma io, salva la reverenza di tutti questi espositori, conoscendo non si potere espor meglio uno scrittore, che con le parole sue medesime, dico ch’egli intende qui ne l’uomo, per morte (come egli fa ancor nel Convivio sopra a quel verso:
E tocca a tal, che è morte e va per terra)
il non usare la ragione, ed espongolo così: Il qual passo non lasciò mai uomo alcuno vivo, mentre ch’ei lo passava, cioè usare la ragione, non si potendo mai dire in verità, che chi vive irrisolutamente, e senza fine, usi la ragione. E perchè ei bisognò che nel ragguardare tal passo ei si fermasse alquanto, ci soggiugne:
Poi che posato alquanto5 il corpo lasso;
cioè da poi che io ebbi dato, fermandomi, alquanto di riposo al corpo mio lasso e affaticato, dando tempo a la natura di generare de’ nuovi spiriti in luogo di quegli che si erano consumati in quello affaticarsi,
Ripresi via per la piaggia diserta.
Piaggia chiamiamo noi nella nostra lingua quei luoghi e quegli spazii del terreno, i quali sono fra il fine delle pianure e l’erte gagliarde delle montagne; che si elevano e s’inalzano alquanto da ’l piano, e cominciano a salire così un poco dolcemente verso il monte, senza avere in loro ripe o tagliate difficili a passare, come hanno spesse volte le montagne; a similitudine delle quali sono dipoi chiamate ancor da noi le piaggie (o spiaggie con l’aggiunta di uno s) quei liti che scendono dolcemente nel mare, come salgon quelle dolcemente a le montagne, e che non hanno ancora eglino in loro scogli o ripe o porti, ove possino entrare e accostarsi le navi; per il che dice il Poeta, volendo significare che quando ei ricominciò a camminare, che prese la via del monte, che riprese la via per la spiaggia; chiamata da lui deserta, cioè abbandonata e solinga, per essere molto più quegli che camminono per la selva descritta da lui, che quegli che cercano di salire al monte illuminato dai raggi della sapienza divina; verso il quale volendo egli dimostrare che seguitò di camminare, aggiugne:
Si che il piè fermo sempre era il più basso.
IMperochè se quel piede, ch’ei fermava per regger sopra quello il restante del corpo, era sempre fermo da lui in luogo più basso che quel ch’ei moveva per tirarsi poi dietro esso corpo, ei bisognava di necessità, ch’ei camminasse a l’erta. Conciosia che, camminando al piano, ei sarebbono stati e l’uno e l’altro al pari; e camminando a la scesa, ei sarebbono stati e l’uno e l’altro al pari; e camminando a la scesa, sarebbe restato il più alto quel che restava fermo. Per miglior notizia della qual cosa, e per scoprire ancor maggiormente la dottrina e l’arte che ha usato in questo luogo il Poeta, è da sapere che tutti i moti, coi quali si muovon gli animali che hanno da la natura di potere andare da un luogo a un altro, si fanno, secondo i Peripatetici, parte pignendo e parte tirando. E lasciando per ora da parte il mostrare ch’ei camminono ancor così quei che non hanno piedi (come son le serpi, che pingono avanti la lor parte dinanzi, e poi l’appiccano con certe scaglie che servon loro in luogi di piedi, e dipoi tiran quella di dietro) e così ancora quei che hanno più che due piedi, e pingon sempre innanzi la metà di quegli, e conseguentemente quella parte del corpo a la quale e’ son appiccati, e poi si tiran dietro l’altra; e tornando a l’uomo, ciascuno può vedere in sè stesso, che quando ei vuole andare, ei muove prima la parte destra (chiamata così, per essere ella sempre la prima a muoversi; ond’è chiamato metaforicamente ancora da gli astrologi l’oriente la parte destra del cielo, per parere che di quivi abbia principio il suo movimento) e pignela innanzi, e di poi tira al pari di quella l’altra. E che la parte sinistra sia fatta da la natura più per fermarsi che per muoversi, si conosce chiaramente da questo, che l’uomo quando egli si ferma, si ferma sempre o il più delle volte sopra il piè sinistro; così se egli ha a portare un peso, lo metterà sempre da la man sinistra, per aver più spedita e libera la destra al muoversi. E oltre a di questo bisogna ancora avvertire che l’uomo non potrebbe mai camminare, se ei non avesse dove posare quel piede rimane fermo, quando ci muove l’altro. E di questo può fare esperienza chi vuole, salendo sopra a un monte di miglio o d’altra cosa simile, che ceda e dia luogo al piede; ove ei vedrà, che infino a tanto che ei non ferma un piede, ci non potrà mai muovere l’altro. Per il che fu detto da Aristotile, che certi topi terragnoli, che nascono presso al Nilo, non acquistano punto camminando sopra la rena di quello; e questo nasce perchè elle cede di sorte, ch’ei non posson fermare i piedi. La qual dottrina seguitando, come buon peripatetico, il Poeta nostro, dice, per volere mostrare che camminava, come io ho detto, a l’erta e a l’insù, che il piè che restava fermo era sempre più basso che l’altro. E questo è il senso litterale di questo luogo; il quale interpretando alcuni altri allegoricamente, dicono che egli intende per i piedi gli affetti dell’ anima; per il che fu detto da lui nel Purgatorio, parlando dell’amore:
E l'anima non va con altro piede;
volendo dimostrare che aveva sempre, mentre ch’egli fu in quello stato, lo amore ed il desiderio fermo nelle cose basse e terrene. E qui sia fatto per ora fine a questa lezione.