Letture sopra la Commedia di Dante/Lettura prima/Lezione seconda

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LEZIONE SECONDA


Quattro furono, uditori nobilissimi, come voi sapete, le cose le quali io dissi che mi pareva necessario considerare in questa opera di Dante, per poter di poi intenderla più facilmente, innanzi che io cominciassi a esporre e interpretare il testo. Delle prima due delle quali avendo io, per quanto si estendon però le mie forze, trattate a bastanza nella lezion passata, e volendo oggi, come ricerca l’ordine preso da me, ragionar de le altre due, incominciandomi da la terza, che fu la dichiarazione del titolo d’essa opera, il quale è Comedia di Dante Alighieri; cittadino fiorentino, dico primieramente ch’ei non è dubbio alcuno che Dante chiamassi questa sua opera Comedia, o vero Comedìa con lo accento in su lo i, avendo egli detto nel sedecimo capitolo de l'Inferno queste parole propie:

ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s'elle non sien di lunga grazia vòte,

e dipoi ancor similmente, nel ventesimo:

Così di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedìa cantar non cura,

Ma egli è ben duro e difficile a sapere la cagione per la quale egli la chiamasse così, atteso e considerato che questa sua poesia, per le condizioni che si ritruovano in lei, apparisce più tosto di quel genere che Aristotile chiama Epopeia, che Comedia; nè essendo però ancora da pensare in modo alcuno, [p. 38 modifica]che uno uomo di tanto ingegno e tanto dotto non conoscesse tal cosa; nè manco ancor ch’ei non vedesse, ch’ei poteva chiamarla con un nome più propio, come egli accenna in qualche luogo di quella, chiamandola viaggio e cammino, e nel diciassettesimo capitol del Paradiso visione, facendosi dire a M. Cacciaguida, suo avolo, queste parole:

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;


E che questo suo poema apparisca più tosto epoeio ed eroico, che comedia, si cava chiaramente da le Poetica d’Aristotile. Nella quale, considerando egli come i modi dello imitare sono varii, divise essa imitazione (nella quale consiste tutta la poesia) in varii generi, ponendo a ciascuno un nome particolare da per sè, come è verbigrazia Tragedia, Comedia, Mimica e simili, fra i quali è uno l’Epopeia o vero Eroica. E questa è, secondo che dice egli, una pura e sola narrazione, la quale abbraccia e contiene diverse favole, e diversi e varii casi, fatta in persona propia del poeta stesso, il quale narra e racconta egli tali cose; e la bellezza sua consiste, primieramente nello accozzamento e nell’ordito di detti casi; e poi nella testura e nel saper bene e con ornato e conveniente stile raccontargli e narrargli, facendo che il principio e il mezzo di tal poema sieno di tal sorte convenienti in fra loro, e di poi corrispondino in tal maniera col fine, ch’egli non apparisca, come scrive Orazio nella sua Poetica, un capo d’uomo sopra a un collo di cavallo, o una testa e un petto di femmina che finisca in pesce, o uno altro mostro simile. E perchè voi intendiate ancor meglio tal cosa, voi avete a sapere, che se bene tutti quegli che imitano, imitano solamente quelle azioni le quali si odono e veggono tutto il giorno, i modi nientedimanco, co’ quali eglino imitano tali cose, sono molto varii e diversi in fra di loro. E lo intenderete a punto da questo esempio. Sieno due poeti, l’uno de’ quali sia epopeìo ed eroico, e l’altra tragico, e voglino rappresentar verbigrazia le azioni di Ercole o di Priamo o di qualsivoglia altra persona. Certo è, che lo Epopeio descriverà lui e narrerà di tal maniera le azioni sue, ch’ei lo [p. 39 modifica]rappresenterà di tal sorte a l’immaginativa e a la mente degli uditori, ch’ei parrà loro propiamente averlo dinanzi agli occhi. Dove il Tragico, da l’altra banda, fingendo la persona sua propia, lo rappresenterà e farà venire in su la scena, e faragli dire tutto quel che gli occorrerà. Questi due modi de lo imitare, se bene ci rappresentano amendue una persona medesima, son tanto diversi infra loro (imperochè l’uno la descrive, e l’altro la rappresenta si può dire personalmente), ch’eglino hanno ancora avuti diversi nomi; e il primo è stato chiamato epopeio ed eroico, e l’altro tragico. Trovandosi adunque in questo poema di Dante tutte quelle condizioni che si convengon a l’epopeio, conciosia che la persona del Poeta sia quella che narra e racconta il tutto, pareva ch’ei dovesse chiamarla di gran lunga più tosto Epopeia, che Comedia; e dipoi ancor più tosto Tragedia, trovandosi in quella una infinità di casi tragici, come son verbigrazia la morte di Paulo e Francesca da Rimini, del Conte Ugolino, della Pia sanese, di Manfredi e di molti altri; e de’ comici, che son travagli e inganni di ruffiani, di meretrici e d’altre simili persone basse, descritti dai Comici per ammaestramento della vita privata, rari o pochissimi. E da l’altra banda non è da pensare, come noi dicemmo di sopra, che Dante la chiamasse Comedia a caso, e senza qualche ragionevol considerazione. Il suo nipote, allegato da noi di sopra, considerò ancora egli nel suo comento questa cosa. Nientedimanco egli ne disse solamente questa parola, che Dante aveva chiamato questo suo poema Comedia, perchè ei comincia ancora egli in travaglio e in dolore, e poi finisce in letizia e in allegrezza, come fanno le comedie; cominciando egli dal travaglio del ritrovarsi smarristo nella selva, e da il dolore dell’Inferno, e finendo di poi nella gioia e nella letizia del Paradiso.

Sono stati dipoi alcuni altri, e particularmente l’interpetre moderno, i quali dicono ch’ei la chiamò Comedia, non tanto per quella similitudine con la comedia, quanto per quelle particulari ch’ella ha con tutte le altre le sorti1 delle comedie, cioè con l’antica e libera, [p. 40 modifica]con la mezzana e velata, e con la moderna e piacevole. Il che non potendo dimostrarsi, s’ei non si ragiona prima alquanto delle comedie e della origine loro, diciamo, rimettendoci a coloro che ne hanno scritto, brevemente così. Ch’egli era giù anticamente appresso degli Ateniesi un costume, che quei contadini, i quali si sentivano oltraggiati e sopraffatti da i potenti e da’ grandi, andavan la notte lamentandosi fortemente su pe’ canti delle strade, nelle quali stavan coloro da chi ei si sentivan così sopraffatti e ingiuriati, nominandogli a uno a uno per il lor nome propio. Da la qual cosa nasceva che veggendosi quei tali, che eran così nominati, reputare da gli altri infami e malvagi, si astenevano, vergogandosi di loro stessi, da fare di poi più simil cose. Parendo adunque a gli Ateniesi molto utile rimedio questo trovato da’ contadini per raffrenare e correggere quegli insolenti e incivili che cercan di sopraffare sempre gli altri, cominciarono a chiamare detti contadini nelle città e costringerli a far publicamente di giorno (ma col viso tinto di feccia di vino e d’altre cose simili, acciochè ei non fosser così facilmente conosciuti) quel ch’ei facevan prima da loro e al buio la notte. La quale usanza, presa in breve da i poeti di quei tempi, fece ch’e’ cominciarono ancora eglino, s’ei conoscevano alcun grande insolente o ingiurioso, a vituperarlo pubblicamente nelle loro composizioni. Ma cominciando a dispiacere grandemente tal costume, fu tolta e levata via questa licenza, e massimamente poichè Alcibiade, cittadino d’Atene, e general dell’armata che andò in Sicilia, fece pigliar Eupolo poeta,, il quale aveva detto in certe sue comedie mal di lui; e fattoseolo condurre alla nave, lo fece gittare in mare, dicendogli: io farò bene io lavare a te il capo in queste acque d’altra sorte, che non hai fatto a me tu nelle tue comedie. Ritiraronsi adunque i poeti dal dire più male scopertamente di persona, e dettonsi al mordere copertamente con detti argutissimi e pungenti. La qual cosa dispiacque ancora ella tosto, onde fu vietato ancor loro questo modo; per il che lasciando eglino al tutto stare i potenti e i grandi, si dettero a morder piacevolmente, e quasi per modo di scherzo e di piacevolezza, i poveri e le persone vili e basse. E questo intervenne ancora non manco a’ poeti romani, [p. 41 modifica]che ai greci; conciosia che Nevio fusse, per aver detto mal di Scipione Africano, fatto pigliare da il Triunvirato, e tenuto molti anni in carcere; e nientedimanco si dilatò e crebbe di poi ancor tanto questa licenza del mordere, che i Censori la proibirono per legge pubblica. Laonde i poeti, come dice Orazio in quella epistola ch’egli scrive ad Augusto, si rivolsero tutti, per paura del bastone, a dir bene e a dilettare. Queste così fatte variazioni partorirono tre sorti di comedie: l’antica e libera di Eupolo, la quale mordeva scopertamente; la mezzana di Aristofane e di Cratino, la quale faceva ancora ella il medesimo con detti argutissimi, ma alquanto coperti; e la ultima di Menandro, la quale scherzando e motteggiando nelle persone private e basse, accennava più tosto ch’ella toccasse persona alcuna nel vivo. E questa fu di poi approvata da il pubblico, e imitata per più bella e più dilettevole da Plauto e da Terenzio, ancor che i Romani, ritenuti da quella grandezza la quale pareva loro che ricercasse la lor lingua, non si abbassarono mai tanto in simili concetti particulari, quanto fecero i Greci. La qual cosa considerando il dottissimo Poliziano, disse nelle sue Selve:

Claudicat hic Latium, vixque ipsam attingimus umbram
Cecropiae laudis; gravitas Romana repugnat2

E fu chiamato questo poema Comedia da "comos" e ode, che significa canto villanesco, secondo i più. E tanto sia detto per ora a sufficienza della comedia, bastandoci per il proposito nostro; chè l’autore ha chiamata questa sua opera Comedia metaforicamente, sì per avere scoperti in quella molti vizii d’uomini grandi, chiamandogli per il lor nome propio, onde ella è simile a l’antica; sì per averne ripresi alcuni altri, e biasimate molte cose con detti coperti e arguti, onde ella è simile alla mezzana; e sì per esser piena di quei travagli e di quelle [p. 42 modifica]difficultà che accaggiono tutto il giorno agli uomini, onde ella è simile alla terza.

Aggiugne a queste ragioni Carlo Lenzoni in quella defensione ch’ei fa di questo poeta, parlando di tal cosa, ancora queste altre. Che se bene il fine di Dante fu in questa sua opera di giovare, come noi dicemmo di sopra, il più ch’ei poteva, dilettando chi lo leggeva, egli aveva ancora di poi per secondo fine di onorare, il più ch’ei poteva, la sua Beatrice, avendo ei detto di lei, nel fine della sua Vita nuova, che se Dio gli prestava vita, che sperava dir di lei quello che non era mai stato detto di persona alcuna. Volendo egli adunque, per sadisfare a questa sua promessa, introdurre in questa sua opera Beatrice, come donna onestissima, viruosissima e amata grandemente da lui; onde non poteva introdurre altri che sè stesso, volendo osservare tal proposito, a ragionar di lei; e non avendo nome che comprendesse e abbracciasse insieme l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso; nè manco volendo formarne un nuovo a la greca o a la latina dal nome suo (essendo egli in detto poema la persona principale) chiamandaola Danteida, per che ei non togliessi e scemassi di grado a l’opera; o apparissi cosa troppo nuova a gli orecchi degli uditori; nè volendo ancor manco chiamarla Cammino o Visione, o con un altro simil nome basso; pensò pigliarne uno che fuggisse la novità de l’uno e la bassezza de l’altro, e che esprimesse niente di manco con qualche grazia, se non in tutto, almanco in parte l’animo suo; per il che prese questo di Comedia, come onorato e venuto da’ Greci, le cose de’ quali si ammiravan grandemente in quei tempi. E poichè non avendo ancora gli uomini cognizion perfetta e distina della poesia, chiamavano tutte le azioni, ch’ei rappresentavano, o Comedie o Tragedie; Comedie se elle trattavan di cose piacevoli, e Tragedie se elle trattavan di cose infelici (come ne dimostrò chiaramente egli stesso, quandi disse nel trentesimo canto del Paradiso:

Da questo punto3 vinto mi concedo
più che già mai da punto di suo tema
soprato fosse comico o tragedo;

[p. 43 modifica]e avendo di più chiamato questo suo poema Comedia, e l’Eneide di Virgilio Tragedia; non è adunque maraviglia, se usandosi chiamare in quei tempi ogni poema, che rappresentava, Comedia o Tragedia, ei chiamò questo suo che aveva il fine lieto, e somigliava tutto a tre le sorti delle commedie, Comedia. E quando e’ l’avesse pur chiamata così alquanto impropriamente, soggiungne questo suo defensore, non sia più biasimato egli, che si sia Aristotile; il qual disse nel primo libro degli Animali, che la notizia dell’anima era e meritava per la sua chiarezza d’esser chiamata più scienza, che le altre; e nondimeno poi nel principio del primo libro di quella, dove era il luogo propio di trattarne, e’ la chiamò istoria. Onde Simplicio, suo espositore, se ne maraviglia, come di nome forse non così propio a casa e a luogo tale. La qual licenza non di meno non si concede debitamente, se non a simili uomini grandi, in quel modo che si fa ancor quella del viver più sontuosamente degli altri a le persone ricche, e quella del trapassare le leggi a le potenti; ed è tanto ancor più degna di sensa, quanto in quei tempi non si aveva notizia, o pochissima, delle lettere e delle cose de’ Greci, da i quali hanno avuto origine questi nomi e queste regole de la poesia. E questo basti per dichiarazione di questa parte del titolo Comedia; il che aveva solamente bisogno di dichiarazione. Imperochè il resto è chiarissimo per sè stesso; non essendo alcuno il quale possa dubitare ch’essa opera non sia di Dante, e ch’egli non fusse cittadin fiorentino, dicendo egli e l’uno e l’altro più d’una volta e in più d’un modo in quella. La vita del quale, ancora ch’ei sia costume de’ buoni espositori il farlo, non mi metterò io a raccontarel per che ella è stata scritta tanto diligentemente da ’l Boccaccio, da M. Lionardo d'Arezzo, da il Landino, da il Vellutello e dallo interprete moderno, che il trattarne io nuovamente, sarebbe com’e’ in proverbio fra i Latini, un portar rena al lito o acqua al mare. E però, passando senza perdere più tempo a l’ultimo capo de’ nostri preambuli, dico che il modo e lo stile, il quale usa il Poeta in narrare e scrivere in questa sua Comedia l’intenzione e il concetto suo, è modo e stile poetico, procedendo sempre per via d’imitazione e di [p. 44 modifica]esempii, e con le regole della poesia. La qual poesia è strumento e arte, e non scienza, come forse si pensano alcuni; e contiensi sotto la Logica. Per notizia della qual cosa, giudicando io non essere fuori di proposito, per maggior chiarezza del ragionamento nostro, farsi un poco più da altro, ed esaminar così alquanto quello che sia Logica, e come si contenga sotto di lei la poesia, dice brevemente così. Che tutti gli enti e le cose sono o reali o razionali. Reali son quelle che hanno lo esser reale, e che appariscon manifestamente al sensom come sono verbigrazia gli elementi, i metalli, le pietre, le piante, gli animali e l’altre cose simili, o veramente a l’intelletto mediante l’operazioni loro, come sono i motori de’ corpi celesti. E di queste, le cose reali son considerate da le scienze, ciascuna particularmente da quella della quale ella è subbietto. E se pure e’ si vede tal volta, che una medesima cosa è considerata da più scienze, come accade verbigrazia de’ corpi celesti, i quali son considerati da il filosofo, da il matematico e da l’astrologo, e l’erbe le quali sono ancora elleno considerate dal filosofo e da il medico, elle son considerate da loro sotto diverse considerazioni e sette varii aspetti. Imperochè il filosofo considera i corpi celesti come mobili e naturali; il matematico, come tondi e sottoposti a le passioni de’ corpi sferici; e lo astrologo, come più veloci e più tardi nei lor moti, e come quegli che producono, secondo la positura degli aspetti loro, quando uno effetto, e quando uno altro, in queste cose sullunari. E così anche similmente l’erbe son considerare dal filosofo, come animate d’anima vegetativa; e da il medico, come calde, fredde, secche e umide. E se pure ei le considera così ancora il filosofo, le considera per sapere la natura loro, e non per applicarle a l’infermità umane, come fa il medico. E perà fu detto da ’l Filosofo, che tante quante sono le cose, tante sono ancor similmente le scienze. Ma per che ei non fa per ora al proposito nostro il ragionar di queste cose reali, noi le lasceremo da parte, e torneremo a le razionali; le quali sono i pensamenti e i concetti de l’animo e dell’intelletto nostro; detti così, per esser fabbricati e fatti da la ragione e da quella parte nostra, la quale discorre, e mediante la quale [p. 45 modifica]noi siamo uomini. Imperochè noi non siam chiamati e non siamo uomini per aver l’intelletto; perchè s’ei fusse così, ei sarebbono uomini ancor gli Angeli; ma per avere una potenza, la qual non hanno gli Angeli, chiamata discorso o vero ragione. La quale è una operazione dell’intelletto nostro, mediante la quale, partendoci e incominciandoci dalle cose che noi intendiamo, noi acquistiamo a parte a parte la cognizione di quelle che noi non intendiamo. Il che non avviene a gli Angeli, i quali intendon subitamente tutto quello ch’eglino intendono per operazione sola intellettiva, e senza raziocinare o discorrere, in quel modo che facciamo ancor noi certe degnità e certi primi principii; per il che gli Angeli sono chiamati creature intellettuali; e noi ragionevoli. Questi concetti adunque, che fabbrica la ragione e il discorso nostro, son le cose razionali; le quali sono considerare e son subbietto di quella che noi chiamiamo Logica, detta così da logos, voce greca la quale significa nella nostra quanto dire sermone; onde potrebbe esser chiamata giustamente da noi sermocinativa; mediante le regole della quale si discerne e conosce in essi nostri concetti, o nelle parole delle4 quali noi usiamo in manifestargli, il vero e il falso. E fu trovata quest’arte, secondo che scrive Boezio sopra Porfirio, da i filosofi; perchè accorgendosi eglino, come eglino incorrevan nel ricercar le cagioni delle cose e nel filosofare in molti inconvenienti, concludendo nel disputare, che molte cose stessero in un modo, ch’ei vedevan poi con la cognizion sensitiva ch’elle stavano in uno altro, si risolvettero che tal cosa non potesse nascere, se non da il non saper disputare, e ch’ei fusse necessario trovar qualche modo o regola, che insegnasse far loro tal cosa; concludendo, che se la ragione regolava tutte l’altre potenze de l’animo nostro (di maniera che elle conseguono, adoperando debiti mezzi, o sempre o il più deòòe volte nelle operazioni loro ciascuna quel fine ch’ella si è proposto; il che sono propiamente l’arti; e quelle che si esercitano col corpo, per essere egli servo de l’anima, come son le meccaniche e fabbrili, [p. 46 modifica]si chiaman servili, e quelle che si esercitano con l’animo e con l’intelletto, come sono le scienze, si chiamano liberali), che ella potesse amcor regolare sè stessa nel discorrere e nel disputare, il che è l’operazione sua propria. E veggendo accadere bene spesso, che di due che disputavano, l’uno, come scrive Aristotile nella Retorica, lo faceva assai meglio che l’altro, ancor ch’e’ lo facesser tuttadue naturalmente e senza arte alcuna, giudicarono ch’ei si potesse notar quei modim i quali usava quel che disputava meglio, e porgli per precetti e per regole di tale arte; e così inanimiti da tali motivi cominciarono a dare opera con tanto studio a tal cosa, ch’ei trovaron finalmente la Logica; la quale, per non considerar cose, come noi dicemmo di sopra che fanno le scienze, ma per indirizzare e regolare i concetti e i discorsi nostri di maniera ch’ei si discerna il vero da il falso, viene a essere arte. E perchè, mediante lei, si generano e si fanno in noi le vere e perfette scienze delle cose (conciosia ch’ella serva a discernere il vero da il falso in tutte) essa si chiama ancor di poi organo, o veramente istrumento. E perchè tutti i concetti razionali, i quali sono, come si è detto di sopra, il soggetto d’essa logica, sono o sempre veri, come son quegli degli universali e delle cose che non si mutano o variano mai; o ei son quando veri e quando no, come son quei delle cose che si mutano e variano; o ei non son mai veri, come son quei delle cose false; Aristotile la divise in tre parti principali, chiamando quella prima, la quale si esercita circa alle cose che son sempre vere, procedendo similmente con demostrazioni e argomenti veri, demostrativa; e quella che si esercita circa a le cose contingenti, e quando vere e quando no, e procede con argomenti e ragioni verisimili e probabili, dialettica; e la terza che si esercita circa quel che è sempre falso, e procede con argomenti sofistici e solamente apparenti, sofistica. Sotto la seconda delle quali parti, che si maneggia, come io ho detto, intorno a quel che è quando vero e quando falso, si contengono e la Rettorica e la Poetica; ciscuna delle quali insegna persuader l’intenzion sua, ma per diversi mezzi. Imperochè la Rettorica, chiamata altrimenti Arte oratoria, procede e usa per [p. 47 modifica]mezzi, segni, conietture, e certi sillogismo imperfetti, chiamati da gli oratori Entimenti; e la poesia usa per mezzi la imitazione e lo esempio. Uso adunque Dante, per manifestare il concetto di questo suo poema, il modo poetico, principalmente per tre cagioni; la prima per titare maggior numero di uomini a lo studio di essa sua opera; la seconda, perchè eglino apprendessero più facilmente quel ch’era l’intenzion sua d’insegnare loro; e la terza, perchè ci ritenessero con maggior facilità, per più lunghezza di tempo, ciò ch’eglino imparavano da quella. Le quali tre cose fa grandemente la poesia. Conciosia cosa che i poeti, parlando della maggior parte, descrivino e adornino i loro concetti di tante finzioni, favole, sali, fiori, figure e modi leggiadri di dire, che arrecan tutti dolcezza e diletto a gli orecchi degli uditori, ch’ei son pochi quegli uomini che non si dilettino di leggergli. E oltre di questo ciò che s’impara da loro s’impara facilmente; e la cagione è, per insegnarla eglino per via d’imitazione, della quale si diletto molto naturalmente l’uomo; e questo nasce, come scrive Aristotile nella Poetica, per essere stato fatto l’uomo da la natura molto più atto a imitare, o volete con la voce o volete con la persona e con i gesti, tutto quello ch’egli ode o vede, che qual si voglia altro animale; e ne dà segni manifestissimi nella sua fanciullezza, e suboto ch’egli comincia a conoscere, dimostrando di pigliar tanto piacere nell’imitazione, ch’ei si sforza con ogni suo potere d’imitare tutto quello ch’ei ode o vede fare a’ suoi maggiori. Ma che maggior segno vogliamo noi, che la imitazione piaccia, come ne dimostra il Filosofo, a l’uomo, veggendo noi molte cose vere dispiacergli e dargli fastidio, che di poi imitate gli piacciono e porgogli diletto? Come son verbigrazia certi casi tanto empii e tanto crudi, ch’egli non può sopportar di vedergli, e di poi imitati in una tragedia lo dilettono e dannogli piacerem e certi animali tanto schifi e tanto brutti, ch’egli non può patir di ragguardargli, e imitati di poi dalla pittura (ch’è ancora ella una spezie di poesia, la quale dimostra e imita co’ colori quel che fanno i poeti con le parole) non solamente non gli dispiacciono, ma elli gli porgon diletto. E ultimamente ha ancora questa forza la poesia [p. 48 modifica]che tutto quel che s’impara da lei si ritiene con facilità grandissima. Imperocchè movendo molto più gli esempi che le parole gli uomini, vengon per conseguenza a imprimersi ancora meglio e più tenacemente negli animi e nelle memorie loro gli esempii, che le parole. Per questa cagione adunque usò e prese Dante nel descrivere questa sua visione, o voglian dir fantasia, per giovamento e ammaestramento degli uomini, e parte ancor per acquistare fama e gloria al nome suo, questo modo poetico; dividendola, per trattare ella di tre regni, in tre parti principali. La prima delle quali, ch’è quella dell’Inferno, contiene trentaquattro capitoli; e la seconda, ch’è quella del Purgatorio, trentatrè capitoli; e la terza del Paradiso medesimamente trentatrè; che tutti fanno la somma di versi quattordicimila dugento tredici. Il modo si chiama terzetti, o veramente terza rima, e ne fu il primo inventore egli; modo molto piacevole e molto grato a l’orecchio. Lo stile è quando umile, quando mediocre, quando alto, quando aspro e quando dolce; e così ancor similmente le parole usate da lui, secondo che ricercorno le cose di che egli favella, osservando sempre un artificiosissimo decoro in tutte le materie ch’egli tratta. Le quali sono varie e diversissime, trattando pur con modo poetico cose gravissime di filosofia e naturale e morale, di matematica, di astrologia e di qual si voglia altra scienza, e quello che è più, della divinissima teologia. Di maniera ch’ei si può dire, ch’ei sia stato il primo il qual abbia scritto nella nostra lingua di cose scientifiche, e abbia espresso in quwlla la maggior parte delle cose umane, e che abbia sadisfatto a tutte le belle imitazione, e, oltre a questo, scritto poi delle divine con tanta dottrina e maiestà e leggiadria insieme, ch’egli ha dimostrato al mondo come ei si può esser poeta, e trattar delle cose divine, senza parlar favolosamente di Dio, e senza attribuirgli di quelle cose e di quegli affetti, che avevano fatto prima gli altri. De’ colori rettorici, delle figure e delle comparazioni nella qual cosa egli è maravigliosissimo, tratteremo noi di mano in mano nell’esporre il testo. E questo sia finalmente detto a bastanza, per dichiarazion de l’ultimo capo de’ nostri preambuli, e per fine della presente lezione, Domenica futura noi cominceremo, concedendolo Dio, a dichiarare il testo.

Note

  1. Cosi le due ediz. in vede di tutte le altre sorti.
  2. Il concetto e anche la frase son tolti da Quintiliano (X,1,99):in comaedia maxime claudicamus ... Vix levem consequimur umbram; adeo ut mihi sermo ipse romanus non recipere videatur illam solis concessam atticis venerem... Tom. IV, pag. 87 e 88 dell’edizione torinese del Pomba, 1825, in 8°.
  3. Cr. passo
  4. Ediz. nelle.