Letture sopra la Commedia di Dante/Lettura prima/Lezione terza

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LEZIONE TERZA


Nel mezzo del cammin di nostra vita.
     Mi ritrovai in1 una selva oscura,
     Che la diritta via era smarrita.

Gran dottrina e grande arte usa per tutta questa sua opera il nostro Poeta, e particularmente ne’ principii di ciascuna cantica di quella; come quello il quale, essendo ottimo rettorico, conosceva molto bene, quanto egl’importi ne’ principii delle cause metter buona opinion di quelle negli animi degli uditori, essendo il principio, come diceva Tullio, in ciascuna impresa sempre quasi la metà del fatto. E chi vuol conoscere tal cosa consideri quanto il principio di questa prima è alto e maraviglioso, e fatto con artificio e considerazione grandissima da lui; il qual veggendo quasi tutti gli alti poeti eroici avere cominciati i loro poemi, dicendo: io canterò la tal cosa e la tale, come fece il suo maestro Virgilio la sua Eneide, dicendo:

Arma virumque cano...

Ovidio la sua Metamorfosi:

In nova fert animus mutatas dicere formas
Corpora...

Lucano la sua Farsalia:

Bella per Emathios plusquam civilia campos,
Jus scelerique datum canimus...

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Valerio Flacco la sua Argonauta:

Prima deum magnis canimus freta pervia nautis

modo e costume, imitato ancora grandemente dagli Eroici toscani; onde incominciò il Ferrarese il Furioso:

Le donne, i cavalier, l’arme e gli amori
Le cortesi, l’audaci imprese io canto;

e il nostro Fiorentino il suo Cortese:

Or de’ miei giorni a le stagion mature
Canterò di Giron l’alte avventure;

e considerando che il soggetto e la materia di questo suo poema era molto più alto e più dotto del loro, contenendo egli in sè cose molto maggiori, che arme e amori, fatiche di cavalieri, trasformazioni di uomini in pietre o in arbori, pericoli di naufragii e di mare, perchè trattava della cognizione de’ vizii ed errori umani, del modo di fuggirgli e purgarsene, e di poi passare sopra tutte le cose, fuori del cielo, ove dice il Filosofo che vivono quegli enti divini felicissimamente la vita loro, a fruirvi quella vera e somma beatitudine, a la quale non può arrivare uomo alcuno come uomo, ma solamente come figliuolo adottivo di Dio; gli parve da non cominciare, come avevano fatto eglino, con un principio, per il quale intendendo gli uditori tutto quello che egli voleva trattare, posassero subito gli animi, e non gli tenessero più attenti ad ascoltare come prima. E se ei cominciò di poi la seconda cantica pure in quel modo, dicendo nel secondo terzetto:

Io2 canterò di quel secondo regno,
     Dove3 l’umano spirito si purga,
     E di salire al ciel diventa degno;

egli lo fece, dubitando che quegli, i quali avevano conosciuto e la moltitudine e la qualità de’ vizii passando per l’Inferno, non si fussero sbigottiti di maniera, pensando di non potere stampar da quegli, ch’ei fussero caduti nel peccato della di[p. 51 modifica]sperazione; della quale non è cosa alcuna altra, per essere ella contro dirittamente a la misericordia e a la bontà sua, che dispiaccia più a Dio: per la qual cosa dette loro subitamente il poeta con tali parole speranza di potere schifarli e purgarsene; nel modo medesimo ch’egli fece ancor di subito, a quegli che se ne eran purgati, di conseguire la beatitudine eterna, quando disse nel principio della terza cantica:

La gloria di colui che ’l tutto4 muove
     Per l’universo penetra, e risplende
     In una parte più, e meno altrove;

dimostrando con tali parole, che la grazia e la bontà di Dio risplende in tutte le cose che son disposte a riceverla, ma più o manco secondo la disposizione del ricevente; volendo inferire che chiunche si netterà e purgherà da’ vizii, avendo però prima ricevuto nel battesimo il carattere di cristiano e di figliuolo adottivo di Dio, riceverà la grazia di esso Dio in questa vita, e dipoi finalmente il regno del cielo e la somma beatitudine nell’altra. Considerando adunque il poeta, come questa sua opera conteneva le più importanti cose che abbia l’uomo, trattando ella di quel che noi abbiamo detto, pensò di farle un principio di sorte, che avesse ancora a tenergli fermi e attenti ad ascoltare; onde incominciò:

Nel mezzo del cammin di nostra vita
     Mi ritrovai in una selva oscura,

e quel che segue. Dove esprimendo egli, come gli altri poeti de’ quali noi abbiamo parlato, tutto quello di che egli intendeva trattare, ma proponendo una cosa tanto oscura e tanto alta, fa porgere a quel che segue con maggiore intenzione agli uomini gli orecchi, ch’eglino non arebbono fatto sapendo a un tratto tutto il soggetto d’essa opera.

Circa a l’esposizione e al senso del quale principio essendosi grandemente affaticati tutti gli espositori, sarà mi penso [p. 52 modifica]io di non poca utilità raccontar prima l’opinioni loro, e di poi dire ultimamente sopra tal cosa la nostra; e perchè ella è molto diversa da l’altre, lasciar di poi pigliare a ciascun quella che gli piacerà più, o che sarà più conforme e più accomodata alle parole del testo. Avete dunque primieramente a sapere, ch’ei non è dubbio alcuno, che Dante non scrivesse questa sua visione o finzione, trovata da lui, come noi dicemmo ne’ nostri preambuli, per ammaestramento e giovamento degli uomini, sotto metafora e figuratamente. Nè penso io però, ch’ei sia alcuno tanto semplice, che creda ch’ei fusse cosa vera, ch’egli si smarrissi in una selva, e fussine di poi cavato e guidato per la via dell’Inferno essenziale; il qual tiene la religion nostra che sia cosa reale e vera, e non finta come i poeti e molti altri che ne scrivono. Per il che non basta intendere solamente litteralmente e istorialmente la lettera, ma bisogna considerare con gran diligenza quel ch’egli abbia voluto intendere e dimostrare sotto tal velame. E però, ricercando che termine di tempo egl’intenda per la metà del cammino della nostra vita, e così ancora per la selva nella quale egli dice che si ritrovò smarrito, reciteremo (come noi abbiamo detto) la prima cosa l’opinione degli altri espositori, cominciandoci da quella del figliuolo di [lui,] M. Piero. Il quale ricercando nel suo comento, qual sia questo mezzo della vita, divide quella in due parti; l’una delle quali egli dice essere quella, nella quale noi non abbiamo ancora perfetto ed esperto di sorte l’uso della ragione, che noi conosciamo in molte cose il vero; e l’altra quella, nella quale noi l’abbiamo di tal sorte, che noi conosciamo perfettamente il bene e il male, e sappiamo distinguere e separare le virtù da’ vizii. Nel quale modo la divise ancora anticamente Pittagora; onde l’assomigliò a quella lettera, la quale i greci chiamano ipsilon, e noi volgarmente fio, come scrisse Virgilio, dicendo:

Littera Pittagorae, discrimine secta bicorni,
Humanae vitae speciem referre videtur

la quale lettera comincia da una vergola sola, che andando così alquanto dritta, si divide poi in due; dimostrando che gli uomini, da che ei nascono a che eglino arrivano agli anni della [p. 53 modifica]discrezione e del conoscimento, vivono seguitando la natura quasi tutti in un modo medesimo; dipoi di due vie che ei trovano (chè l’una è quella della virtù, e l’altra quella de’ vizii) ciascuno eleggendo con la libertà dello arbitrio suo quella che gli aggrada più, cammina per lei quel tanto del tempo ch’egli vuole. Da la quale opinione pittagorica cavò Matteo Palmieri poeta, nostro cittadino fiorentino, il soggetto del suo libro della Città di vita, fingendo che l’anime nostre, scese che elle sono ne’ corpi nel modo ch’egli scrive nel primo libro, truovino due vie; dell’una delle quali, cioè di quella de’ vizii che ci guida all’Inferno, tratta egli dipoi per tutto il secondo; e dell’altra, la quale è quella delle virtù che ci guidano al Cielo, nel terzo. Dice adunque questo nipote di Dante, che noi siamo posti da la natura, nel nostro nascimento, in uno stato e in una vita pura, essendo propriamente allora la nostra anima, come dice il Filosofo, simile a una tavola rasa nella quale non è scritto o dipinto cosa alcuna; e in questo tempo dice che il Poeta visse e camminò sempre rettamente, infino a tanto ch’egli fu traviato e tirato da lo appetito sensitivo fuori della strada dritta. Laonde egli camminò dipoi sempre come smarrito infino a’ trentacinque anni; nel qual tempo egli dipoi si accorse della vita voluttuosa e oscura nella quale egli era. E questa è la esposizione del nipote di Dante, detta da lui così semplicemente, e senza provarla altramente.

Fu dipoi uno altro, chiamato Jacopo Leneo, frate gaudente bolognese, che lo commentò in lingua sua materna (e piacque allora tanto quel suo comento, che uno Alberigo Rosada, che leggeva in quei tempi pubblicamente Logica in Bologna, lo tradusse, per farlo comune a maggior numero di persone, in lingua latina), che espone: nel mezzo, cioè quando si dormiva, dicendo ch’egli volse dire, ch’ebbe questa sua visione in sogno e dormendo; chiamando il sonno la metà della vita, fondato in su le parole di Aristotile, il quale chiama ancora egli, nel primo dell’Etica, quel tempo che l’uomo dorme la metà della vita, dicendo che i miseri e gl’infelici non sono punto differente da i contenti e da i felici la metà della vita, cioè il tempo ch’e’ dormono. Nientedimanco ei s’accordan poi amendue, che [p. 54 modifica]ei fussi, quando egli ebbe questa visione, ne’ trentacinque anni, affermando con l’autorità di Davit profeta, quello essere il mezzo della vita. Conciosia che egli scriva ne’ suoi Salmi, che il termine della vita umana è settanta anni; e tutto quello che l’uomo vive di più, lo vive in fatiche ed in affanni. Il Landino ricercando in questo luogo con gran diligenza, qual sia questo termine della vita nostra, induce circa a tal cosa molte e molte opinioni, e infra l’altre quella degli astrologi; i quali referendo, come è loro costume, ogni cosa a’ cieli, vogliono che ciascuno pianeta ci dia un certo numero d’anni di vita, i quali computati e raccolti insieme aggiungono infino a novanta, attribuendo i quattri primi a la Luna, dipoi dieci a Mercurio, dipoi otto a Venere, diciannove al Sole, quindici a Marte e dodici a Giove; e questi fanno sessantotto. E qui dicono essere comunemente il tempo che dura la vita nostra, affermando essere pochi quegli che lo passano; e la cagione è perchè il restante, che sono anni ventidue, gli dà Saturno, il quale è freddo e secco; le quali due qualità, per consistere la vita nostra principalmente nel caldo e nell’umido, son dirittamente contrarie a quella. Adduce dipoi ancora l’opinione di alcuni altri, i quali dividono la vita per numeri settennarii; e dimostrando che la natura fa sempre o il più delle volte in quegli qualche mutazione, vogliono ch’e’ si porti sempre ancora in quegli qualche pericolo. Nè vogliono questi tali ch’ei si possa passare naturalmente, vivendo, il termine di settanta anni; il quale dicono essere il maggior numero che possa fare il sette, multiplicato per il maggior numero che si trovi, il quale è dieci; non essendo tutti i numeri che passano dieci, secondo che dicono questi tali, più numeri, ma replicazione di numeri. Questi settennarii furono osservati grandemente da Macrobio, dimostrando che la natura mostra sempre nell’uomo, neì primi cinque, qualche accrescimento di vita: onde gli fa nel primo cadere e rimettere i denti; nel secondo lo rende atto a la rigenerazione; nel terzo gli cuopre il volto di peli; nel quarto pon termine al suo crescere più per la lunghezza; e nel quinto gli dà il colmo delle forze: e di poi non pare ch’ella ne tenga più conto, o pochissimo, ma lo lasci andare continovamente a la diminuzione; della [p. 55 modifica]quale opinione afferma ancora essere stato Aristotile nella Politica, come forse presago della sua morte, la quale dicono essere stata ne’ settanta anni. Racconta oltr’a di questo le opinioni di Pittagora e di Solone, i quali pare che vogliono che la vita nostra arrivi al termine di ottanta anni. Nientedimanco ei si risolve poi ancora egli finalmente, fondato in su l’autorità che noi recitammo di sopra di Davit profeta, che il termine della vita nostra naturale sia comunemente di settanta anni, e conseguentemente il suo mezzo trentacinque. Nella qual cosa non arebbe egli durato tanta fatica a risolversi, se egli avessi veduto il Convivio d’esso nostro Poeta, o considerato meglio le parole del testo, come hanno fatto il Vellutello nel suo comento, e il Giambullari in quel libretto ch’egli fa del sito e delle misure dell’Inferno. Imperochè assomigliando Dante, nella ultima parte del suo Convivio, la vita nostra a uno arco, dice ch’ella ha di salita venticinque anni, dipoi venti di colmo, che fanno quarantacinque, e di poi altri venticinque di scesa, che fanno settanta; e questo è il suo termine naturale. E per esprimere dipoi ancora meglio e più distintamente, quale ci tenga a punto per il punto del mezzo di essa vita, egli dice queste parole: Nei più credo io ch’ei sia tra il trentesimo e il quarantesimo anno, e ne’ perfettamente naturati nel trentacinquesimo; e muovemi questa ragione, che Cristo, il quale era da credere che fusse di natura perfettissima, volse morire nell’anno trentaquattresimo; non essendo da credere ch’egli non volesse dimorare in questa nostra vita al sommo, poichè ci era stato nel basso della puerizia. E nella Comedia dimostra manifestamente, in due luoghi, che questa visione o fantasia gli venisse l’anno trentacinquesimo della sua vita, il quale era l’anno milletrecento. Il primo è quando, ragionando ei con Malacosa demonio della rovina del suo ponte, la quale accadde insieme con molte altre per quel tremare che fece la terra nella morte di Cristo (come egli dimostra chiaramente nel capitolo XII de l’Inferno, dicendo:

Ma certo poco pria, se io ben5 discerno,
     Che venisse colui, che la gran preda
     Levò a Dite del cerchio superno,

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Da certe6 parti l’alta valle feda
     Tremò sì, che io pensai che l’universo
     Sentisse amor, per lo quale è chi creda
Più volte il mondo in caos converso:
     Ed in quel punto questa vecchia roccia
     Qui ed altrove fece tal riverso.)


Malacoda gli dice, il giorno del sabato Santo, il quale il Poeta consumò tutto camminando per l’Inferno, queste parole:

Ier più oltra cinque ore, che questa otta,
     Milledugento con sessantasei
     Anni compièr, che qui la via fu rotta;

ai quali aggiungendo trentaquattro anni, ch’era vivuto Cristo, fanno appunto anni mille trecento. E l’altro è quando Casella, parlando nel capitolo secondo del Purgatorio delle anime che andavano a purgarsi, e dell’Angelo che le guidava, gli dice con queste parole, che quello anno era il giubileo:

Veramente da tre mesi egli ha tolto,

cioè dal primo giorno di gennaio, nel quale era cominciato il giubileo, fino allora,

Chi è7 voluto entrar con tutta pace;

dimostrando come tutte l’anime di coloro, che morivano in quello anno, erano per virtù della indulgenza di tal giubileo passate subitamente dall’Angelo a lo stato della purgazione. E questo giubileo bisogna che fusse quel del trecento. Imperocchè in quel del mulledugentosettantacinque Dante aveva dieci anni, e in quello del milletrecentoventicinque era già morto di più di quattro anni. Concluderemo adunque finalmente per queste ragioni, che Dante intenda per il mezzo della sua vita senza dubbio alcuno l’anno trentacinquesimo di quella; e così si accordon tutti gli spositori, ed io convengo in questo con loro.

Ma io non convengo già dipoi con loro in quello che intende ciascuno di loro per la selva, nella quale egli dice che si ritrovò [p. 57 modifica]in tal tempo smarrito; ma sono al tutto diverso da ciascuno di loro. Imperocchè M. Piero suo figliuolo, il nipote e gli altri espositori antichi, intendono per tal selva una vita licenziosa e viziosa, nella quale ei dicono ch’era scorso in tal tempo Dante; co’ quali conviene ancora il Vellutello, il quale dice a questo proposito, che Dante chiamò ancora nel Convivio questa vita una selva erronea; e così ancora similmente il Petrarca, quando e’ disse:

Ahi quanti passi per la selva perdi!

La quale opinione, per onore del Poeta, non mi piace punto; e tanto più, non si trovando alcuno di quegli che scrivono la vita sua, che dica8 ch’ei fusse uomo vizioso e sfrenato, ma tutti dichino ch’egli fu uomo da bene e di buoni costumi, e di onesta e lodevole vita; nè gli rimproverando ancora similmente Beatrice, quando ella lo riprese così per fianco nel Paradiso terrestre, che si fusse immerso ne’ vizii, e lasciatosi torre le virtù e la fama di quelli, ma dicendogli ch’egli era camminato per via non vera,

Immagini di ben seguendo false,
Che nulla promissione rendono intera;

le quali parole dimostrano più tosto, se elle si considerano bene, che Dante avesse errato nell’operazioni intellettive, seguendo opinioni erronee, che eleggendo con la volontà cose viziose e brutte. Nè mi piace ancor dipoi similmente la opinione di coloro che dicono ch’egli intende per essa selva il corpo, adducendo che Platone e molti altri filosofi chiamano la materia corporea in greco hyle, e i latini silva. Imperochè chi sarebbe quello, che si dorrebbe d’essere nella selva di questo corpo, se non l’anima? Il che non arebbe mai fatto Dante, seguitando egli come ei fa sempre la dottrina peripatetica; la quale tiene, insieme co’ nostri teologi, che il corpo sia dato a l’anima nostra solamente perchè ella possa acquistarsi, mediante i sensi di quello, che le sono come finestre, delle intellezioni e delle scienze; perchè [p. 58 modifica]non sapendo la semplicetta, come dice altrove il Poeta, nel suo principio nulla, ma essendo, come noi abbiamo detto altra volta, simile a una tavola rasa; e non avendo l’intelletto, come tengono i nostri teologi, di tanta perfezione e di tanto valore, quanto è quello dell’Angelo, onde ei possa intendere le cose per sola operazion sua; non potrebbe acquistare mai per tempo alcuno, se ella non avesse l’aiuto dei sensi, scienza o intellezione alcuna; per il che fu detto da ’l filosofo, che chi privasse uno uomo d’un senso lo priverebbe ancora insieme della cognizione di tutti i suoi sensibili; e ciò sapeva molto bene il Poeta nostro, poi ch’egli disse in essa sua opera, parlando dell’ingegno e natura nostra:

Perchè solo da sensato apprende
Ciò che fa poscia d’intelletto degno.

Nè mi piace dipoi ancor quella di quegli che dicono, ch’egli intende per tal selva l’ignoranza, nella quale ei si ritrovava. Imperochè ella è troppo universale e troppo indeterminata. Conciosia che l’ignoranza, secondo il Filosofo, sia di una di queste due maniere; o di pura negazione, cioè che non sa nulla; o di mala disposizione, cioè che sa le cose male. E di nessuna di queste può giudicarsi che potesse dolersi il Poeta: anzi credo che se ei si ritrovava alcuno in que’ tempi, al quale non si convenisse questo predicato ignorante, ch’ei fusse uno egli. Piacemi ancora dipoi ultimamente, manco di tutte l’altre, quella di alcuni moderni, i quali tengono che tal selva fussi la città di Firenze, dicendo ch’ella era piena a’ tempi suoi di tanti odii, inimicizie, e di tanti uomini crudeli come fiere, ch’egli la chiamò convenientemente selva, come egli fece ancor nel canto XIII del Purgatorio, quando parlando della crudele occisione, che doveva fare in lei M. Fulcieri de’ Calvoli, podestà di quella, disse:

Sanguinoso esce della triste selva;
     Lasciala tal, che di quivi9 a mill’anni
     Nello stato primaio non si rinselva.

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Imperochè se ei fusse stato così, ei non arebbe tanto desiderato, poi ch’egli ne fu cacciato, di tornare in quella, quanto e’ mostra nel suo Convivio, dicendo: poi che fu piacere de’ cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno, nel quale nato e nutrito fui sino al colmo della mia vita, e nel quale con buona pace di quella desidero con tutto il cuore di riposare l’animo stanco, e quel che segue. E queste sono finalmente le opinioni degli espositori circa a questa selva.

Delle quali (il che sia detto da me con quella reverenza che debbe portare un par mio a tanti uomini virtuosi e dotti, senza biasimare alcuno, ma solamente per ritrovare il vero senso di questo luogo, e quel che abbia voluto dire il Poeta) non me ne piacendo alcuna per le ragioni che io ho narrate di sopra, dico e tengo che Dante abbia inteso per tal selva una confusione d’opinioni senza certezza perfetta di quello ch’e’ dovesse credere; nella quale egli si ritrovò, quando avendo egli la ragione e l’uso di quella perfetto, egli incominciò a discorrere e considerare le cose del mondo10. Per il che egli non sapeva risolversi, quale dovesse essere certamente il fine suo vero, nè manco dove egli dovesse indirizzare l’animo e l’operazioni sue a volere conseguire quella perfezione, la quale e’ non era ancor forse certo se ella era in questa o nell’altra vita, e a la quale ei pensava che fusse stato fatto ed ordinato o da Dio o dalla natura l’uomo. E se qualcuno si opponesse a questa mia opinione, dicendo che Dante, essendo cristiano come egli era, sapeva molto bene la verità, e quello ch’egli avesse a credere ed operare, io gli rispondo, ch’ei non è dubbio alcuno che Dante non fusse primieramente battezzato, e dipoi ammaestrato da’ suoi maggiori istorialmente, come siamo stati ancora tutti noi altri, delle cose della fede; ma questa fede è così fatta, e creduta per modo d’istoria, non è quella la quale forma l’intelletto nostro, e che [p. 60 modifica]infiamma di tal sorte la volontà nostra di carità e di speranza, ch’egli non cerca e non vuole, come diceva Paulo Apostolo, altro che Cristo. Chè questa così fatta fede dà solamente Dio a chiunche si prepara a riceverla; e però dandosi il Poeta dopo i suoi primi anni a gli studi delle scienze, e ritrovando in quelle molte opinioni di filosofi, le quali procedono con principii molto più capaci naturalmente all’intelletto umano, che quegli della fede; e trovando ancor nel mondo diverse sette di religioni, le quali hanno ancor tutte similmente diversi fini; se ne andò, lasciandosi svolgere e credendo facilmente, come scrive il Filosofo, nella Rettorica che è costume di giovani, così irresoluto e incerto della verità, infino a mezzo il cammino della vita sua; nel qual tempo, cominciando egli a considerare col lume della ragione queste cose, egli si accorse come ei si ritrovava in una selva oscurissima di opinioni e di confusione. E questa tale considerazione gli venne, come io vi ho dimostro, l’anno XXXV della sua vita, il giorno del venerdì santo, che fu quell’anno il settimo dì d’aprile. Nel qual giorno rappresentandoci la Chiesa la passione e morte del Salvatore nostro, e avendo ordinato che ciascuno che vuole viver cristianamente cerchi, mediante i meriti d’essa passione, lo scancellamento e la remissione de’ peccati suoi, il nostro Poeta riducendosi in sè stesso, ed esaminando lo stato suo, e i misteri e i precetti rappresentatigli e ridotti alla memoria da la Chiesa Cristiana, e desiderando di essere illuminato della verità, levò gli occhi in alto, chieggendo come noi mostreremo più giù nella esposizione del testo, tacitamente con la disposizione, a la bontà divina, che gli dimostrasse la verità; per il che gli fu mandato da lei, nel modo che egli dice, il lume della fede. E quello che m’induce a tener questa opinione, non considerata da alcuno espositore, è quella autorità dello Evangelio, quando Cristo disse a’ suoi discepoli: Se l’uno amico non dà all’altro, quando ei chiede e ha bisogno d’un pane, una pietra, nè in cambio d’un uovo un serpente, quanto darà maggiormente il Padre celeste a voi, che vi ama come figliuoli, quando voi lo pregherete, quello che sarà opportuno a la salute vostra? Se ci si vede adunque (stando queste parole), che a Dante, il quale alzando [p. 61 modifica]gli occhi al cielo ricorse tacitamente in quella selva oscura a la bontà divina, fu mandato da quella, come noi vi mostreremo nello esporre di mano in mano il testo, per mezzo di Beatrice la cognizione delle scritture sacre, e il lume della fede; ei bisogna confessare di necessità, ch’ei non avesse bisogno e non gli mancasse altro, a indirizzarlo e condurlo alla sua salute, che essa fede, e che la selva nella quale ei si ritrovava fusse conseguentemente, come noi abbiamo detto, una confusione e una incertitudine della verità cristiana e del sommo bene. E perchè la bontà divina, come tengono i nostri teologi, è parata sempre a dare per sua salute questo lume della fede a chi si prepara a riceverlo, e dipoi gliene domanda o espressamente, come facevano gli Apostoli dicendo: Domine, da nobis fidem: auge nobis fidem; o tacitamente, come noi abbiamo detto che fece il Poeta nostro; gli fu mandato da essa pietà e bontà divina subitamente tal lume per mezzo di Beatrice e di Virgilio, in quel proprio modo che si legge ne’ fatti degli Apostoli, che fu ancora mandato per Filippo Apostolo, mosso dall’Angelo per parte di Dio, a quello Eunuco di Candace regina d’Etiopia, che andava a fare orazione nel tempio di Jerusalem, e per mezzo di Pietro Apostolo in Cesarea a Cornelio Centurione. E questa è l’opinion nostra sopra a questa visione o finzione di Dante; secondo la quale, per tener noi, per le ragioni dette di sopra, che questo sia il vero senso e quel che abbia voluto dire il Poeta, noi seguiteremo di esporre e dichiarare di mano in mano il testo; non lasciando però mai di raccontare tutte quelle opinioni degli altri, da le quali io giudicherò che si possa cavare utile o ammaestramento alcuno. E questo basti per la lezione d’oggi.

Note

  1. Cr. per.
  2. Cr. E.
  3. Cr. Ove.
  4. Cr. che tutto.
  5. Cr. se ben.
  6. Cr. tutte.
  7. Cr. ha.
  8. Ediz. 1554 dichino; 1562 dice.
  9. Cr. qui.
  10. Dante medesimo scrive nel Convito: «l’adolescente, ch’entra nella selva erronea di questa vita, non saprebbe tenere il buon cammino, se dalli suoi maggiori non gli fosse mostrato.» IV, 24, pag. 494 della edizione fiorentina del Giuliani.