Letture sopra la Commedia di Dante/Lettura prima/Lezione nona

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LEZIONE NONA


Scrive il dottissimo Pico de la Mirandola, in una orazione ch’egli fece nel Senato Romano, aver letto nelle memorie degli Arabi, che uno de’ loro sapienti, il quale era chiamato Adala Saracino, usava dire che non aveva trovato mai in questa scena mondana, nel considerar le cose naturali, cosa alcuna la quale fosse più eccellente e più maravigliosa che l’uomo. Nel quale detto, uscito da così sapiente uomo, sono da considerare principalmente due cose. La prima, per qual cagione egli chiami questo universo una scena. E l’altra, quali sieno quelle qualitadi, le quali faccino tanto eccellente e tanto maraviglioso e stupendo l’uomo. Le quali volendo noi esaminare, è necessario sapere, incominciandosi da la prima, che questa voce scena significa propiamente quel luogo appartato (o sia più basso che gli spettatori, in quel modo che si facevano anticamente i teatri, o sia più alto di quegli, come i palchi e le prospettive che si usano ai tempi nostri), dove recitano gl’istrioni le tragedie, le commedie e gli altri poemi simili. E fu chiamato questo luogo anticamente così da una voce greca, la quale significa in quella lingua tabernacolo o capanna, e luogo ombroso. E la cagione fu per usare quegli da chi ebbe primieramente origine la Comedia, i quali furono, come io ivi dissi ne’ miei preambuli, contadini Ateniesi, recitare quei lor componimenti (fatti per sfogamento delle superchierie e degli oltraggi che facevan loro quegli che eran più potenti di loro) fuori a la campagna in certi capi di vie, sotto alcuni frascati ch’ei facevano di rami di arbori per starvi sotto all’ombra e schifare i raggi del sole. Laonde [p. 134 modifica]sono ancor chiamata similmente scenofegie quelle feste che gli Ebrei fanno in memoria di quando ei furon cibati da Dio di manna nel deserto; nelle quali fanno ancora eglino certi tugurii e certe capannette di frasche, sotto le quali eglino stanno dipoi a cantare i loro cantici e i lor salmi. Assomiglia adunque questo savio uomo questo mondo a una scena, per avvenire propriamente a gli uomini, mentre ch’eglino stanno in quello, quel che avviene nel recitare sopra le scene i loro poemi a gl’istrioni. Imperò che come essi istrioni sono vestiti da quei che guidon la favola, chi da ricco, chi da povero, chi da milite, chi da servo, e chi da una cosa e chi da un’altra, e di poi salgono in su la scena a operar ciacuno il meglio ch’egli sa, secondo che si conviene a la persona ch’egli rappresenta, e finita la favola si spogliono, e tornon poi tutti nello stato ch’eglino eran prima; ove ciascuno è allora lodato o biasimato, secondo che egli ha meglio o peggio rappresentato quelle azioni le quali si convenivono a la persona de la quale egli era vestito; così sono similmente ne’ loro nascimenti da chi guida il tutto vestiti gli uomini variamente secondo che pare a lui, ed entrando di poi così vestiti nel mondo, vive e opera ciascuno secondo o ch’egli sa o ch’egli vuole; e dipoi, finita la loro vita, sono ancora eglno similmente spogliati da la morte, e si ritorna ognuno nudo come egli venne nel mondo; ove ciascuno è allora o biasimato o lodato, secondo ch’egli ha o peggio o meglio operato in quello stato e in quella professione nella quale egli era stato posto.

L’altra cosa, la quale è da considerare in questo detto, è perchè questo sapiente dica che l’uomo sia il più maraviglioso ente ch’egli avessi scorto in questo universo. Il che ricercando con grandissima dottrina il predetto Conte Mirandolano, e non gli parendo sufficienti quelle qualitadi, ancor ch’elle sieno molto degne e molto grandi, che si predican comunemente di lui, chiamandolo chi poco minore degli Angeli, chi famigliare degli Dei, chi Re delle cose inferiori e chi interpretre della natura, si risolve finalmente, che quel che lo fa tanto eccellete e tanto maraviglioso sia solamente lo essere stato fatto da la natura libero. Imperò che dove tutte le cose, e particularmente [p. 135 modifica]gli altri animali, si arrecan, come disse Lucilio, da ’l ventre stesso della madre quello ch’eglino hanno a essere sempre, essendo stati loro assegnati da la natura alcuni termini fuor de’ quali ei non possono uscire, a l’uomo non è stato posto termine o segno alcuno, ma è stato collocato da essa natura nel mezzo delle cose terrestri e delle divine, acciocchè ei possa contemplar con maggior facilità la natura delle une e delle altre, e seguitando gli appetiti della parte sua vegetativa e sensitiva farsi simile a le piante e trasformarsi, secondo l’opinione de’ Pittagorici, in fiera, e come un nuovo Prometeo

.... in varias transire figuras;

o innalzandosi, seguitando le contemplazioni della parte sua divina, transformandosi in una sustanza celeste e divenire simile a gli Dii. Il che dipende solo da questo dono della libertà, che egli ha avuto da lo architetto e fabricator di questo universo. Della qual cosa, che è la terza delle cinque che io vi dimostrai nella lezione passata che dice in questo ragionamento Virgilio a ’l nostro Poeta, volendo egli farlo capace, gli dice, da poi ch’egli ebbe fatto menzione delle anime de gli eletti, chiamate da lui le genti beate:

A le quai poi se tu vorrai salire.

Imperò che, dicendogli egli se tu vorrai, egli gli dimostra che egli sta a lui, e conseguentemente ch’egli è libero. Cosa, che se bene pareva forse alquanto dubbiosa a Dante, mentre che egli camminava per quella selva, rispetto a gl’impedimenti che egli vi trovava, non è solamente accettata da la sapienza umana, ma ella è ancora approvata e confermata da la sapienza umana, che non esser libero e aver la ragione repugnino e non possin stare (se la natura non fa cosa alcuna invano) in modo alcuno insieme. Perciochè non essendo altro la ragione, che una operazion de l’intelletto, chiamata da noi discorso, mediante la quale operazione l’uomo scorge e conosce quel ch’è da fuggire e quel ch’è da seguitare, se ei non fosse dipoi libero a potere schifare il mare ed eleggere il bene, sarebbe vano questo [p. 136 modifica]discorso, vano il consiglio, e invano gli sarebbe stata [data] da la natura la ragione. E il filosofo stesso, parlando nella sua filosofia divina delle potenze naturali e delle ragionevoli, dice che le naturali son determinate a una operazion sola, e non posson mancar, se elle non sono impedite, di operar secondo tal determinazione; come fa verbigrazia il fuoco il qual non può mancar, se egli non è impedito, di arder quelle cose che sono atte ad abbruciare; e le razionali per il contrario non son determinate più a operare che a non operare, o a far più una cosa che un’altra, che le sia contraria; come avviene verbigrazia, per usare lo esempio medesimo che usa egli, al medico, il quale non è determinato a medicare più ch’ei si voglia, o può ancora oltre a di questo così ammazzare uno infermo come sanarlo. Laonde gli animali, per operare naturalmente, non posson far, come eglino appetiscono una cosa, ch’ei non la seguitino; ma l’uomo, per operare razionalmente, può da poi ch’e’ l’ha appetita lasciarla e pigliarla, secondo che determina lo arbitrio libero della volontà sua. Per la qual cosa soggiunse esso filosofo, che gli animali vivon secondo l’immaginazione e secondo l’appetito, e l’uomo secondo la ragione e secondo l’esperienza. E se qualcuno opponesse che nascendo ogni movimento che da l’uomo al bene, come vogliono gli scrittor sacri, in lui da Dio, questa sua libertà viene a essere solamente al male; si risponde, che se bene è Dio quel che muove primieramente l’uomo al bene, ch’ei lo muove, come motore universale ch’egli è, ancor solo universalmente; e di qui nasche che ognuno ama e desidera naturalmente il bene. Ma lo eleggerlo o non eleggerlo nasce dipoi da la libertà stessa di esso uomo; e ciò ne fu dimostrato chiaramente da la somma verità e da ’l Salvator nostro Cristo, quando egli disse a la femmina Sammaritana; se tu mi conoscessi, forse che tu domanderesti bere a me, cioè ancor che tu sapessi chi io sono, egli sarebbe poi nel tuo arbitrio il voler seguitarmi o no. E così nasce ancor similmente da lo arbitrio nostro (e se ben noi siam mossi, come si è detto, da Dio universalmente al bene) lo elegger dipoi più un bene che uno altro, come ne dimostrò ancor similmente esso Salvator nostro, quando ei rispose a colui che lo domandava quel che [p. 137 modifica]egli avesse a fare a salvarsi, che osservassi i precetti della legge; e dipoi quando lo ridomandò, come egli avesse a fare a essere perfetto, che dèsse ogni cosa a poveri, e seguitasse lui; dimostrando, che lo eleggere più il primo che il secondo consiglio, stava meramente a lui, ed era posto al tutto nella libertà sua. La quale libertà dell’uomo nasce in lui per lo avere egli, oltre a lo appetito il quale serve a la cognizione de l’intelletto (onde ella è capace di ragione), può eleggere o rifiutare quel che appetisce lo appetito, guidato da ’l senso, liberamente e secondo ch’ella vuole. Da ’l quale officio del volere e non volere, secondo che pare a lei, ella ha questo nome volontà. Questa libertà adunque volendo Virgilio dimostrare al nostro Poeta che era in lui, gli dice, avendo fatto menzione di quelle anime beate che son nel regno del cielo:

A le quai poi se tu vorrai salire;

cioè; in te è posto, mentre che tu sei in questa scena mondana, lo abbassarti e andare a lo Inferno, e lo innalzarti e salire al cielo.

Ma perchè Dante, essendo instruito in qualche parte della disciplina cristiana, arebbe potuto dubitare, che se bene egli avesse avuta la volontà, non solamente disposta, ma infiammata e accesa del desiderio di salire al cielo, le forze sue non fossero dipoi bastevoli a tale impresa, nè le operazioni sue meritorie di sì alto premio (non essendo condegne le passioni di questo secolo, come dice Paulo, a la futura gloria), Virgilio, temendo tal cosa, previene con la risposta a tal dubitazione, dicendo:

Anima fia a ciò di me più degna,
Con lei ti lascerò al1 mio partire;

dimostrandogli con tali parole, per avere inteso così da Beatrice, come subito ch’egli eleggerà con lo arbitrio libero della volontà sua salire al cielo, la divina grazia (e questa è la quarta [p. 138 modifica]cosa delle cinque preposte da noi di sopra) sarà pronta e presta ad aiutarlo e renderlo degno di tal cosa. E questa è quella grazia, la quale è chiamata da’ nostri teologi grazia cooperante. La quale (subito che l’uomo è mosso ed eccitato da quella, la quale lo muove, come noi dicemmo di sopra, universalmente al bene, chiamata da’ medesimi teologi grazia preveniente, elegge con la volontà sua libera il bene) è pronta e presta ad aiutarlo camminare per le vie di Dio, e a far perfette e meritorie le operazioni sue. Nè manca mai Dio di tal grazia a chiunche si disponde a riceverla, come ne dimostrò chiaramente il Salvatore nostro a la medesima donna Sammaritana, della quale noi parlammo di sopra, quando avendo detto ch’egli era posto nello arbitrio di lui il chiedere e il non chiedere dell’acqua, egli soggiunse, parlando di sè: e io te la darei non vi mettendo il forse, come egli aveva messo nelle parole dinanzi, per dimostrar come egli non manca mai di darla a chi gnene domanda, co’ debiti mezzi. E questo è quello che vuole inferire qui Virgilio, dicendo che se Dante vorrà salire al regno de’ beati, sarà presta e apparecchiata una donna, cioè Beatricela quale lo condurrà mediante la fede e la divina grazia, a quello nella contemplazione di Dio e della divina essenza, a la quale non può mail salire per sè stesso, e con le forsùze sue sole, l’intelletto umano, cioò esso Virgilio.

E la ragione (e questa è la quinta e ultima cosa delle cinque dette di sopra) è narrata da lui chiaramente nel testo dicendo:

Chè quello Imperador, che lassù regna,
Per che io fui ribellante a la sua legge,
Non vuol che in sua città per me si vegna.

E che questo sia il vero, che l’intelletto umano, camminando con il suo lume solo e secondo il discorso naturale, divenga ribellante e contrario alla legge divina, lo dimostrò chiaramente lo intelletto di colui, il quale si tiene comunemente per ciascuno che fusse il maggiore e più savio uomo che si trovasse mai al mondo, e che fu reputato da ’l suo commentatore più tosto divino che umano. Il quale cominciando a voler con esso [p. 139 modifica]lume naturale investigare i principii delle cose, disse questa degnità e questa massima: ch’ei non si poteva di nulla far cosa alcuna, ma ch’egli è necessaria alcuna materia di che farla. E di poi, per non voler procedere in infinito (il che è appresso di lui una cosa assurda) con dire ch’essa materia fusse fàtta d’un’altra, e quella altra poi d’un altro, egli ne pose una eterna, e chiamolla la materia prima; nella quale introducendo il cielo per mezzo degli agenti particolari ognora nuove forme, egli vuole che si generino di mano in mano continovamente le cose; il mondo e il luogo dove porle. Della qual cosa non potendo ancora esser similmente capace il suo commentatore, disse che data la creazione del mondo, seguirebbe che questo luogo, nel quale egli è, fusse stato prima tutto quel tempo vòto. E perchè secondo la natura non si concede il vacuo, egli chiama per tal cagione noi altri cristiani semplici, creduli, o con altri nomi simili; senza accorgersi, che noi possiamo chiamar con molta più ragione e certezza lui cieco e mal capace del vero. Va dipoi più oltre. Voi trioverete che questo intelletto, discendendo a la generazione e a la corruzione delle cose particulari, dice ch’ei non si può generar cosa alcuna perfetta, senza lo agente univoco, cioè se non da uno il quale sia della specie medesima, come si fanno le imperfette, a la generazion delle quali bastando lo agente universale, si vede tutto il giorno generar da ’l calor del sole di putrodine infiniti animaletti imperfetti; e che dipoi quello che si corrompe, se bene la corruzione d’una cosa è sempre [p. 140 modifica]la generazion d’un’altra, non si può mai tornare in individuo il medesimo; e questo si è perchè ei non si dà, secondo la natura, regresso nè via alcuna via alcuna mai da la privazione a l’abito, cioè che quando uno è privo d’una cosa, e insieme dell’attitudine del poter riceverla (chè questo vuol dire propiamente privazione), ei non può mai più riaverla. Le quali cose sono ancora elleno similmente ribellanti e contro a la legge divina nuova, leggendosi nel sacro Evangelio, che colui che ce le ha dette fu creato di Spirito Santo, e che egli alluminò de’ciechi nati, e risuscitò de’ morti; e risuscitato dipoi ancor similmente egli apparse a’suoi discepoli, essendo serrate le porte, contro a quell’ordine che tiene ancora essa sapienza umana, la qual non concede in modo alcuno la penetrazione de’ corpi. Per queste e per altre cagioni adunque, essendo rebellante l’intelletto umano a la legge divina, non vuole lo Imperadore il quale regna dove si scorgono le cagioni di così maravigliosi effetti, che l’intelletto, camminando nel lume naturale, stia in un medesimo tempo nella presunzione sua, e salga a la cognizione di così profondi segreti fra le genti beate nel regno del cielo. La potenza del quale Imperadore, il quale vietava a Virgilio lo entrare nella sua città santa di Jerusalem e della visione della pace, e lo stato delle felici anime che abitano in quella volendo esso Virgilio dimostrare più chiaramente, per comandamento di Beatrice, al Poeta nostro, dice, esponendo con grandissima dottrina questo nome Imperadore e questo verbo regna, detti da lui di sopra, nel testo così:

In tutte parti impera, e quivi regge,
   Quivi è la sua cittade e l'alto seggio.

Per intelligenza delle quali cose è da notare, che questo verbo imperare significa un governare con potenza, e in certo modo per forza; ed ebbe origine, appresso i Romani, da l’avere gli eserciti e le forze nelle mani. E questo altro verbo reggere significa per il contrario governare e mantenere con amore e con providenza; onde si chiama il reggimento de’padri verso i figliuoli, e dall’altra lor famiglia, governo e non imperio. E perchè Dio ottimo e grandissimo regna per forza e potenza [p. 141 modifica]in ogni luogo, e governa e regge per amore e bontà nel cielo, ove è la sua città, cioè la moltitudine de’suoi eletti, e lo alto seggio, cioè quel trono della divinità, sopra del quale sedendo egli, e mostrando la sua faccia a’quei bene avventurati spiriti, gli fa felici e beati; Virgilio, essendo2 relegato da la divina iustizia nel Limbo, ove egli provava la gran potenza di Dio, dice: in tutte parti impera, cioè e per autorità e per potenza, e quivi, cioè nel cielo, regge, cioè e per bontà e per amore, facendo beate quelle anime, e ch’ei non manca loro contentezza alcuna. Del quale reggimento parlando il Profeta disse: Dominus regit me, et nihil mihi deerit", dimostrando che quando ei sarebbe retto ancora egli in questo modo dal Signore, il che sarebbe nella eterna beatitudine, non gli mancherebbe cosa alcuna, essendo in quella felice vita dove, veggendosi Dio,

Nè più si brama, nè bramar più lice

come disse non manco dotta che leggiadramente il Petrarca nostro. Da la considerazione del quale felicissimo stato nacque in esso Virgilio, nel farne menzione, un dolor tanto grande di non essere ancora egli del numero di quegli che lo posseggono, ch’egli esclamò, come narra il testo, e disse con alta e affettuosa voce:

O felice colui cui ivi elegge!

La construzione del qual verso è molto strana e molto dura, nè se ne può cavare, se non con difficoltà grandissima, il senso. Per la qual cosa la maggior parte degli espositori, e particularmente il Landino, dicono che per quel cui si ha a intendere il quale; ed espongonlo dipoi così: o felice colui, il quale (facendolo caso obliquo e accusativo) Dio elegge quivi, cioè a quel regno; o veramente il quale (in caso retto e nominativo agente) elegge in quella città santa e felicissima la sua abitazione. E questa così disusata e confusa construzione dicono alcuni (senza considerare ch’ei poteva dire, in cambio di cui, che pronome relativo, ed era manifesto il senso, senza guastare [p. 142 modifica]il verso), che fu fatta da Dante, volendolo scusare, per cagione della misura di esso verso, o veramente senza avvertirla, non essendo possibile che in una opera così grande non si dorma qualche volta, come fu scritto di Omero. La qual cosa considerando io, e avendo veduto di più appresso il nostro Giambullari un comento fatto da un contemporaneo di Dante, il quale dice avere udito dire più volte a Dante stesso, che non aveva messo, in tutta questa sua opera, parola alcuna contro a l’intenzione sua, o tirato da la rima, o forzato da la misura del verso, tengo ch’ei non facesse nè a caso nè per forza, ma pensatamente e con arte grandissima. Imperò che usando spessissime volte quegli, che hanno perturbato e alterato grandemente l’animo da qualche affetto e da qualche passione, favellare confusamente e rottamente, come si vede per grazia di esempio in chi è adirato, Dante per esprimere più efficacemente questo affetto del desiderio che assaltò l’animo di Virgilio, e la passione ch’egli ebbe di non essere ancora egli del numero degli eletti, quando egli ebbe a trattare del lor felicissimo stato, lo fa favellare così confuso e fuor dell’uso comune. Dopo a la quale affettuosissima esclamazione, facendo Virgilio come fanno molte volte coloro che si ricordano di qualche cosa la quale preme e duole grandemente loro, che gettano un sospiro e dipoi subitamente si racchetano, si racchetò e pose ancora egli similmente fine a le parole sue. Da le quali acceso Dante (che non desiderava cosa alcuna più che di uscire di quella selva) di nuovo desiderio di esser certificato con la cognizion sensitiva, la qual supera, umanamente favellando, di certezza tutte le altre, prega Virgilio che lo meni pe’luoghi ch’egli ha detto, dicendo:

Ed io a lui: poeta, io ti richieggio
Per quello Dio,3 che tu non conoscesti,
Acciò che io fugga questo male e peggio,
Che tu mi meni là dove or dicesti;

facendo come fanno molte volte quegli, i quali desideron grandemente una cosa, che non potendo per la voglia ch’ei ne [p. 143 modifica]hanno, se bene ella è offerta loro, in certo modo credere di averla a ottenere, pregon nuovamente chi l’ha, che la dia loro, e si fanno di nuovo prometterla a chi prima l’aveva loro offerta. Onde se bene Virgilio aveva offerto menar Dante per lo Inferno e per il Purgatorio, e condurlo a rivedere Beatrice, Dante non solamente lo richiede di tal cosa di nuovo, ma ei lo stringe e lo scongiura, acciò ch’ei non gli manchi, per quello di che debbon fare stima sopra a ogni altra cosa gli uomini; e questo è Dio vero, chiamandolo con maravigliosa dottrina, quando ei volse nominarlo, lo Dio non conosciuto da lui. Per dichiarazione della qual cosa è da sapere che i nomi, con i quali gli uomini chiamono Dio, sono o nomi che gli hanno posto essi uomini, o nomi ch’egli si ha posti da sè. De’nomi, che gli hanno posto gli uomini, non potendo eglino aver cognizione tanto perfetta di lui, ch’eglino possin porgli nomi i quali esprimino pienamente la sustanza e la essenza sua, parte gnene sono stati posti da gli effetti ch’eglino hanno veduto procedere da lui, e parte per similitudine e per metafora. E di quegli che gli sono stati posti da’suoi effetti, parte gnene ha posti la sapienza umana, come è verbigrazia, perchè egli muove e cagiona tutte le cose, primo motore, causa delle cause e primo ente; e parte gnene ha posto il suo popolo, e nella legge vecchia, chiamandolo, per i segni della misericordia e della protezione ch’ei mostrò verso di loro, Emanuel, e quando ei dette lor la vittoria di qualche loro nimico, Sabaot, e con altri nomi simili nel modo predetto; e nella nuova, da l’averci ricomperato, Redentore, e da l’avere offerto il suo corpo per cancellamento de’nostri peccati in sacrifizio al Padre, Cristo mediatore. Di quegli, che gli son dipoi stati posti dagli uomini per similitudine e per metafora, uno de’più universali e più comuni è Dio; il qual nome gli fu posto, come dice il dottissimo Damasceno, per similitudine del fuoco. Imperò che non ritrovando gli uomini cosa in questo universo più potente, più attiva e operativa, e manco materiale, e che non si vede se non nel fumo acceso, che è la fiamma, o in legno e in altra materia simile quando egli abbrucia, che sono i carboni affocati, le quali qualità convengono grandemente a Dio, cavaron questo [p. 144 modifica]nome Dio da un verbo, il quale significa ardere; e glielo posero, come si è detto, per similitudine e metaforicamente. Ritruovonsi dipoi alcuni altri nomi, i quali Dio si ha posti da sè, e gli ha manifestati a gli uomini, o con la bocca sua propia, come quando ei comandando a Mosè, che andasse a dire a Faraone nella legge vecchia, che lasciasse il suo popolo, e dimandandolo Moses, chi egli aveva a dire che lo mandasse, egli rispose Heihec (il che fu interpretato da San Jeronimo colui che è), e quando ei disse nella nuova: io sono la luce del mondo; o veramente per mezzo degli angeli, come fu Jesus. Volendo adunque Dante per ottener sicuramente da Virgilio, ch’egli gli fusse scorta a guidarlo per i luoghi detti di sopra, scongiuralo per la prima sustanza e per il primo ente; e sapendo che Virgilio era stato pagano e gentile, per il che egli non poteva avere avuto di quello altra cognizione, che quella universale che può dare la sapienza umana, lo chiama per questo nome Dio, universale e comune a tutti gli uomini; e per meglio esprimere tal cosa, non l’avendo Virgilio potuto similmente conoscere per mezzo della legge antica, come Creatore dell’universo, nè mediante la nuova, come Salvatore del mondo, egli soggiugne: che tu non conoscesti, cioè non avesti cognizione alcuna particulare di lui, come ebbe il popolo ebreo, o come abbiamo noi altri cristiani. Dopo la quale preghiera e scongiurazione, volendo dimostrare, per ottener maggiormente quello ch’egli desiderava, quanto fosse degna di compassione la causa sua, e quanto egli avesse bisogno di aiuto, ei dice:

Acciocchè io fugga questo male e peggio,

cioè che io scampi, uscendo di questa selva tanto oscura e aspra, da tanti pericoli che soprastanno, e fugga questa estrema rovina (il che sarebbe stato molto peggio) nella quale io incorrerei. E perchè Virgilio si muova più facilmente ad adempiere il suo desiderio, egli approvando il consiglio di esso Virgilio per il meglio, dice ch’ei lo meni per quei luoghi ch’ei diceva. Ma si comincia nel raccontargli (con diverso ordine) da ’l Purgatorio, e non da l’Inferno, come fece Virgilio; il che è fatto da lui, mi penso io, per la gran voglia ch’era di già nata in lui [p. 145 modifica]di purgarsi di quegli errori ch’ei conosceva, avendo compreso per le parole di Virgilio ch’ei non vedrebbe Beatrice, se non quando egli sarebbe mondo e purgato da’vizii, onde si dice:

Che tu mi meni là dove or dicesti,
Sì che io vegga la porta di San Pietro;

chiamando così il Purgatorio, per l’autorità data da Cristo a Pietro, pastore del gregge cristiano, e ai suoi successori e a’sacerdoti ordinati da loro, di permutare la pena eterna, che meritano i peccati mortali, in pena transitoria, e con il mezzo de’sacramenti della Chiesa torre si può dir l’anime a l’Inferno, e mandarle al Purgatorio in luogo di salvazione, come ne dimostra molto più largamente il nostro Poeta stesso nel nono capitolo del Purgatorio. Dove ei pone a custodia della porta, per la quale hanno a passare l’anime che vanno a purgarsi, uno angelo il quale ne tiene le chiavi; al quale arrivando il nostro Poeta, e inginocchiatosegli a’piedi, come lo aveva ammaestrato Virgilio, e pregandolo che gl’aprisse, gli fu detto da lui:

Da Pietro l'ebbi, 4 e dissemi che io erri
Anzi ad aprir, che a tenerla serrata,
Pur che la gente a'piedi mi si atterri;

significando con tale atto la confessione fatta a’piedi del sacerdote, figurato da lui per l’Angelo, per esser chiamati i sacerdoti spessissime volte nelle sacre scritture angeli e ministri di Dio, come son propiamente gli Angeli. E dipoi lo prega ancor similmente ch’ei lo meni a l’Inferno dicendo:

E color che tu fai cotanto mesti,

cioè quegli spiriti dolenti, i quali stanno in tanta mestizia e in tanta miseria, secondo che tu di’, cioè che io ho saputo da te per revelazione, e non per il mio discorso il quale non può, come si è detto di sopra, pervenire per sè stesso e umanamente in cognizione di così profondi e occulti segreti. Dopo le quali parole soggiugne Dante, che Virgilio di subito si mosse, ed egli gli tenne dietro e seguitollo; e qui è posto da lui fine al primo capitolo di questa cantica, e noi porremo ancor similmente fine a questa lezione.

Note

  1. Cr. nel.
  2. Ediz. il quale essendo.
  3. Cr. Iddio.
  4. Cr. Da Pier le tengo.