Lettere dieci di Virgilio agli Arcadi (1800)/Lettera I
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LETTERA PRIMA
PUBLIO VIRGILIO MARONE
A’ Legislatori della nuova Arcadia,
TUtto l’elisio, o Arcadi, è posto in tumulto dagl’italiani poeti, che, d’ogni età, d’ogni stato, qua scendono in folla ogni giorno a perturbare la pace eterna de’ nostri boschetti. Par che la febbre, per cui gli abderiti correvan le strade recitando poemi, sia venuta sotterra co’ vostri cantori, verseggiatori, e poeti importuni a profanare con barbare cantilene ogni selva, ogni fonte, ogni grotta sacra al silenzio, e alla pace dei morti. Ogn’italiano che scende tra noi, da alcun tempo in qua, parla di versi, recita poemetti, è furibondo amatore di rime, e recasi in mano a dispetto di tante leggi infernali, o tometto, o raccolta, o canzoniere, o sol anche sonetto e canzone, che vantasi d’aver messa in luce, benchè a tutt’altro mestier fosse nato. Or pensate, Arcadi magistrati, in qual confusione sia tutto il nostro pacifico regno poetico. Orazio, Catullo, Properzio, e gli altri miei vecchj compagni latini, e greci, che non han meco tentato per calmar questa insania? Ma peggio abbiam fatto. Costor ci trattano con disprezzo, non fan conto di greci, nè di latini, e dicono apertamente di voler oscurare la nostra fama, e scuotere il giogo dell’antichità per tanti secoli, e da tante nazioni portato. Giunse talun di loro a rimproverarci l’ignoranza del linguaggio italiano, per la quale non possiam noi giudicare, essi dicono, della moderna poesia. Mi son dunque applicato con esso gli amici a conoscere la vostra lingua, nè difficile è stato a noi l’impararla poichè in gran parte è la stessa, che noi parlammo, vivendo in mezzo a Roma con gli schiavi, col popolo, e con le femminette. A voi non è ignoto, che oltre alla lingua latina più nobile, e più corretta, che gli scrittori, e i patrizj usavano, un’altra era in uso tra ’l volgo, che popolare dicevasi, come legger potete in Cicerone, e molti de’ vostri dotti han mostrato, se il ver mi un certo vostro autore per nome Celso Cittadino già tempo fa, e recentemente Scipione Maffeio, uomo, che alla modestia, all’eloquenza, al sapere mi parve più tosto del mio, che del secolo vostro.
Lo studio da me postovi nuovamente m’ha fatto più familiare l’italico idioma, e in questo vi scrivo, temendo assai non sia forse usato abbastanza il latino tra voi, nè molto inteso, come vediamo di tanti poeti, che a noi vengon d’Italia tuttodì. Che se voi trovate tuttor nel mio stile qualche aria di latinità mi scuserete, sapendo non giugnersi mai al possesso d’una lingua non propria, e molto men della vostra presente, che sembra diversa da quella de’ vostri Padri dell’ottimo secolo, e forestiera lor sembra oggi quaggiù. Per altro qual essi la scrissero, e quale anche oggi si scrive da chi ben la studia, a noi parve bellissima. Riconosciamo in essa ricchezza, e pieghevolezza mirabile, chiarezza, armonia, dignità, e forza con altre doti acquistate da lei ne’ cinque ultimi secoli, in che maggiormente da chiari ingegni fu coltivata. L’amico Orazio al leggere un giorno certe poesie (frugoniane si nominavano io credo) d’armonia piene, di colori, e di grazia, preso da un estro improvviso gridò a noi rivolto, o matre pulcra filia pulcrior, applicando a questa figlia della lingua latina quel verso da lui fatto in altro proposito. E nel vero piace a noi tutti singolarmente la figlia, perchè ha schifati con gran vantaggio que’ suoni troppo conformi, e quelle tante, e sì tetre terminazioni in um ur us, che disfiguravan la madre.
Egli è ben vero, che nell’italica poesia trovammo da prima qualche spiacevole novità. L’infinito numero e qualità di versi differenti, grandi, mezzani, e piccioli, tronchi e sdruccioli, tutti ad accento e non a misura, or troppo simili, or troppo diversi nel suono; senza fissi riposi, e rompiture, onde par verso ogni parlare; infin quanto era nuovo per noi ci nojava. Soprattutto le rime strana cosa ci parvero, e barbara usanza, e quasi un sussidio trovato per supplire al mancamento della dolcezza, e maestà del verso. Ma con l’assuefare l’orecchio a quell’eco perpetua siamo venuti a sentirvi un piacer nuovo, e troviamo più venustà, e più vaghezza in cotanta varietà di metri e di accenti quando son maneggiati da mano esperta. I pregiudizi in fine, che neppur la perdonano ai morti letterati, svanirono, e col tempo e colla docilità siam giunti a gustare le nobili poesie del vostro parnaso. Orfeo stesso, che non ha mai degnato di cantare su la sua cetera versi latini,e a paragon de’ greci non può soffrirli, fa udir sovente ai boschi, e ai fiumi di questo soggiorno dolcissime canzoni italiane, mentre io con Omero godiam di parere a noi stessi più gravi, e più armoniosi mettendo le nostre similitudini, e le più vive immagini dentro un’ottava rima, quasi in più nobil quadro. Ma non così dolci nè così belle troviam d’ordinario le poesie di coloro, che nuovamente vengon dai vivi, e di versi italiani ci assordano. Quindi costoro, che per profession di poeti son puntigliosi, e per ignoranza superbi, ci sprezzano, e fanno insulto. Qual diletto, e qual pregio possiamo in farti trovare nell’opere loro, che nulla hanno di poesia fuorchè qualche suono? Noi che sappiamo non consistere la poesia in parole ed in suono se non quanto son le parole espressioni d’immagine, ovver d’affetto, e il suono stromento d’inganno e di diletto, come possiamo non esser nojati da’ loro versi esanimi, e scoloriti, e freddi più che ogni prosa? Veramente ci fa maraviglia che una lingua, e una poesia, come la vostra, che tanto abbonda di termini proprj espressivi sonori, che ha si gran libertà e varietà di costruzione, tanta dovizia di modi e di frasi, onde ha fatto raccolta amplissima, più che altro idioma, da’ greci, latini, iberi, galli, e perfino da’ teutoni, e con ciò sì mirabile facilità di far versi, pur nondimeno sì poco riesca a far de’ poeti. Forse che il clima è cangiato, che le generazioni degli uomini sono deteriorate, che le lettere son decadute? Certo è che da gran tempo in quà non è comparso tra i morti alcun poeta veramente sublime, un Omero, un Orazio, un Properzio italiano, benchè poemi, e canzoni, e sonetti a migliaia siano usciti in Italia senza fin, senza termine, e senza misura dal Tasso e dal Chiabrera in qua. Alcun di noi ciò ripensando ha creduto, che la troppa facilità appunto di verseggiare, altri che la moltitudine de’ poeti, e delle accademie, che ascolto incontrarsi persin ne’ villaggi, altri che la cieca imitazione de’ vostri antichi, ed altri, che altre cagioni producano questa sterilità. Io penso che da tutte derivi, e principalmente dalla falsa idea, che della poesia fannosi gl’italiani mal prendendo i suoi vecchj maestri ad imitare come esemplari eccellenti in tutto e perfetti. Hanno degli Enni, e da’ Pacuvj, che non discernendo adorano ancora con una cieca superstizione, ed a peccato terrebbono il sci sospettare in essi d’imperfezione. Da essi imparano una poesia di parole, e prendono i modi più inopportuni, e più aspri alla poesia dilettevole, e illustre, quasi bellezze consacrate dal tempo, e dai servili adoratori. Io voglio parlarvi di questo inganno alquanto posatamente. Ciò credo esser permesso a Virgilio senza pericolo dopo morte, ed in luogo ove l’invidia non può. L’amor della patria, e della poesia, che mi segue ancora tra l’ombre è quel sol che mi spira, e se da un morto la verità non udite da chi la sperate oggimai? Qui non giunge l’adulazione, o la gloria de’ titoli, nè privilegio, o mercede, o diploma vi chieggo. Voi sedete legislatori, e giudici in un tribunale supremo di poesia; voi mandate colonie poetiche in ogni terra italiana; voi date poetica cittadinanza perfino ai re dell’Europa, e alle nazioni straniere, e in ciò sembrate antichi romani: dee dunque piacervi il mio zelo. Che se alcuno se ne dorrà, e leverà la voce contro di me, ricordisi almeno, che parla a un morto.