Leonardo prosatore/Medaglione leonardesco/L'uomo
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L’UOMO
La vita e l’opera di Leonardo sono state sempre, per una specie di fatalità, avvolte nel mistero, e lo sono in gran parte anche ora, nonostante le ricerche d’archivio e la pubblicazione dei manoscritti.
Rovinate o scomparse le poche sue opere di pittura e scultura, noi intuiamo la sua arte somma più che altro dagli schizzi e dai giudizi entusiasti dei contemporanei.
Quanto al suo sapere scientifico, disconosciuto o mal noto per lunghi secoli e solo ora cercato di penetrare nel suo giusto valore con l’esame delle fonti, ci riempie di ammirazione, sebbene sia doloroso e stupefacente constatare che esso non ebbe, si può dire, nessuna influenza sul movimento scientifico del Cinquecento.
Il suo destino d’artista e di scienziato è strano; se non possiamo certo accusarlo d’impotenza, pure sentiamo che la principale ragione per cui Egli non lasciò grandiose opere d’arte e di scienza sta, probabilmente, non nei casi esteriori, meri giochi della sorte, ma nella tempra della sua indole che, di tutti i misteri leonardeschi, è certo il maggiore.
Imperfettamente conosciamo l’artista, ancor poco sicuramente lo scienziato, ma peggio di tutto l’uomo.
Le sue note scientifiche sono, naturalmente, impersonali; l’arte ispirata dalla profonda osservazione oggettiva non dalla passione intima; scarse e al tutto esteriori le notizie dei più antichi biografi, i pochi ricordi personali aridissimi. Per forza di cose, un saggio che cerchi di rievocare l’anima di Leonardo non può essere che un tentativo interessante, ingegnoso, d’un ardire che rasenta quasi la temerità, ma abbozzo e non più.
Di questo abbozzo arduo cercheremo le linee essenziali sopratutto nelle sue prose, nella certezza che, se molto mancherà, almeno non vi sarà nulla di troppo lontano dal vero, e nella speranza che qualche osservazione buona e nuova ne risulti.
Recentemente, alcuno accusò, diremo così, d’impotenza scientifica Leonardo, perchè le sue teorie, non tradotte nella pratica, non poterono imporsi ai suoi contemporanei. Si obbietta: gli mancarono i mezzi per poter spiegare e applicare le verità intuite; ma questo solo in parte vale, poichè la cosa si ripete tal quale per l’opere d’arte ch’Egli idea e non traduce in atto, abbozza e abbandona anche dopo lunghi anni di studio, per i trattati di cui non restarono che frammenti: per essi certo non gli mancavano i mezzi!
E neppur si può parlare d’incostanza, accusarlo con Sabba Castiglione di «naturale leggerezza e volubilità di talento», no, perchè ogni pagina dei suoi manoscritti ci prova giorno per giorno, ora per ora, che la sua vita fu tutta data a un unico scopo d’osservazione e di riflessione intensa, per raggiungere finezze d’arte o verità scientifiche non ancora trovate, e a questo nobile scopo mai non venne meno.
Piuttosto si potrà dire:
che sempre l’uomo, in cui pensier rampolla |
D’osservazione in osservazione, di riflessione in riflessione, l’orizzonte s’allargava per Leonardo, che spinto dall’avida curiosità dell’indagatore abbandonava, senza rammarico, l’idea geniale balenatagli, più bramoso di teoria che di pratica, più di nuove verità che d’applicazione sistematica e paziente.
Così preferiva il teorizzare sull’arte al dipingere o allo scolpire; così, per un’analoga ragione psicologica, preferiva gli schizzi colti sul vivo o gli abbozzi di composizioni fantastiche, al diligente pennelleggiare per compiere un ritratto, un affresco.
Indecisione, incertezza, abulia? Ma che! Bisogna essere molto arditi per affermare ciò di chi sapeva in tempo relativamente brevissimo ideare la Battaglia d’Anghiari e finirne il cartone; bisogna confondere l’impotenza che indugia a sofisticare con la incontentabilità che è altissimo rispetto per l’arte e acuto sprone al progresso, l’indecisione nata da sterilità penosa di mente con la meditazione necessaria conseguenza della fecondità prodigiosa.
Non per impotenza, come pure, in un momento di malumore, Ludovico il Moro aveva mostrato di credere, Egli s’affaticò lunghi anni (e poi il primo modello compì in un solo mese, l’agosto del 1489!), intorno alla statua equestre di Francesco Sforza, ma perchè, spinto sempre dal desiderio di nuove ricerche sull’anatomia del cavallo e da nuove visioni d’arte, voleva raggiungere una verità artistica e insieme scientifica che nessuno aveva prima sognata: supremo ideale e alta ambizione nello stesso tempo; non «per vergogna», come motteggiava Michelangiolo, Egli abbandonò quella scultura, ma perchè costretto dal precipitare degli avvenimenti.
Per il Cavallo abbandonato, per il Cenacolo, per la Battaglia d’Anghiari che perivano davanti ai suoi stessi occhi, Leonardo non ha nei suoi manoscritti una parola di dolore; solo nota seccamente, riferendosi al primo, in mezzo a una folla di cenni per noi oscuri e aridi, ma per lui certo ben amari: «il Duca perse lo Stato e la roba e la libertà e nessuna opera si finì per lui».
Probabilmente provò dolore, ma lo tenne, secondo il suo costume, chiuso in sè, e probabilmente anche gli passò presto, perchè l’interesse, l’amore di Leonardo per le sue opere dura quanto il periodo della creazione. Poi Egli se ne disinteressa, quasi non gli appartenessero più, come accade in molte tempre di vigorosa energia creatrice.
Infatti, mentre prima che la visione d’arte abbia raggiunto nella sua fantasia la potenza espressiva e l’armonia di composizione a cui Egli tende, sono continui gli schizzi e gli studi, poi, raggiunto il fine a cui mirava, non la traduce sulla tela, o se lo fa, lo fa con grande impazienza. Dinanzi all’«Adorazione dei Magi» incompiuta, o al cartone della «Sant’Anna», o al disegno della «Madonna coi fusi», che non dipinse mai, Egli probabilmente pensava (come l’Alberti del dirigere le fabbriche), che «l’ordinare è opra signorile, l’oprare è atto servile», e affidava ai discepoli, perchè le eseguissero sotto la sua direzione, le tele di cui veniva continuamente richiesto, come la «Madonna» di casa Litta, la «Santa Famiglia» nel Museo dell’Eremitaggio, la «Vergine della Bilancia» nel Louvre, ecc.
Notiamo inoltre, quasi per concludere queste osservazioni opposte all’accusa d’impotenza e d’incostanza, che Leonardo mirò sopratutto nella vita a soddisfare se stesso, gustando i mirabili piaceri della contemplazione delle cose e della meditazione; Egli è un nobile epicureo dell’intelletto che vuole godere la vita dello spirito con piena libertà, non un ambizioso ostinato e incostante a seconda che gli suggerisce l’eccessivo desiderio d’onori e di fama.
In uno studio di questa natura credo che ci si possa giovare solo con grandissima cautela delle sentenze, delle favole, delle profezie, dei motti leonardeschi che furono da Lui pensati, o trascritti da autori precedenti, per servire — almeno in gran parte — a eleganti conversazioni, a pitture allegoriche, a imprese cavalleresche, ma, per quanto si debba andare coi piedi di piombo prima di ricavarne conclusioni intorno all’indole, ai sentimenti intimi dell’artista, pur non si può tacere che la maggior parte delle favole e molte sentenze s’appuntano contro l’ambizione, l’irrequietezza, l’incostanza (le ultime due Leonardo fa quasi sempre figlie della prima), e non si può negare che la sentenza: «Nella contemplazione delle cose sta la calma e il piacere della vita», e l’altra contro gli ambiziosi che si rovinano la vita da se stessi non intendendone l’utilità e la bellezza, non siano profondamente sue, oserei dire rampollate interamente dal suo ideale.
Del resto, dopo aver — ripeto — premesso che le sue sentenze non debbono essere tenute in conto di note autobiografiche, sostengo che è ben difficile trovare un disaccordo tra le idee morali su cui più insiste e quel che sappiamo della sua vita. Parla contro l’amore del danaro e non un atto ce lo palesa avaro (la filastrocca latina posta sotto la nota del prestito di 13 fiorini a Salai credo si debba considerare come una specie di profezia e d’ammonimento scherzoso verso se stesso), ma molti indifferente o prodigo; parla contro la moda che muta continuamente e da un’esagerazione cade nell’esagerazione opposta e sappiamo che portò sempre una ricca, elegante, ma dignitosa e unica foggia di vestimento; parla contro le passioni sensuali, e non d’una resta la traccia in scritti suoi o dei contemporanei, tanto bene le seppe vincere o nascondere; parla esaltando la solitudine, madre di profondi pensieri, e vive la maggior parte solo; dà consigli di elegante e saggia conversazione e acquista fama di attraentissimo parlatore.
Unico fatto che contrasti con i suoi scritti sono le disposizioni testamentarie per il suo funerale, in cui larga parte è data alle cerimonie del culto, spregiato un tempo nelle Profezie, e posta fede nella intercessione della preghiera venale degli ecclesiastici, stimmatizzata già come inutile e ingannatrice. Certamente colpisce un testamento simile in chi osava scrivere liberamente: «Del vendere il Paradiso. - Infinita moltitudine venderanno pubblica e pacificamente cose di grandissimo prezzo, senza licenza del padrone di quelle, e che mai non furon loro nè in lor potestà, e a questo non provvederà la giustizia umana». Parole certo che se non puzzano proprio di Riforma, neppure odorano di santimonia, e mostrano sicura indipendenza di spirito.
Il Vinci non fu apertamente un incredulo: «lascio stare le lettere incoronate», Egli dichiara, al pari di parecchi suoi contemporanei irreligiosi sino alle midolla, e paghi d’un ossequio apparente che permetteva loro di conservare intatto l’organismo delle loro teorie demolitrici; ma, appena può, muove assalto alle «cose mentali che non sono passate per il senso», e le giudica vane e dannose e nate da debolezza e povertà d’ingegno, ossia, insieme con la negromanzia e l’alchimia, condanna la metafisica e implicitamente la teologia che vogliono definire che cosa sia anima e vita, cose improvabili, e analizzare la mente di Dio, in cui è incluso l’universo, sminuzzandola come si potesse anatomizzare. Cose da lasciare, conclude ironicamente, «nelle menti de’ frati, padri de’ popoli, li quali per inspirazione; sanno tutti li segreti».
Ma pur schernendo la speculazione astratta, e proclamando (sua gloria) alto il valore dell’esperienza per il progresso della conoscenza umana, Egli non è nè un ateo nè un materialista, anche se neghi, come fa, la vita dello spirito separata dal corpo fra gli elementi, e dubiti assai chiaramente della vita oltretomba.
Restano di Lui alcuni abbozzi di preghiera, alcuni gridi d’ammirazione stupefatta dinanzi alla cagione prima del mondo; restano di Lui alcune sentenze che affermano la sua fede nel potere dello spirito: «I sensi sono terrestri, la ragione sta fuori di quelli quando contempla», — «Il corpo nostro è sottoposto al cielo, e lo cielo è sottoposto allo spirito». E come diversamente poteva pensare chi tutta la vita consacrò alle pure gioie dell’intelletto, chi sdegnò le chimere medievali che ancora si ornavano pomposamente del nome di scienza, ma fu tutto preso dai novelli ideali dell’arte e della scienza?
Veramente Egli fu il cavaliere dell’Idea, così fedele a lei che gli uomini, dai contemporanei fino a noi, gli rimproverarono d’aver trascurato la pratica, d’aver dato poco più che abbozzi e frammenti, invece che quadri e trattati.
Sarebbe strano il volere costruire coi pochi passi che il Vinci ci ha lasciati una filosofia vinciana spiritualista, ma anche par strano — almeno a me — negare il nome di filosofo a chi così addentro vide nella vita universale e con sì ampio sguardo dominatore, solo perchè di contro alle sofisticherie, alle utopie pedantesche, alle superstizioni chimeriche del Medio Evo, proclamò base del rinnovato edifizio del pensiero umano la positiva esperienza.
Ritornando alla questione del testamento, diciamo pure che noi preferiremmo un Vinci fedele, fin nei suoi tardi anni, fin negli estremi giorni, al primitivo spregio verso i cupidi prelati e le pratiche esteriori, ma — anche supposto che agli usi testamentari d’allora fosse possibile sottrarsi — sarebbe inumano fargliene un capo d’accusa: ben si sa che questi ritorni alla fede dell’infanzia sono comuni anche ai nostri giorni, e erano allora più che mai capibili e giustificabili.
Ben più grave enimma dell’anima di Leonardo è la sua apparente freddezza di fronte a qualsiasi avvenimento.
Gli muore il padre, Ludovico il Moro perde lo stato e la vita, il servitore gli ruba a man salva con una sfrontatezza incredibile, l’amico suo Giacomo Andrea da Ferrara viene suppliziato, e Egli nota seccamente i fatti, nè addolorato nè iroso nè avvilito.
Quando le ragioni dell’arte o della scienza predominavano, ben si capisce come Leonardo facesse tacere ogni sentimento che potesse turbare la serena osservazione; ma negli altri casi? Si noti, per esempio, l’indifferenza serena con cui osserva il cadavere del Baroncelli impiccato il 19 dic. 1479 in Firenze. Aveva quasi sicuramente l’incarico di ritrarlo, a perpetua esecrazione e a spavento dei partigiani dei Pazzi; perciò — vicino al disegno a penna — v’è la nota degli abiti e del loro colore compilata con tutta tranquilla esattezza. E, come bella prova della sua indifferenza di scienziato, si legga la descrizione che Egli fa della sezione cadaverica del vecchio centenario che aveva assistito nell’Ospedale di Santa Maria Nova. Ma — ripeto — e negli altri casi?
Numerose sono le conoscenze e le amicizie che Egli rammenta nei suoi manoscritti, ma quasi tutte hanno un carattere spiccatamente intellettuale. Pare che lo interessino non gli uomini, ma solamente le discussioni filosofiche, scientifiche, artistiche, il prestito d’un libro desiderato, la spiegazione d’un teorema. Pure, Egli che nelle pitture e negli schizzi si rivela acuto osservatore dell’espressione dei sentimenti, doveva essere profondo conoscitore dell’anima dei suoi amici!
Le favole, i motti, le facezie e più di tutto le caricature lo mostrano ironico di fronte al genere umano; in Lui non la solitudine selvaggia, l’ira irruente, la tetraggine disperata di Michelangiolo, nonostante la visione amara, spesso pessimistica del mondo, di cui parleremo tra breve.
Coi fratelli si mantiene in buone relazioni anche dopo che hanno tentato di togliergli l’eredità; annota senza collera, anzi quasi con l’interesse che desta una cosa curiosa, le bricconate del servo Giacomo; protesta, ma calmo, contro le prepotenze di Giovanni degli Specchi; trova, finalmente, un accento di dolore più che d’indignazione contro quest’ultimo solo quando, per opera delle sue maldicenze e istigazioni, il Papa gli proibisce l’anatomia, e l’amara ironica invettiva solo quando gli studenti coi loro schiammazzi interrompono e impediscono le sezioni cadaveriche: non gl’interessi materiali riuscivano a turbarlo, ma gli ostacoli frapposti scioccamente o iniquamente all’acquisto della scienza. Allora orgogliosa nella sua eloquenza è l’apologia ch’Egli fa dell’uomo sapiente, cioè di se stesso, ergendosi a giudice e a condannatore del vile gregge umano.
Son questi gli unici accenni che suonino rancore in tutti i manoscritti leonardeschi; neppur l’inimicizia ingenerosa di Michelangiolo vi trova un’eco. Del resto, anche nel racconto dell’Anonimo, Leonardo arrossisce ma tace, come sdegnando rispondere al motteggio ingiusto. Non indifferenza, non viltà, impossibili entrambe; forse superbo dominio di sè?
«No si po aver magior nè minor signoria di quella di se medesimo» — Egli scriveva, e si sarebbe lieti di poter dire che così bella fiera sentenza traesse dalla propria vita, ma ahi! Egli la tolse, invece, quasi parola per parola al cap. 32° del Fiore di Virtù.
A ogni modo, certo Leonardo si chiuse nel cuore il mistero dei suoi più cari sentimenti, nè mai, per quanto sappiamo, s’abbandonò a scatti di sdegno, a avvilimenti profondi, a passioni turbinose.
Non è possibile, io credo, parlare seriamente d’un amore per monna Lisa del Giocondo, perchè nessuna traccia ne resta, nè nella famosa pagina macchiata del Codice Atlantico, nè molto meno nel trattato della Pittura. Del resto, se quella macchia impenetrabile d’inchiostro fu davvero fatta ad arte da Leonardo per nascondere ai curiosi lo sfogo d’un momento di passione, quale migliore prova ch’Egli considerava simili confessioni come debolezze e se ne vergognava? e quale miglior prova che noi invano tentiamo di sollevare il velo del suo misterioso spirito? poichè, con fermo proposito, Egli nei suoi manoscritti avrebbe taciuto e cancellato il ricordo di tutto quello che veramente l’appassionava come uomo, scrivendo solo quel che l’interessava come scienziato e artista.
Quegli ch’ebbe in sè la radice |
Leonardo! — Ecco come, tutt’all’opposto di quelli che l’accusano d’impotenza, d’abulia e d’incostanza, il D’Annunzio e molti appassionati studiosi di cose vinciane vedono il Grande: un semidio, che abbandonate le cure terrene, spazia con serena fronte e olimpico sguardo nei regni dell’arte e della scienza.
E forse sbagliano: considerare tranquillità quel ch’era aspro freno di sè, indifferenza quel ch’era amaro dispregio conquistato dopo dure prove. Infatti, nei suoi scritti restano le tracce, finora non avvertite e studiate, d’una profonda tristezza e d’un profondo sprezzo per gli uomini.
Nulla di più ingiusto che chiamarlo, come s’è fatto, «il pittore del sorriso». L’enimmatico sorriso della Gioconda, del San Giovanni, della Sant’Anna, trasformato spesso in una stereotipata smorfietta da discepoli e ammiratori, diventò quasi la marca della sua scuola, marca, ereditata dal Verrocchio, di soavità tenerezza che v’è in alcune opere del Maestro, ma che venne estesa, per quell’amore di classificazione schematica ch’è la passione del genere umano, a tutta l’arte del Vinci, dimenticando volentieri ch’Egli ha creato il mostruoso il comico e il tragico, ha ritratte le viscere scorticate sulla tavola anatomica e i petali della violetta, i profili bestiali e i viluppi di mostri e di cavalieri, le megere infuriate e le fragili testoline dei bimbi, la catastrofe del Diluvio e le morbide mani della cosidetta Gioconda.
A distanza di tanti secoli, dopo che faticosamente abbiamo riconquistato le scoperte e le invenzioni sue, Egli ci appare un dominatore, la sua solitudine in mezzo ai contemporanei calma eroica, l’obbiettività impassibile dei suoi scritti riflesso sicuro della su anima scevra di passioni e di torbide tristezze, l’euritmia che domina fin nel momento tragico del Cenacolo indice della suprema serenità, non solo dell’artista che sapeva congiungere la potenza espressiva e la grazia armoniosa, ma dell’uomo che, nell’ideale della verità e della bellezza, obliava il peso dell’esistenza.
Ripeto: probabilmente c’inganniamo. Quante volte, nel declinare rapido della sua vita troppo intensamente vissuta, Egli ha confessato a se stesso la vanità dell’esistenza; quante volte il suo pensiero s’è arrestato sospeso sull’abisso del tempo, sentendo sotto ventare il gelo del nulla e ha liricamente espresso il suo sbigottimento!
È un pittore innamorato della bellezza fuggitiva delle forme, ma è anche un poeta dalla fantasia tetra e grandiosa che canta: «O tempo, consumatore delle cose, e, oh! invidiosa antichità, tu distruggi tutte le cose! e consumate tutte le cose dai duri denti della vecchiezza, a poco a poco con lenta morte! Elena quando si specchiava, vedendo le vizze grinze del suo viso fatte per la vecchiezza, piagne, e pensa seco perchè fu rapita du’ volte».
Fugge il tempo: «l’acqua che tocchi de’ fiumi è l’ultima di quella che andò e la prima di quella che viene, così è il tempo presente»; fugge, e conduce alla morte. La fine della vita che è? Il nulla. Chiaramente a più riprese Leonardo dice la sua incredulità d’un’esistenza oltretomba; l’unica sopravvivenza possibile dopo la morte è quella che dona la gloria.
Destino comune: tutte le vite del regno vegetale e animale precipitano nel nulla; non le cose, ma l’essenza delle cose permane. Amara filosofia: il perenne rinnovellarsi della materia, la trasformazione perenne dell’energia non hanno mai consolato alcuno della breve e dolorosa vita. Eppure l’uomo, sebbene sappia ch’ogni attimo lo avvicina alla sua distruzione, sempre desidera il futuro, sperando in esso quel bene di cui finora non ha goduto, e «non s’avvede che desidera la sua disfazione».
Peggio: irrequieto scontento, l’uomo, per il miraggio ingannatore del futuro, stenta, fa sacrifizi si rode, consuma miseramente il presente, rovina la sua vita, e desidera la rovina degli altri; necessità spinge gli uomini a cacciarsi l’un l’altro.
Una dolorosa feroce lotta: ecco la vita.
Può almeno l’uomo avere un conforto nell’amore? Nessuna traccia nei manoscritti leonardeschi dell’amore platonico che così ardenti entusiasmi destava nel secolo epicureo di monsignor Bembo, anzi trascritta una canzonatura all’indirizzo del lauro cantato dal Petrarca:
Se ’l Petrarca amò sì forte i’ lauro, |
Resta l’amore sensuale, ma questo ben si capisce come poteva esser visto da Lui che considerava unica vera vita quella dell’intelletto: lo condanna con parole in cui vibra un’acre ripugnanza estetica (brutte le membra, gli atti), e la tristezza di gravi riflessioni.
Piacere e Dispiacere Egli raffigura con le schiene voltate, ma binati sullo stesso corpo: sono contrari l’uno all’altro, ma hanno unico fondamento; è il leopardiano piacer figlio d’affanno, ma è anche l’affanno figlio del piacere. Pare ch’Egli abbia sentito la tristezza cupa della carne soddisfatta quando l’anima è insoddisfatta. Egli che, certamente, non incontrò mai anima vera d’amante.
L’infermità, la debolezza, la corruzione perenne del corpo umano gli appare, certi momenti, in tutta la sua bruttura; serrata la gola dal disgusto dell’animalesca materia, insiste, come chi non sa sottrarsi al fascino dello schifo, su quel che la vita fisica ha di ripugnante, con parole che rammentano quelle di certi asceti, Egli che pur seppe vincere l’orrore e la nausea davanti ai paurosi cadaveri squartati, Egli che altre volte innalza un inno alla meravigliosa struttura dell’uomo, e proclama santo il rispetto della vita altrui.
«L’omo e li animali sono propio transito e condotto di cibo, sepoltura d’animali, albergo de’ morti (facendo a sè vita dell’altrui morte), guaina di corruzione ». Guaina di corruzione! frase di vigore dantesco.
Inferiore l’uomo a molti animali per l’imperfezione dei suoi organi del senso, ma ancor più per la vanità della sua intelligenza presuntuosa, per la crudeltà del suo cuore rozzo. Tra l’uomo e le bestie, Leonardo, tutto sommato, preferisce le seconde.
Di lui si dice che tanto rifuggi la ferocia comune da non mangiare più carne (vero? chi sa! dai conti dei suoi manoscritti non risulta, ma bisogna notare che teneva presso se famigliari e servi a cui forse non garbava il suo sistema vegetariano); si dice che appena vedeva uccelli prigionieri li comperasse per liberarli: gentilezze di filosofo poeta che si ribella a costumi brutali; ma di Lui sappiamo anche che assisteva all’uccisione dei maiali, studiando con vivissima attenzione le contrazioni del cuore trafitto da un lungo acuminato stile, esperienze sul vivo che perdevano, davanti al suo alto intelletto, ogni carattere d’atrocità perchè loro scopo non era soddisfare un bisogno o un gusto materialaccio, ma un desiderio di conoscenza scientifica.
Quindi l’amore e la pietà di Leonardo verso le bestie non è certo sentimentalismo di spirito malato di languori romantici, e le sue parole che condannano l’uomo di fronte agli animali sono voci d’un ben grave pessimismo.
«L’uomo ha gran discorso, del quale la più parte è vano e falso; li animali l’hanno piccolo, ma è utile e vero; e, meglio è la piccola certezza che la gran bugia». Inteso deputati, avvocati, medici, professori, giornalisti, eccetera? il vostro gatto di casa, il quieto filosofo del non sempre quieto focolare domestico, è più saggio e veritiero di voi.... perchè parla meno.
All’uomo, invece, basta saper ciarlare; non gl’importa se la sua conoscenza sia fondata o no, s’imbottisce d’una scienza confusa, parolaia, in fretta e furia, per rivenderla al più presto.
Re degli animali, uomo, ti proclami? Ma io meglio direi re delle bestie, essendo tu la maggiore! nessuna commette le atrocità che tu commetti. Sconvolgi la natura per soddisfare i tuoi ingordi bisogni: «tutti li animali langniscano empiendo l’aria di lamentazioni, le selve ruinano, le montagne aperte per rapire i generati metalli». Che cosa direbbe Leonardo oggi che per cupidigia di guadagno si deturpano le più meravigliose bellezze della natura?
Pur questo è nulla: «Ma potrò io dire — Egli continua — cosa più scellerata di quelli che levano le lalde al cielo di quelli che con più ardore han nociuto alla patria e alla specie umana?». Adoratori dei guerrieri, dei dominatori, degli uomini politici, avanti! quest’è per voi.
Leonardo, vissuto presso un Ludovico il Moro, un Cesare Borgia, non parla mai, si può dire, di politica, ma se ne parla, vedete? non parla per inchinarsi con la moltitudine pecorile, sempre prona dinanzi a chi la batte, sempre idolatra di chi la sgozza, ma per buttare in faccia al genere umano la sua ferocia e la sua vigliaccheria.
L’uomo è preda delle sue passioni appunto quando più crede di governarle, l’uomo ama i suoi vizi, anzi riesce a persuadersi che siano doti amabili e preziose: è Leonardo che dice questo, non io... E lo dice con arguzia.
Non si può dire, certo, che il Vinci aduli i suoi simili! Dall’alto della sua fiera solitudine, importuni pappagalli gli parevano gli umanisti, i filosofi, e i pseudoscienziati del suo tempo; belve i guerrieri e gli uomini di stato, e contro loro armava la sua prosa saettante; il resto degli uomini... pecore e talpe e muli cocciutissimi, quando non peggio. Dagli uomini solo dediti alle cose materiali torceva lo sguardo, come da oggetto ripugnante, e parlando di loro li soffocava (mi sia permesso il paragone barocco), sotto un mucchio d’ingiurie immonde, le sole degne di loro:
«So che molti diranno questa essere opra inutile, e questi fieno quelli de’ quali Demetrio disse non faceva conto più del vento il quale nella lor bocca causa le parole, che del vento ch’usciva dalla parte di sotto, uomini i quali hanno solamente desiderio di ricchezze, diletti... E spesso quando vedo alcun di questi pigliare essa opra in mano, dubito non si come la scimia sel mettino al naso, o che mi domandi se è cosa mangiativa».
Nessuno, però, dei passi vinciani citati raggiunge la fredda amarezza mista di sarcasmo, d’un abbozzo di lettera a un suo fratello, scritto in occasione della nascita di un nipotino. Mai, oso dire, uomo — per quanto spietatamente scettico, per quanto dolorosamente sfiduciato — ebbe il coraggio di scrivere quanto Leonardo scrive. Michelangiolo vecchio, accasciato, si duole anch’Egli col Vasari che Lionardo suo nipote abbia festeggiato con pompa la nascita d’un altro figlio, non parendogli quello tempo d’allegrezze, e stimando non doversi riserbare le feste a chi nasce, ma a chi muore dopo una vita bene spesa. Malinconiche riflessioni, ma che non hanno nulla dell’acre pessimismo leonardesco.
«... intendo come hai fatto strema allegrezza; il che, stimando io tu essere prudente, al tutto mi son chiaro come i’ sono tanto alieno da l’avere bono giudizio, quanto tu dalla prudenza; con ciò sia che tu ti se’ rallegrato d’averti creato un sollecito nemico, il quale con tutti li sua sudori disidererà libertà, la quale non sarà sanza tua morte».
Di dove gli veniva tutta quest’amarezza, quest’acredine contro l’umanità? Certo da un’osservazione freddamente acuta, simile a quella che esercitava sui fatti fisici, uguale a quella che fu gloria dell’amico suo, il Machiavelli, ma certo, anche in parte dalle condizioni sue speciali di vita.
Assorto nell’arte e nella scienza, schivò i legami dell’affetto, gli mancarono le più soavi illusioni; quel che gli fu cagione della più superba gioia, l’altezza e la vastità immensa dell’intelletto, gli fu cagione della più profonda amarezza: l’indifferenza ottusa, la diffidenza maligna, la superstizione cieca della folla l’offendevano appena usciva dal suo orgoglioso isolamento.
«La somma felicità sarà somma cagione della infelicità, e la perfezion della sapienza cagion della stoltizia» : grido dell’anima offesa, confessione sfuggita al grande superbo!
Pensiamo il frutto della sua vita, com’Egli lo doveva a volte vedere, in un lampo: poche l’opere condotte a termine e che destarono lo stupore e l’ammirazione, parecchie le fallite o incompiute, molte le invenzioni scientifiche lasciate a mezzo, molte le scoperte afferrate o intraviste e conservate gelosamente nel suo secreto; tutto questo doveva essergli soma ben grave di scontento, d’amarezza e nel medesimo tempo d’orgoglio.
Stolido chi mette in piazza il frutto del suo studio! la sua generosità sarà pagata a colpi di sferza o di scure: questo dicono le favolette del noce e del fico che furono schiantati a furia per aver fatto pompa dei lor dolci figliuoli. La dura esperienza della vita gli ha insegnato a diffidare e a disprezzare; perciò Egli nasconde al profano vulgo i suoi secreti maravigliosi.
«Non insegnare e sarai solo eccellente!» — ammonisce con superba durezza, facendosi del suo sapere rocca e olimpo, ma poi, subito dopo (curioso!) annota con la modestia d’una massaia, bonariamente: «To’ garzone semplice e fatti cuscire la vesta in casa». Strana inafferrabile anima!
Erra d’osservazione in osservazione, di meditazione in meditazione con inesausto ardore di verità, non mai soddisfatto, e sentenzia: «Non si debbe desiderare lo impossibile». Norma della saggezza sua o grido d’angoscia? E così, fredda constatazione d’una legge generale, o concitato accento di dolore traboccato dalla piena dell’anima: «dov’è più sentimento li è più martiri, gran martiri»? Non certo questo egli traeva dai moralisti antichi o medievali... E neppure: «Il voto nasce quando la speranza muore».
Basta; pur dopo questa troppo rapida scorsa, mi pare che non si possa più vedere nel Vinci il semidio che, sgombro d’ogni cura e d’ogni tetraggine, vive serenamente la sua solitaria vita intellettuale fonte d’altissime gioie: il Vinci fu uno spirito equilibrato, certo, che dominò col freno della mente le sue passioni (anzi volle, probabilmente, di proposito tacerle a noi), ma fu anche uno spirito abbeverato d’acre amarezza, un giudice spietato della vita umana, che guardò il mondo con supremo disprezzo, dall’alto del suo orgoglio e. deila sua smisurata sapienza.
Il contrasto fra l'idealità e la realtà della vita, ancora una volta, faceva d’un grande intelletto un grande solitario.