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non si come la scimia sel mettino al naso, o che mi domandi se è cosa mangiativa».

Nessuno, però, dei passi vinciani citati raggiunge la fredda amarezza mista di sarcasmo, d’un abbozzo di lettera a un suo fratello, scritto in occasione della nascita di un nipotino. Mai, oso dire, uomo — per quanto spietatamente scettico, per quanto dolorosamente sfiduciato — ebbe il coraggio di scrivere quanto Leonardo scrive. Michelangiolo vecchio, accasciato, si duole anch’Egli col Vasari che Lionardo suo nipote abbia festeggiato con pompa la nascita d’un altro figlio, non parendogli quello tempo d’allegrezze, e stimando non doversi riserbare le feste a chi nasce, ma a chi muore dopo una vita bene spesa. Malinconiche riflessioni, ma che non hanno nulla dell’acre pessimismo leonardesco.

«... intendo come hai fatto strema allegrezza; il che, stimando io tu essere prudente, al tutto mi son chiaro come i’ sono tanto alieno da l’avere bono giudizio, quanto tu dalla prudenza; con ciò sia che tu ti se’ rallegrato d’averti creato un sollecito nemico, il quale con tutti li sua sudori disidererà libertà, la quale non sarà sanza tua morte».

Di dove gli veniva tutta quest’amarezza, quest’acredine contro l’umanità? Certo da un’osservazione freddamente acuta, simile a quella che esercitava sui fatti fisici, uguale a quella che fu gloria dell’amico suo, il Machiavelli, ma certo, anche in parte dalle condizioni sue speciali di vita.

Assorto nell’arte e nella scienza, schivò i legami dell’affetto, gli mancarono le più soavi illusioni; quel