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le disposizioni testamentarie per il suo funerale, in cui larga parte è data alle cerimonie del culto, spregiato un tempo nelle Profezie, e posta fede nella intercessione della preghiera venale degli ecclesiastici, stimmatizzata già come inutile e ingannatrice. Certamente colpisce un testamento simile in chi osava scrivere liberamente: «Del vendere il Paradiso. - Infinita moltitudine venderanno pubblica e pacificamente cose di grandissimo prezzo, senza licenza del padrone di quelle, e che mai non furon loro nè in lor potestà, e a questo non provvederà la giustizia umana». Parole certo che se non puzzano proprio di Riforma, neppure odorano di santimonia, e mostrano sicura indipendenza di spirito.
Il Vinci non fu apertamente un incredulo: «lascio stare le lettere incoronate», Egli dichiara, al pari di parecchi suoi contemporanei irreligiosi sino alle midolla, e paghi d’un ossequio apparente che permetteva loro di conservare intatto l’organismo delle loro teorie demolitrici; ma, appena può, muove assalto alle «cose mentali che non sono passate per il senso», e le giudica vane e dannose e nate da debolezza e povertà d’ingegno, ossia, insieme con la negromanzia e l’alchimia, condanna la metafisica e implicitamente la teologia che vogliono definire che cosa sia anima e vita, cose improvabili, e analizzare la mente di Dio, in cui è incluso l’universo, sminuzzandola come si potesse anatomizzare. Cose da lasciare, conclude ironicamente, «nelle menti de’ frati, padri de’ popoli, li quali per inspirazione; sanno tutti li segreti».
Ma pur schernendo la speculazione astratta, e