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rilità penosa di mente con la meditazione necessaria conseguenza della fecondità prodigiosa.

Non per impotenza, come pure, in un momento di malumore, Ludovico il Moro aveva mostrato di credere, Egli s’affaticò lunghi anni (e poi il primo modello compì in un solo mese, l’agosto del 1489!), intorno alla statua equestre di Francesco Sforza, ma perchè, spinto sempre dal desiderio di nuove ricerche sull’anatomia del cavallo e da nuove visioni d’arte, voleva raggiungere una verità artistica e insieme scientifica che nessuno aveva prima sognata: supremo ideale e alta ambizione nello stesso tempo; non «per vergogna», come motteggiava Michelangiolo, Egli abbandonò quella scultura, ma perchè costretto dal precipitare degli avvenimenti.

Per il Cavallo abbandonato, per il Cenacolo, per la Battaglia d’Anghiari che perivano davanti ai suoi stessi occhi, Leonardo non ha nei suoi manoscritti una parola di dolore; solo nota seccamente, riferendosi al primo, in mezzo a una folla di cenni per noi oscuri e aridi, ma per lui certo ben amari: «il Duca perse lo Stato e la roba e la libertà e nessuna opera si finì per lui».

Probabilmente provò dolore, ma lo tenne, secondo il suo costume, chiuso in sè, e probabilmente anche gli passò presto, perchè l’interesse, l’amore di Leonardo per le sue opere dura quanto il periodo della creazione. Poi Egli se ne disinteressa, quasi non gli appartenessero più, come accade in molte tempre di vigorosa energia creatrice.

Infatti, mentre prima che la visione d’arte abbia raggiunto nella sua fantasia la potenza espressiva e