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scivano a turbarlo, ma gli ostacoli frapposti scioccamente o iniquamente all’acquisto della scienza. Allora orgogliosa nella sua eloquenza è l’apologia ch’Egli fa dell’uomo sapiente, cioè di se stesso, ergendosi a giudice e a condannatore del vile gregge umano.

Son questi gli unici accenni che suonino rancore in tutti i manoscritti leonardeschi; neppur l’inimicizia ingenerosa di Michelangiolo vi trova un’eco. Del resto, anche nel racconto dell’Anonimo, Leonardo arrossisce ma tace, come sdegnando rispondere al motteggio ingiusto. Non indifferenza, non viltà, impossibili entrambe; forse superbo dominio di sè?

«No si po aver magior nè minor signoria di quella di se medesimo» — Egli scriveva, e si sarebbe lieti di poter dire che così bella fiera sentenza traesse dalla propria vita, ma ahi! Egli la tolse, invece, quasi parola per parola al cap. 32° del Fiore di Virtù.

A ogni modo, certo Leonardo si chiuse nel cuore il mistero dei suoi più cari sentimenti, nè mai, per quanto sappiamo, s’abbandonò a scatti di sdegno, a avvilimenti profondi, a passioni turbinose.

Non è possibile, io credo, parlare seriamente d’un amore per monna Lisa del Giocondo, perchè nessuna traccia ne resta, nè nella famosa pagina macchiata del Codice Atlantico, nè molto meno nel trattato della Pittura. Del resto, se quella macchia impenetrabile d’inchiostro fu davvero fatta ad arte da Leonardo per nascondere ai curiosi lo sfogo d’un momento di passione, quale migliore prova ch’Egli