Le solitarie/Gli adolescenti

Gli adolescenti

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Anima bianca Il crimine
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GLI ADOLESCENTI.

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Le due voci avversarie giungevano sino alla camera della fanciulla, urtandosi come spade aguzze, già insanguinate in punta, nel pugno di due esperti duellanti.

Quella dell’uomo, bassa, profonda, ostinata, senza alzarsi mai di tono ripeteva accuse ed ingiurie d’una trivialità che esasperava persin l’aria e le pareti. Quella della donna saliva e scendeva a sbalzi, scoppiava in stridule risate convulse, a volte netta e crudele in frasi che si piantavano sillaba per sillaba nel cuore nemico, chiodi in un muro: a volte gutturale, morente, soffocata nella gorgia da una mano di ferro.

Antonella era, purtroppo, avvezza a quei litigi. Da anni, quasi ogni settimana ne scoppiava uno. La sua bionda puerizia s’era [p. 86 modifica] schiusa alla luce dell’adolescenza, e stava per rasentare le soglie della giovinezza, respirando a fatica in quell’atmosfera di odio coniugale senza perdono, senza nobiltà, senza tregua. Ella preferiva, del resto, l’eco fischiante delle baruffe ai lunghi silenzi che le seguivano e alle pesanti ore dei pasti, durante le quali i due portavano a tavola i loro gesti macchinali e il loro volto chiuso, e non aprivan bocca se non per rivolgere qualche distratta domanda alla fanciulla.

L’acerba creatura, già conscia, allargava sull’uno e sull’altra gli occhi penetranti, raccontando storielle di scuola, chiacchierando volubilmente con istintiva furberia, senza attender risposta, convinta e orgogliosa di “sostenere una parte„. E ingoiava in fretta il dolce per scappare al pianoforte; e ne strappava tempeste di accordi.

Era certissima, oh, sì!... che suo padre e sua madre non avrebbero mai fatto divorzio. Ne sapeva anche il perchè, che essi non avevano avuto il pudore di nasconderle; e quel perchè la opprimeva come un rimorso, movendole quasi a colpa il fatto di essere nata. [p. 87 modifica]

— È per te, per te, mia bambina — le mormorava il padre, accarezzandole i capelli.

— È per te, per te, mia bambina — singhiozzava più tardi la madre, serrandola al petto con braccia che la passione e l’eccitazione nervosa rendevan d’acciaio.

Forse non era vero. Forse, nessuno dei due osava confessare a se stesso la ragione essenziale: che, cioè, entrambi eran giunti a non poter più vivere se non per l’acre bisogno di ferirsi, di dilaniarsi a vicenda, di affilare in punte acutissime d’odio quel che un giorno era stato amore, o illusione d’amore, in temperamenti terribilmente dissimili, fatti per urtarsi senza rimedio.

Tanto vi era avvezza, che nemmeno quella mattina Antonella si scompose nell’udire le voci violente. Ebbe soltanto un breve sorriso sarcastico, e continuò impassibile a spazzolarsi, dinanzi allo specchio della sua cameretta piena di luce, i lunghi capelli color ciuffo di pannocchia.

Quella strana tinta arsiccia era il suo orgoglio. Intrecciò le dense masse, le ravvolse in due semplici giri intorno al capo, secondo la foggia russa. La raggera d’un rosso fosco [p. 88 modifica] rendeva più bianco il viso, che nel fiero disegno delle labbra e nel verde-grigio cangiante degli occhi recava l’inquietante mistero d’un’anima già offesa dalla brutalità della vita.

Chiudendo con un secco “tic„ i ganci automatici della camicetta candida e della sottana blu, si mise a canterellare. Si mise, — con forza, per null’altro intendere, per interporre una barriera fra sè e le due belve che si azzannavano a pochi passi da lei, — a pensare che la mattina di maggio era velata ma dolce, che non sarebbe piovuto, che i pomari dello Zürichberg erano ancor tutti in fiore, che Nellie Altwegg l’aspettava lassù, e lungo la strada ella avrebbe incontrato Petruccio.

“Petruccio, Petruccio„ modulò sul ritmo d’un tango argentino, mentre di là veniva il fracasso d’una sedia buttata in terra, di due o tre rauche imprecazioni, e il mugolio disperato della donna fuor di sè.

Poi, la porta d’uscita sbattè sui cardini.

Il padre se n’era andato, certamente: succedeva sempre così. Pochi minuti dopo, dalla finestra, Antonella lo scorse camminar lungo [p. 89 modifica] il marciapiede, con le mani nelle tasche e il mento sul petto, come uno che abbia freddo.

E nella casa fu un gran silenzio.

Tutta pronta nel succinto costume da passeggio, tutta fine e magretta dal piede calzato di camoscio nero alle trecce chiuse nel piccolo elmo di paglia blù, solo ornato di due alette candide, Antonella, nel corridoio, volse la testa per non incontrare gli occhi di Janna, la cameriera che passava in quel momento con un vassoio, scivolando tacita e ambigua con piedi feltrati. — Aveva notato da un pezzo che tutti i servi hanno la stessa faccia, quando i padroni litigano: faccia da schiaffi, compunta e soddisfatta, falsa, acre ed avida del peggio. — La sedia in sala da pranzo era stata rimessa al posto. Un odore dolciastro di acqua di melissa ondeggiava nell’aria. La fanciulla si chinò sul volto della madre, abbandonata in una poltrona; baciò la fronte sbarrata di sbieco da una ciocca grigia.

Ah, che tristezza, per Antonella, quella ciocca resa grigia non dall’età ma dalla sofferenza, quella bocca contratta, quelle chiuse [p. 90 modifica] palpebre violette, quell’infinita stanchezza materna!...

Ma dalla chiara fronte, dalla chiara voce l’emozione non trasparì.

— Mamma, mammina, come ti senti adesso?... Meglio?... Ripòsati, quiètati. Dovresti farti una ragione, ormai!... Aspetta: ti metto un cuscino dietro la testa. Io vado da Nellie, lo sai, nevvero?... per quel sunto di storia e quel famoso ricamo che non finisce mai. Rimarrò da lei a colazione: lo sai, nevvero?... Oggi è vacanza....

La madre non sollevò nemmeno il capo. Era piena del proprio spasimo, non capiva altro. Gli occhi le si dischiusero un istante, àtoni nelle orbite bistrate dalla passione, enormi nel piccolo volto ancor giovine malgrado i solchi.

— Sì, cara — accennò con le labbra.

E Antonella partì dalla casa come chi fugge da un sotterraneo dove si muoia di asfissia. Evitò ancora, nell’anticamera, lo sguardo di Janna che le apriva la porta; ma Janna non ne fu sorpresa, nè malcontenta. Ella s’era accorta che la giovinetta sedicenne intuiva e penetrava molte cose che a quell’età passano [p. 91 modifica] generalmente inosservate. E quel limpido ma acuto viso era specchio nel quale non amava mirarsi la creatura viperina, che, destramente rigirandosi fra la violenta sensualità del padrone e l’orgoglio della padrona chiusa nel suo rancore esasperato, approfittava dell’anarchia dissolvente la compagine di quella famiglia per raggiungere, nell’ombra, un suo scopo.

Nella fulva e verde solitudine della strada alberata salente verso la collina, Petruccio, che pedalava vertiginosamente, si arrestò di botto sul passaggio di Antonella.

Il bel ragazzone bruno e muscoloso, dal sorriso brillante, dalle spalle quadre, scivolò dalla bicicletta, mise la mano al grigio berretto a visiera, e subito la stese alla fanciulla.

Erano rossi tutti e due, d’un rosso acceso di papaveri fra il grano. Poi divennero pallidi. E non si dissero niente. Sì, la solita, l’eterna parola si dissero, cogli occhi. E seguitarono il cammino, lei tormentando il manico [p. 92 modifica] dell’ombrello, lui tirandosi dietro la bicicletta come un buon cane pel collare.

Intorno era il silenzio: il quieto silenzio dei giardini dello Zürichberg, che pare soffochino sotto la lussureggiante verzura le villette troppo piccole, vestite di piante rampicanti.

I peri e i pèschi avevan finito di fiorire; ma i cotogni, più tardivi, eran tutti una nuvola bianca e rosea, e continuavano in terra l’aspetto del cielo, velato di nubi leggere, moventisi, sovrapponentisi in taciti cumuli. — Uno scoppio di vegetazione, una pletora di linfe. — Terrazze chiuse da vetri colorati, coperte di glicini dai fittissimi grappoli, d’un viola quasi grigio: alberi di serenelle, carichi più di fiori che di fronde, in un’armonia delicata di ametista, di lilla, di bianco latteo: biancospini, azalee, e le piogge d’oro dei citisi, a trabocco dalle basse cancellate dei parchi: e verde, verde, verde di tutte le sfumature, denso, fronzuto e trionfante, solo interrotto dai solchi delle stradette uguali, perdute l’una nell’altra, a somiglianza dei viali d’un labirinto. Nella sua veste primaverile, Zurigo, dove Antonella era nata da genitori italiani, dove Petruccio aveva [p. 93 modifica] conosciuta la sua “Gioietta„, pareva dire ai due bellissimi adolescenti: Sì, sì, avete ragione d’esser giovani e di volervi bene.

La prima a trovar la parola fu Antonella.

— Peccato che i peri non abbian più fiori, adesso!... — (E le tremava la voce, quasi che davvero fosse un gran lutto per lei, che i peri non avessero più fiori.) Te ne ricordi, che maraviglia, due settimane fa?... Neve: neve odorosa....

— Sì — rispose Petruccio. — Ma non son belli anche questi?... Guarda, Gioietta.

E colse da un ramo di cotogno due o tre campanelline rosee.

Gli uccelli saltabeccavan sui loro passi, senza paura. Un passerotto faceva comodamente, ai loro piedi, il suo bagno di terra calda, tuffandosi con voluttà nella sabbia, scotendosela intorno col raspar delle zampette e il frullar delle ali. Essi si sentiron simili a quegli uccelli, a quei petali di cotogno, perduti nella primavera. Non tanto però, che la realtà d’ogni giorno non li uncinasse dentro, col duro artiglio.

Dietro le profumate nuvole dei fiori, dietro il turbamento ineffabile del giovanissimo amore, [p. 94 modifica] Antonella intravide due devastati volti, riudì due voci fischianti a fionda: Petruccio ritrovò l’eco del pianto di sua madre — una pallida signora milanese venuta da un anno a Zurigo col pretesto apparente di avviare il figlio agli studi d’ingegneria, col vero scopo di ottenere la cittadinanza svizzera per divorziar dal marito; che, sul limitare della cinquantina, aveva perduto la testa per un’attrice di cinematografo.

E vibrarono, nel pensiero comune; e la comune sofferenza li serrò più vicini. Tanto, non passava un’anima: non vivevano, in giro, che i passeri e gli alberi.

— Ebbene, Gioietta, sempre malinconie, nella casa?...

— Sempre. E da te?...

— Sempre. Mammà scorre le sue giornate, ormai, negli uffici degli avvocati. Intanto dimagra, si affila, s’inasprisce, perde il sonno e la grazia. Quando è a stremo di forze si aggrappa a me, e geme sulla mia spalla: (io sono tanto più alto di lei!...) “Mi resti tu solo, mi resti tu solo!...„

— Poveretta!...

— È da compiangere, sì. Ma non potrebbe, [p. 95 modifica] invece di accanirsi nel rancore, considerar la follia, certo passeggera, di mio padre, come una malattia terribile dalla quale si esca o morti, o purificati?... È così difficile compatire?... è così difficile perdonare?... Io dovrò lavorare, viaggiare, farmi una posizione, una famiglia. Non potrò sempre starle accanto. Che farà, quando rimarrà sola?...

— No, Petruccio. Forse non si può sempre perdonare. Forse si giunge, talvolta, al punto dopo il quale il perdono non è più possibile.... Li vedi tu, mio padre e mia madre, in pace?... Ah, l’odio coniugale!... È una cosa terribile. Una volta almeno avevano il pudore della mia presenza. Ma già da un pezzo non mi sentono più, non ascoltano che il loro grido. Se l’un dei due non ammazza l’altro, è perchè non potrebbe continuare a vivere senza aver sotto le mani l’oggetto della sua demenza. Ma io non so aiutarli. Anche tu non sai aiutar la tua mamma. Io penso a te mentre si accapigliano: a te, a te, Petruccio!... Perchè non si separano?... Per me, dicono. Disgraziati che sono!... Petruccio, bisogna salvarmi, bisogna che ci salviamo insieme....

Il consapevole visino pallido, levato [p. 96 modifica] supplichevolmente verso di lui, aveva tanta dolorosa grazia che il giovine ne tremò. La bicicletta fu appoggiata contro una siepe di biancospini; le mani si strinsero, gli occhi si bevvero.

— Ma noi ci sposeremo, non è vero?... quando io sarò ingegnere. E staremo sempre vicini, e ci vorremo un gran bene, e le cose tristi saranno dimenticate.... Gioietta!...

— Senti, Petruccio. Vorrei dirti una cosa che, se ci penso, mi fa male al cuore. Noi non amiamo, come dovremmo, nostro padre e nostra madre. Di chi è il torto?... Chi ha mancato?... noi, o loro?...

La risposta non venne. Era già scritta, inappellabile, nei cuori. Per proprio conto essi entravano nella vita, mettendo l’amara esperienza a servizio della propria felicità. L’esistenza era per loro. Era piena di fiori e di frutti. Tanto peggio per chi restava indietro, per chi aveva sciupato l’amore, lasciato disseccare i rami, morir le radici, isterilire il campo.

Ella si mosse:

— Per carità!... È tardi. Nellie mi aspetta. Devo affrettarmi. [p. 97 modifica]

— Non ancora!... non ancora!...

Avevan ripreso a camminare, lei, lui e la bicicletta, fra un aereo svolar di petali a un improvviso alzarsi del vento.

Si susurravano, ora, piccole fanciullaggini senza nesso, senza senso comune. Tornavan bambini. Intorno, tutto era appena nato. Un pettirosso li guardava, da un ramo di mandorlo. Un ragazzetto passò, col grembialino pieno di bacche rosse. Aromi a zaffate, d’una dolcezza amara, venivano dal traboccante rigoglio delle glicini. Da qualche nuvola, a capriccio, cadevan rade e intermittenti gocce d’acqua.

— Hai un cappellino nuovo. Ti sta bene.

— L’ho guarnito da me.

— Ci vai, domani, alla scuola?... Io passerò alle sedici, tornando dal Politecnico. Aspettami.

— Mi fermerò un minuto sull’angolo di Rämistrasse.

— Ma non ti mettere, sai, quell’orribile giacca sciolta color mattone, colla cintura bassa. Non voglio. È troppo ardita. Tutti ti guardano....

— Geloso!...

— Cattiva!... [p. 98 modifica]

— Tu, sì, sei cattivo. Ne vuoi la prova?... Hai il labbro inferiore che sporge, e i denti aguzzi, da gatto, troppo bianchi. Sei cattivo, sarai un marito violento, mi farai scenate tiranniche, ed io allora....

— E tu, allora?... Tu che cosa?... Tu piangerai, e mi amerai lo stesso. Hai capito?...

Le aveva afferrato il polso, l’aveva attirata a sè, ridendo ma dominandola col torace ampio, con lo sguardo appassionato. Si compresero, impallidirono, nella sùbita angoscia del ricordo familiare. Ebbero in quell’attimo la coscienza che il loro fresco amore racchiudeva qualcosa di ben più grave dei soliti capricci d’adolescenza, nati e morti in un soffio: un bisogno d’armonia, prepotente come quello del pane e dell’acqua: un desiderio di avviticchiarsi alla creatura necessaria, di mantener sempre viva la fiamma, di sentirsi immuni dalla contaminazione della discordia che avvelenava le loro case.

— Adesso basta. Adesso va. Il villino di Nellie è a dieci minuti di distanza. Potrebbero vederti.

— Addio, mia piccola.

— Addio, mio signore. [p. 99 modifica]

Il dolce appellativo di antichi tempi cavallereschi sbocciò come un fiore sulle belle labbra gonfie di giovinezza.

Come un fiore, e come un bacio.

E Antonella si allontanò leggera all’ombra d’oro dei citisi, violacea delle serenelle; e Petruccio discese dall’opposto lato, sul suo rapido cavallo d’acciaio. L’animo d’entrambi era consolato: era una foglia nuova che brilla al sole, ancor tutta intrisa della freschezza della recente pioggia.