Le solitarie/Il crimine
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IL CRIMINE.
Il primo tocco della messa dell’alba non era ancor suonato, quella domenica, e già Cristiana scendeva la scaletta di legno che univa la sua camera alla cucina. Ma trovò il fornello già acceso; e, quantunque tazze e piattini fossero tutti allineati in ordine sulla rastrelliera, e il barattolo dello zucchero al solito posto, s’accorse, dall’aroma sparso nell’aria, che la vecchia suocera aveva già preso il caffè, di soppiatto.
I peccati di gola, costei li commetteva tutti di soppiatto. Per non avvezzar male la sposa, diceva. A volte era pure avvenuto che, udendo il passo di Cristiana all’uscio mentre stava sorbendosi un ovo fresco, presto presto aveva cercato di nascondere il guscio fra il proprio dorso e lo schienale della sedia. Ma, pochi minuti dopo, s’era alzata per le sue faccende, dimentica del sotterfugio; e il guscio infranto, schiacciato e viscido di giallume era apparso agli occhi beffardi di Cristiana.
La bella donna si sentiva, quella mattina, salir fino alla gola gli impeti di nausea che l’avevan tenuta insonne buona parte della notte; e l’aroma del caffè la faceva quasi svenire; ma, come al solito, per fierezza, non osò chiederne un sorso.
Avvicinatasi alla credenza, ne trasse una scodella di minestra della sera innanzi, e tentò ingoiarne qualche cucchiaiata; ma non potè. Lo stomaco si rivoltava al gelido cibo salato.
Si ravvolse il capo in una sciarpa nera; a pena volgendo gli occhi verso la vecchia, disse, con voce dura:
— Vado a messa. Buon dì.
— Buon dì — rispose la suocera, seduta a mondar legumi sul balcone di legno, dall’altezza del quale lo sguardo spaziava su un’infinita ondulazione di colline e di pianure, che nell’ora incerta parevan grigie, sotto un cielo grigio e rosa.
Ella era tuttavia fresca e maestosa, malgrado i suoi settantacinque anni: con una gran fronte convessa, la pelle tesa, le braccia legnose, aspre di nodi, e una sottilissima bocca rientrante, serrata, che sola diceva la vita trascorsa in durezza implacabile di fatica, in esercizio implacabile di virtù. Fatica e virtù ch’ella esigeva nei figli e nelle mogli dei figli; senza indulgenza per sè, senza indulgenza per gli altri.
Seguì coi piccoli occhi freddi l’uscir della nuora, stringendo le labbra e tentennando il capo, per sospetto, o per inquietudine, o, semplicemente, per tremilo senile: poi si rimise a mondar legumi, biascicando preghiere.
★
Cristiana camminava senza affrettare il passo, a testa alta, con l’innata dignità di portamento che in paese l’aveva fatta soprannominare: “l’Imperatrice„.
Era di corpo scultorio; e bella, se alla bellezza non nuoce la durezza altiera dell’espressione. Il suo grave profilo s’intagliava pallidissimo nell’ombra della sciarpa nera.
Come prevedeva, lungo la strada non in contrò nessuno. La chiesa era un poco lontana dal canton Prelle dov’ella abitava; e tutti i Prellesi, naturalmente, preferivano andar più tardi alla messa cantata, per aver agio di dormire. Sul viale di Sabbiarossa, fiancheggiato a sinistra dalla collina vitifera, a destra da un filare di acacie fiorite, s’appoggiò ad un tronco, stanchissima, con la bocca livida; il conturbante profumo dei candidi corimbi le faceva mancare il respiro. Pure cercò di vincersi; e continuò, più rapida, il cammino. Presso una cava di marmo fibrosa e spasimosa come una lacerazione in un corpo vivo, le si drizzò davanti l’uomo che aspettava, sbucato dalla capanna dello spaccapietre.
Entrambi strisciarono dietro la casupola, e rimasero addossati alla parete di legno, di fronte al ripido fianco del colle, spaccato dal piccone. Qualchecosa del muto tormento di quei macigni si rifletteva sul viso di Cristiana; ma l’uomo, — un magretto dai piccoli baffi, dal profilo femmineo — se ne stava freddo ed impassibile, come noiato.
— Che vuoi?... Di’, presto. Qualcuno può passare e scorgerci — mormorò lui.
Ella esitò un momento, lottando con la parola che la feriva a sangue prima d’uscire; poi sillabò, rauca:
— Ciò che temevo è vero. Dubitare non posso più.
Un silenzio seguì, pieno di cose non dette: durante il quale i due volti fissi l’uno nell’altro ebbero lo stesso color cinereo, la stessa immobilità.
— Che debbo fare?... Mia suocera se ne accorgerà, ben presto. Giacomo torna da Buenos Aires fra quattro mesi. Se tu non mi aiuti, io fuggirò, chi sa dove!... prima che lei mi svergogni, prima che lui mi ammazzi. Che debbo fare?... dimmelo tu....
— Ne sei proprio sicura?... — balbettò il giovine. E parve rimpicciolito, con lo sguardo incerto e sfuggente di chi respinga una responsabilità che lo spaventi. Cristiana lo affrontò, lo investì, amara, violenta.
— Verrei forse a raccontarti questo, se non ne fossi sicura?... Ascoltami, rispondimi. Mi hai pur detto tu, me l’hai detto tante volte, che mi volevi bene. Dunque.... è adesso, vedi, che me lo devi provare. Tu sei buon meccanico, io non mi stanco al telaio. In Francia, in Svizzera, in America, dove ti pare. Ti è così doloroso lasciare i tuoi?... Per me sola devi essere, ora. Dimmi di sì.
Gli si stringeva addosso, attanagliandogli gli omeri con le forti mani, avvezze al lavoro; e pareva lei l’uomo, tutta muscolo e volontà. Egli tuttavia sfuggì alla stretta, e torse la faccia: il fiato della bella donna, acido e greve pel disordine dello stomaco contratto, lo aveva fatto dare indietro, istintivamente.
— Càlmati: aspetta: forse t’inganni. La paura fa di questi scherzi. Come vuoi ch’io possa allontanarmi ora dal paese?... mia madre è malata di fegato, lo sai. Parleremo fra qualche giorno, con maggior quiete. Vien gente dalla cascina alle Vigne, non vedi?... il sole è già alto.
— Ma che debbo fare?... che debbo fare?... — ripeteva l’altra, con la monotonia dei maniaci.
— Oh, perdio!... Sai che cosa ti voglio dire?... Voialtre donne avete tanti mezzi, infine!... Non deve nascere: ecco.
Cristiana lasciò cader le braccia e lo guardò come si guarda un pazzo. Poi si mise a ridere, piano, a scatti.
— Ho capito — disse. — Addio, eroe.
Sempre guardandolo in faccia, mentre egli se ne stava immobile, indietreggiò di qualche passo, e girò l’angolo della capanna; poi si diresse, d’impeto, verso il villaggio, senza più curarsi di lui.
Nel subitaneo oscuramento delle facoltà, nella tenebra in cui l’anima brancolava, l’istinto guidava i suoi passi, come una mano ignota, ma sicura ed imperiosa, conduce quelli d’una cieca.
Liberarsi. Glielo aveva consigliato il suo amante. La parola, senza suono ma pregna d’un significato terribile, batteva batteva alle sue tempie, col picchiar sordo, uguale, incessante del martelletto d’una macchina. Liberarsi. Del vivo e del non ancor nato, nel medesimo tempo. Si vergognava di portar nel grembo l’impronta di colui, che non la voleva. Più del terrore d’uno scandalo, poteva su di lei quest’onta segreta. Eppure, come lo aveva amato!...
Quasi con rabbia, tanta era la passione. Ed egli, con che fame e con che furia s’era gettato su di lei, lungo i margini e dietro i macchioni delle complici scorciatoie selvagge!...
Femmineo, in apparenza; ma, solido, temprato, con denti a sega capaci di ben mordere, con mani salde capaci di ben scrollare. E quel suo ridere, un po’ gutturale! E quel suo modo di mormorarle sulla bocca, teso ed elettrico come un felino: — Adesso ti prendo, ti prendo.... —
Ah, basta.
La forza incomposta, virile, che nell’adolescenza l’aveva tante volte spinta con sassi e contumelie contro i compagni di scuola e di fabbrica, più robusti di lei, con la sfida sulle labbra: — Non ho paura, io!... — la rivolgeva e la premeva, ora, contro la più gelosa parte di se stessa, affinchè il segno dell’uomo estraneo venisse offeso, cancellato, disperso.
Dietro il vicolo de’ Fabbri, proprio all’entrata del villaggio, stava aggruppato un nodo di casupole lebbrose, con finestrelle scompagnate, con ballatoi di legno marcito, fra un insopportabile odor di stalla e di truogoli. Cristiana infilò un uscio, scese uno scalino e si trovò in una stanza più bassa del livello della via, mobiliata d’un lettuccio, d’un canterano, di due cassapanche e d’un’infinità d’immagini sacre a colori vivissimi. Una vecchiarda, seduta su una panca presso l’unica finestra, non si alzò nemmeno, al comparire dell’Imperatrice. Si accontentò di volgere verso di lei la testa calva, la faccia senza sguardo, di marmo giallo, che dimostrava cent’anni.
— Deo gratias. Che vuoi?...
Cristiana non rispose: rimase addossata allo spigolo, rigida.
— Chiudi la porta a chiave, allora — disse la vecchia.
Quando fu fatto, chiese, tranquilla:
— Dunque?...
Con uno sforzo, penosamente, confusamente, Cristiana si mise a parlare. L’altra la lasciò dire e dire, come se nemmeno l’ascoltasse; ma, quando la voce si ruppe in singulti di supplica angosciosa, crollò il capo, facendo segno di no, di no, di no. Fu un lungo combattere, fra quella singhiozzante preghiera e quel diniego muto. Esausta, Cristiana si lasciò cadere a terra, tutta in un gomitolo, con un gemito lungo di cagna. Solo allora vide la vecchia levarsi a fatica (e non le parve più alta di quando era seduta) e strisciar sulle ciabatte fino ad un usciolo che richiuse dietro di sè. Per qualche tempo (dieci minuti?... un’ora?...) silenzio. L’usciolo si riaperse: le due mani adunche stringevano una boccetta, piena di un liquido scuro e denso. E la porsero a Cristiana, mentre la sdentata bocca susurrava:
— Bere in tre volte: bada bene: in tre volte, a digiuno, all’alba. Poi lavorare, mangiare, camminare, come se nulla fosse. Qualunque cosa accada, tacere. Lo faccio per te, perchè mi fai compassione.... Hai capito?... Dieci franchi.
— Ne ho cinque. Porterò il resto.
Cristiana trasse di tasca un fazzoletto, ne sciolse una cocca annodata, donde uscì una carta bisunta, che pose sul canterano. Nello stesso fazzoletto nascose la boccetta, e rimise il tutto in tasca; poi, con un tacito cenno di grazie e di saluto, ritrovò la porta. La vecchiarda non la segui nemmeno, co’ suoi occhi bianchi: tornò, impassibile, a sedere presso la finestra, nascondendo il biglietto da cinque lire fra la camicia e la veste.
Ma altri occhi Cristiana doveva affrontare, sulla soglia della propria casa: scrutatori, e astuti, e nemici: gli occhi della suocera.
— Di dove vieni?... Bada, lo so che non sei stata in chiesa, alla prima messa. Me l’ha detto la Falletta. Sta attenta, Cristiana. Io son di guardia.
Molte volte le dure volontà delle due donne s’eran date di cozzo; e l’una aveva fatto fronte all’altra, senza che la vittoria rimanesse ad alcuna. Ma, quel mattino, l’Imperatrice non ebbe forza di rispondere. La madre le si drizzava davanti, al suo posto di custode della casa e dell’onore, inattaccabile nella vita rigidamente chiusa tra il focolare e l’altare, degna del comando e del giudizio, perchè degna di rispetto. E tacque; e salì, rapida, la scala.
Giunta nella sua camera, si strappò la boccetta di tasca. Il chiavistello dell’uscio non chiudeva bene: la madre, col suo passo cauto, reso sordo dalle pantofole a grossa suola di corda, avrebbe potuto entrar d’improvviso. Che fare?... La testa le girava vertiginosamente. Le si sfasciava la spina dorsale.
Per istinto di difesa, per impulso di follia, pel bisogno di compiere un atto selvaggio che a tante ansie ponesse un suggello definitivo, stappò la bottiglietta, e bevve a gorgozzule il giallastro fetente liquido, che le arse il palato e la faringe. Quando non ne rimase più una goccia, ricordò l’ammonimento della complice. — In tre volte. — Ma che importava, ormai?...
Una calma marmorea era succeduta all’angoscia spasimante: la sicurezza, l’impassibilità dell’atto compiuto. Atto che la distaccava dall’amante, gliela metteva lontana mille miglia, la liberava di colpo da lui, dal giudizio degli uomini, da tutto. Almeno così credeva. Rimorso?... Perchè avrebbe dovuto sentir rimorso?... Chi l’aveva aiutata?... Poteva morire.... Ebbene, pazienza. Chi l’amava?... Non la suocera, e nemmeno il marito: quell’allampanato Giacomo detto il Lungo, che dietro il miraggio della fortuna se n’era andato a Buenos Aires tre anni dopo le nozze, lasciando lei a casa per non aver “noie di donne in viaggio„. E non l’amante, vanesio, sonoro e vigliacco come i fuchi.
Un lieve picchio all’uscio la fece trasalire. Stette un minuto sull’attenti; ma era stato un falso allarme. Nascose allora la boccetta vuota in un mucchio di cenci entro una cassa: uscì, raccolse sul pianerottolo un fardello, già pronto, di biancheria sudicia; e, malgrado fosse domenica, andò a lavare alla fontana.
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La mattina del giorno dipoi la trovò smaniosa, febbrile, dopo una notte trascorsa fra brevi assopimenti lacerati da incubi, e risvegli improvvisi seguiti da ore di lucida insonnia. Onde impetuose di sangue le si avventavano a tratti dal grembo al cervello, lasciandole il cuore vuoto, naufragante in un languore di morte. A tratti, anche, un lancinante dolore le trafiggeva le reni; e pareva le portasse via brandelli di visceri.
Sentiva che un’agonia avveniva in lei, d’un altro essere in lei vivente. E, sentendoselo morir dentro così, cominciava a capire, ad amarlo, a spaventarsi di ciò che aveva commesso. Un mostruoso fatto stava accadendo, per sua volontà. Dalle radici della disumana sofferenza saliva un odio veemente contro l’uomo che se ne stava in quei momenti tranquillo, senza pensieri, senza rimorsi, senza che alcuno potesse fargli del male; mentr’ella, e chi si spegneva in lei, portavan soli il peso dell’amore, dell’errore, del delitto.
S’alzò, nondimeno, dal letto, resistendo allo spasimo, agganciandosi alla meglio gli abiti, urtando negli spigoli dei mobili.
Lo specchio le riflettè un volto verdastro, gonfio, segnato da solchi profondi: un volto che non pareva il suo, che sembrava salire a galla da un gorgo. Uscì, come di solito, per andare alla fabbrica, che si trovava giù nella valle: gai saluti l’accolsero per via:
— Ohe, Cristiana del Lungo!... — Ti son giunte lettere dall’America?... — Come va che ieri non t’abbiam vista alla sagra di Casapinta?... — Buon giorno, Imperatrice!... — La facciamo, questa volta, la strada insieme?... — Martin Pero era fuor della grazia di Dio, iersera, per non averti veduta. Voleva far con te un giro della nuova polca... —
A coppie, a gruppi, in fila indiana, fischiettando, scherzando, canterellando le novissime canzonette, operai ed operaie scendevan la china, chi per la strada maestra, chi per le scorciatoie. Le fanciulle ancor pallide di sonno, in camicetta candida e sottana attillata, pettinate con riccioli e nastri, si accompagnavano agli amanti, con la piena e superba libertà delle popolane, per le quali l’amore è un garofano rosso appuntato trionfalmente nei capelli.
Salaci frizzi correvano, risate alte e brutali scoppiavano. Mariettina Pria, dal musetto aguzzo di capra, dava, dondolandosi, la mano a Carlin Zoppetta, basso e membruto, geloso come un barbaro; e lui si guardava intorno con loschi occhi di sospetto, per paura che gliela portassero via. Càrola Gurda aveva rifatta la pace col capo reparto della filatura: camminavano stretti, in disparte, trasognati. L’orda adolescente degli attaccafili si ficcava dappertutto, fra le sottane delle donne, a un tiro di scappellotto dagli uomini, con risa e con motteggi.
L’alba frizzante, a lunghe strisce gialle e rosee nel cielo, fluttuava in veli di bruma lungo i pendii delle montagne, svegliava il torrente, frusciava fra la ramaglia, fumava dai comignoli delle casupole sparse, attendendo di fumar fra breve dalle ciminiere degli opifici. Alba di lavoro, che squillava la sua diana coi fischi delle fabbriche; e scopriva, al graduale avanzar della luce vette nevose, chiome lussureggianti di foreste ove spesseggiavano il castagno e la quercia, profili altissimi di colmigni dominatori, larghi tetti a cristalli di padiglioni americani, razzanti ai primi raggi del sole.
Ma Cristiana non la vide: non vide nulla, co’ suoi occhi che ormai non guatavan che in dentro, nell’oscurità delle viscere doloranti.
Passò coi compagni dal portone, attraversò il cortile, entrò nel suo salone, si trovò dinanzi al suo telaio, senza avvedersene. La motrice, tutta di ferro, si destò, al comando del capo meccanico che pareva, com’essa, di ferro; e il polso dell’opificio cominciò a battere.
Armonia concorde, formata di molte diverse armonie: scorrere di cinghioni, rombare e stridere d’ingranaggi, strepito di telai, sui quali i fili tramati dalle navette d’acciaio andavano e venivano in ritmo di flusso e riflusso: e rotear di cilindratrici e rapidissimo danzar di fusi d’ogni colore, e il turbinar delle due macchine da scardassi — il diavolino e il diavolone — , da cui la lana, ridotta in fiocchi aerei, balzava spumosa e tempestosa, come acqua di torrente a pena sgorgata dalle nevi d’un ghiacciaio. La musica sonora, fusa nei toni di innumeri strumenti, ripeteva una sua frase melodica, un suo leit-motif caratteristico, pieno di nobiltà. E operai ed operaie, vinti dall’incosciente gioia del ritmo, accordavano alla gigantesca sinfonia orchestrale la cadenza delle loro voci, con note larghe, lente, religiose, in coro.
Tutte le finestre erano aperte al sole e allo scroscio del torrente: nel cortile, di fianco alla tintoria, alcuni muratori innalzanti un nuovo padiglione, affaccendati fra pozze di calce, monticoli di mattoni, secchie, spranghe, scale e cazzuole, aggiungevano vita a vita, forza a forze: con quell’aspetto di gagliardìa, di bellezza e di speranza che sempre hanno gli uomini nell’atto del costruire.
A Cristiana sembrava di dissolversi in quell’onda di suoni, di perdere consistenza di forma umana, per non rimaner che un solo spasimo vaneggiante. Non era lo stridere degli ingranaggi; ma una diabolica macchina segante le sue reni: e il dolore urlava da sé, riempiva di sè tutta l’aria. Non rotear di cinghie e di cilindratrici; ma il suo cervello che girava, colle spole, coi dischi, colle pareti, coi canti. Qualcuno la mordeva dentro, la dilaniava per non morire, in una lotta bestiale, a corpo a corpo; e ripeteva, addentandola: — Non voglio: — ed ella s’abbandonava, fiaccata, mormorando: — Perdono. —
Finalmente ebbe pace, non seppe più nulla. Due tessitori la portarono a braccia nella stanza della custode, e la distesero su un materasso, fra sospiri e lamentazioni di donne. La moglie del direttore accorreva intanto con la cassetta dei medicinali, e il più veloce degli attaccafili si precipitava alla ricerca del medico.
Ma il medico era già partito, dall’alba, pel suo faticoso giro di visite su per la montagna; e non sarebbe tornato che verso il tramonto.
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— Secondina, oh!... Secondina!...
La donna, sulla cinquantina, fatticcia di corpo, con grossi e bonari lineamenti color mattone, capelli ancor brunastri e una singolare espressione di calma e di dolcezza nel viso, alzò il capo, sentendosi chiamare, dalla sua panca nella sala delle rammendatrici. Fece qualche domanda, udì qualche parola, comprese, sospirò, accorse.
Esperta di mali femminili, figlia d’una levatrice, e, per lunga umile pratica, più chiaroveggente, talvolta, d’un medico, non v’era inferma in paese ch’ella non avesse assistita. Vide subito di che si trattava: vide che Cristiana spirava nel proprio sangue. Con voce breve ordinò: — Acqua bollente!... poi, ghiaccio.
E si mise, con precisi ma leggerissimi movimenti, intorno alla disgraziata.
Mina, la custode, la seguiva come un’ombra, aiutandola trepidamente, con cordiali, garza, tamponi d’ovatta; e aveva l’aria d’una monaca nel suo pallore clorotico di magra zitella spaurita, scandalizzata, ma mite d’animo e pronta agli atti della pietà.
Quella vecchiaccia!... Secondina Cappio aveva veduta, il mattino avanti, la bella donna uscir dalla tana della cagna malvagia; e avrebbe giurato su Cristo che l’assassinio partiva di lì. Ella — ed altri con lei — conoscevan bene l’immondo traffico clandestino; ma nessuno, in quel paese industriale dove uomini e donne, di giorno e di notte, vivevan nelle fabbriche in un’enorme promiscuità, aveva il coraggio di denunziarlo.
— Cristiana, Cristiana, figlia mia, che hai fatto?...
Cristiana riapriva in quell’istante gli occhi attoniti e vitrei. Il suo viso era più bianco del lenzuolo: un’ombra violacea scendeva dalle occhiaie alle narici: le labbra non esistevan più: solo splendevano, crudamente, i denti di smalto fra i muscoli della bocca contratta.
— È giusto — mormorò in un soffio, riacquistando la conoscenza solo per aver la percezione della verità: della verità vera, dell’unica che si possa portar con noi nell’altra vita. Ella era sola con suo figlio sul limitare dell’ombra, misera creatura di carne, da sè medesima offesa nelle radici dell’essere.
Dove andava quel rigagnolo caldo e vermiglio, che usciva da lei, ch’ella sentiva scorrere scorrere scorrere?... Ed ella andava dietro quel rigagnolo, galleggiava su di esso, entrava con esso in un’oscurità senza spiragli, senza scampo.
Un rumor cadenzato le giungeva all’orecchio, a volte sommesso come un ronzio, a volte alto e pieno come un coro di chiesa: era la canzone dei telai, la vecchia canzone al cui ritmo era cresciuta e vissuta, in allegrezza ed in forza: e scendeva anch’essa con lei, la vecchia e nota canzone, nell’oscurità senza spiragli, senza scampo.
— È giusto — alitò ancora, tentando penosamente di sorridere alla Cappio e alla custode.
Il tempo passò, il tramonto calò. Partirono i muratori in silenzio, partirono cigolando i carri degli spedizionieri con le balle di stoffa, le macchine s’allentarono, poi tacquero. Ad uno ad uno, operai ed operaie, affacciandosi all’uscio della portineria, scambiavan qualche parola sottovoce, scotevano il capo, e s’allontanavano tristemente. Anche il dottore, accorso in furia verso le diciotto, dopo aver tentato invano qualche iniezione se n’era andato, masticando amaro e sogghignando verde, con una certa sua smorfia fra dolorosa e cinica, che gli scopriva i denti nerastri fra la barbaccia mal tenuta.
— Maledette le donne! Maledetti i loro pasticci!... Come se io non lo capissi, che cosa c’è lì sotto!... Roba da procuratore del re.... Taci, Bertoldo, e mangia la tua polenta. Tanto, chiaccherare non serve....
La suocera, avvertita della disgrazia fin dal mattino, non aveva voluto scendere alla valle. Rigida, diritta, colle mani scosse da un tremito, aveva balbettato: — Le sta bene. Dio le perdoni!... Mandatele un prete, che non muoia senza sacramenti. — E s’era chiusa nella cucina, a sgranare il rosario sulla pietra del focolare spento.
Il tempo passò, la luna sorse. Con la Cappio e con Mina, due altre donne, Romualda che era senza figlioli e Barbarella che non aveva nessuno, eran rimaste intorno all’inferma. Più nulla ormai era vivo di lei, se non la forma e un palpito impercettibile. Le vene s’eran vuotate del loro sangue violento: tutto si purificava nella dolcezza della morte vicina.
Quando Secondina s’accorse che le mani di Cristiana, tastanti a caso sulla coperta, eran divenute immobili, e anche l’ultimo lievissimo respiro era cessato, le chiuse piamente gli occhi, le mise un crocifisso sul petto e andò a spalancare la porta.
E la colpì una sensazione strana. Nella chiara notte, muraglie, montagne e cielo guardavan lei, non guardavan che lei, interrogandola. — L’edificio a tre piani, con tutte le finestre aperte come occhi, sormontato da una terrazza candida come una fronte, aveva la stessa espressione grave ed intenta della montagna a cui s’appoggiava, sparsa di lumi qua e là, nelle baite dei mandriani. La ciminiera tagliava in due il cielo stellato.
— C’è una morta, c’è una morta — diceva la lampada notturna, accesa ai piedi della ciminiera.
— C’è una morta, c’è una morta — ripetevano i lontanissimi fuochi delle baite.
— Come avvenne, come avvenne?... — chiedevano le finestre nere, spalancate come occhi.
Ma Secondina Cappio, nella propria umile esperienza, non ignorava che vi sono, per gli uomini e per le cose, molte domande che rimangono senza risposta. Tornò al fianco della bella donna irrigidita sul letto non suo: si strinse nello scialle perchè aveva freddo, e pregò sino all’alba.