Le rivelazioni impunitarie di Costanza Vaccari-Diotallevi/Considerazioni/VI

VI. — I documenti su cui si fonda la sentenza son falsi? Analisi degli uni e dell’altra

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VI. — I documenti su cui si fonda la sentenza son falsi? Analisi degli uni e dell’altra
Considerazioni - V Considerazioni - VII

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VI.

I documenti su cui si fonda la sentenza son falsi?
— Analisi degli uni e dell’altra


Non istante che l’indicata Sentenza per essere inappellabile formi cosa giudicata, e che essa a pag. 7 discorrendo dei delitti comuni che si pretendono coummessi dal partito Nazionale per ispirito di parte, e ricordando l’omicidio; del gendarme Velluti avvenuto la sera del 29 giugno 19861, dica essere indubitato che quell’omicidio fosse commesso dall’infelice, generoso ed onestissimo giovane Cesare Lucatelli, perchè una regiudicata; cioè una testa mozza per man del boia del Vicario di Gesù Cristo, non può giammai revocarsi in dubbio; pur tuttavia, il Comitato Nazionale; si permette di esaminare quei documenti per vedere se ciò che è vero in genere, se ciò che è vero in teoria, sia sempre ed egualmente vero in pratica ed in ispecie.

La Relazione Fiscale e la sentensa: parlando della persona che ba condotto la Giustizia pontificia a fare tutte quelle peregrine scoperte sul conto del Fausti, la chiama il denunciante, il riferente, il confidente. Ma che sotto l’articolo maschile si nasconda una persona appartenente al sesso femmineo, cioè Costanza Vaccari moglie di Antonio Diotallevi, è certo ed indubitato, non solo perchè è cosa oggimai notoria, ma anche per la ragione evidentissima, che, mentre l’Avvocato Dionisi erasi vigorosamente scagliato contro di essa nei §§ 5, 6, 7 della sua Difesa dimostrando il cumulo di enormità commesse dai Fisco nel dare ascolto e ricevere le [p. 36 modifica]rivelazioni che la Diotallevi veniva facendo, la Sentenza della Sacra Consulta, che è venuta alle prese con quella Difesa sforzandosi di ribatterla punto per ponto, non ha potuto negare il fatto, ma ha dovuto contentarsi di studiarsi a giustificare l’operato del Processante.

Ciò posto, e poste le osservazioni antecedentemente fatte rispetto alle rivelazioni della Diotallevi come impunitaria; vede ognuno quale e quanta fede possano e debbano meritare le rivelazioni da essa fatte come spia, o denunciatrice, o confidente che voglia chiamarsi. Vero è che il Processante e Monsignor Presidente del Tribunale, facendo uso pieno di quella scrupolosa coscienza, e di quella squisita e riposta sapienza che sono i loro più belli ornamenti, non vollero già contentarsi di sbare al detto della Diotallevi, ma vollero che le notizie che: costei veniva sciorinando profusamente avessero un appoggio che la coscienza loro scrupolosissima rendesse tranquilla e secura. Indipendentemente dal detto dettaspia, gli amministratori della Giustizia pontificia vollero avere una prova- che quanto dalla spia si riferiva era realmente vero! Vollero questa prova ragionevolissima anzi indispensabile; e l’ebbero, ammettendo a deporre come testimone giurato il degno e fido consorte della signora Costanza, il signor Antonio Diotallevi!! Sulla fede di costui nessuno al mondo avrebbe potuto concepir dubbio di sorta per la ragione palpabilissima, espressa dallo stesso Processante a pagina 278 della Relazione Fiscale; vale a dire che di quanto il signor Antonio veniva deponendo come testimone giurato, ne riceveva ©a lui, ossia da lei, cioè dalla moglie, immediate confidenze. Bene a ragione a questo proposito esclamava il Dionisi: Oh portentum vere novum, et magis verum, quam credibile!

Parlando di siffatte enormità, che nella storia dell’amministrazione della giustizia penale di tutti i tempi e di tutti i popoli non hanno l’eguale e neppure il simile, l’animo rimane talmente scosso e sorpreso, da non sapere se debba rabbrividire per l’orrore, o ridere per la novità del caso, quantunque sappia essere più che seria la materia a cui si riferisce, come quella che tratta [p. 37 modifica]di un processo criminale politico negli Stati della Santa Madre Chiesa, processo che al Fausti ha già fruttato venti anni di galera e la speranza della forca 1

Se non che non solamente le rivelazioni fatte dalla Diotallevi come impunitaria, tolgono fede a quelle fatte posteriormente come spia, ma la maniera colla quale essa si è comportata recitando questa seconda parte, è tale che quand’anche le rivelazioni impunitarie fossero veridiche, dovrebbero sempre, secondo la legge e secondo il senso comune, ritenersi false le altre. Insufficiente, ridicola era la causa di scienza che colei assegnava; alle sue rivelazioni impunitarie, ma pure una causa s’indicava; e con ciò se la legge ed il comune senso venivano violati in fatto, facevasi almeno mostra di rispettare l’una e l’altro in apparenza: allorchè però entra in iscena a recitare la parte di spia, non si mantengono più neppure le apparenze.

Chiunque oda a raccontare un fatto straordinario, che abbia in sè stesso dell’incredibile, prima pure di esaminarlo in sè stesso, si fa naturalmente a richiedere al narratore il come, ed il quando, da chi l’abbia saputo. Nei giudizi civili, che dei criminali hanno tanto minore importanza, quanto minore è l’importanza che la sostanza e la proprietà hanno rispetto alla libertà, alla vita, all’onore, non potrebbe essere valutata la testimonianza di chicchessia, se non rendesse buona ragione del come, del quando vide, o da chi e come udì il fatto che attestasse. Un testimone che richiesto della causà di scienza, o si ricusasse a rispondere o rispondesse: «Ho piena notizia del tal fatto, perchè ne ho notizia,» [p. 38 modifica]incorrerebbe in una presunzione gravissima di falso testimone.

Il Processante nel compilare la Relazione Fiscale del processo, la quale messa a stampa poteva vedersi dal volgo profano ed indiscreto, ebbe l’accortezza di dimenticarsi di dire come quell’essere misterioso sapesse le più minute cose del Fausti, come potesse procacciarsi quei documenti che leggonsi trascritti nelle pagine antecedenti. Era quello un felice fatto di memoria. Se si vuole, era o poteva essere una restrizione mentale che i moralisti della Compagnia di Gesù avrebbero potuto facilmente scusare ed anche difendere. — Chi non dice, tace; e tacendo non esclude: la gente, in cui comunemente prevale la buona fede, lungi dall’immaginare in un ministro della Giustizia un eccesso una enormità, una iniquità, che disimili non ha che quelle, delle quali tutto il processo abbonda, si sarebbe facilmente persuasa che se la causa della scienza non era indicata nella Relazione, esisteva peraltro nel processo originale. Ma furono veramente disgraziati il Collemassi, il Sagretti e Compagni, che dopo aver lavorato nelle tenebre, e per le tenebre indefessamente per lo spazio di oltre quindici mesi, ad un tratto videro squarciarsi portentosamente il velo che copriva l’opera loro nefanda, prima cotta sparizione di una gran parte del processo originale, poi cotta pubblicazione della Difesa del Dionisi la quale supplisce abbastanza la parte mancante di quello.

Questa Difesa ha fatto palese che la Costanza Diotallevi presentatasi il 3 febbraio 1863 al Processante, gli si offeriva pronta a dare le prove, inutilmente cercate per un anno, della reità liberalesca del Fausti. Dichiarava però al tempo stesso che le prove e le notizie che avrebbe potuto fornire in larghissima copia, essa non le aveva direttamente, ma per mezzo di un fido, di un intimo del Fausti, il nome del quale si ricusava di rivelare, dicendo forse come Papa Pio IX non posso, non debbo, non voglio. Il Collemassi che, sebbene Processante è, e sa essere un discreto e gentile cavaliere (qualche altra signora oltre la Diotallevi può renderne CjC . Me [p. 39 modifica]e ne rende testimonianza), vide e conobbe che le buone regole della cavalleria non gli permettevano d’insistere importunamente, in ispecie trattandosi di una signora riservala come la Costanza, e che già aveva dato prove certissime della sua lealtà e veridicità, facendo da impunitaria quelle rivelazioni che il signor Collemassi aveva veduto essere risultate vere in ogni parte! Ecco pertanto che siamo precisamente al caso pocanzi indicato di un testimone che, interrogato della causa di scienza, risponde: So la tal cosa perchè la so.

Il tribunale della S. Consulta che in seguito della pubblicazione della Difesa Dionisi s’è trovato spostato, cioè costretto a dover discutere innanzi al pubblico, si è sforzato a pag. 28 e 29 della Sentenza di dimostrare l’inefficacia dell’eccezione dedotta dalla mancanza assoluta della, causa di scienza nella persona della confidante 2 Il raziocinio del S. tribunale è tale per la forma e per la sostanza, che se venisse espresso con parole diverse da quelle da lai recate, potrebbe credersi travisato per ispirito di parte. Le precise parole son queste: «Ma l’inefficacia d’entrambe l’eccezioni si rendeva da sè stessa manifesta; perchè nè al denunciante nè al suo compagno (giova pur rammentarlo), non viene attribuita alcuna fede per loro stessi, ma sibbene alle verificazioni ed alle prove che possano somministrare; mentre poi la legge stessa ammette molto più in questi delitti, di tener segreta la persona del denunciante (salvo il caso di calunnia), e tale poteva pure in qualche modo riguardarsi anche l’innominato referente Ma checchè sia di ciò, col tenersi occulto il nome di costui ne discapita più la giustizia che l’imputato. Imperocchè mentre questi è nel pieno diritto di giovarsi di tutte le ipotesi possibili nel senso più lato e favorevole a sè stesso, circa le qualità personali ed interesse a mentire, supponibili in colui; la a giustizia invece si trova nella condizione di doverle [p. 40 modifica]tutte subire.» Stupenda risposta in vero e degna del S. tribunale, a cui per grazia di Dio e dei soldati francesi è affidata la vita e la libertà dei sudditi di Santa Chiesa!

Che i processi criminali politici debbano nello Stato del papa esser circondati da un segreto impenetrabile; che quindi agli stessi inquisiti debbano rimanere ignoti i nomi e le persone di chi in qualunque modo depone in processo a loro danno, è un fatto certamente deplorabile, ma che risulta dalle leggi vigenti; però nè in queste leggi è scritto, nè prima che venisse a luce la Sentenza di cui si tratta crasi mai udito dire, che il nome e la persona del testimone, del denunciante potesse restare ignoto allo stesso Processante, agli stessi giudici.

I giudizi segreti strettamente inquisitorii possono essere una conseguenza abbastanza logica in un governo dispotico, che a principio fondamentale di giure pubblico ponga il detto di Luigi XIV: L’état c’est moi. Facendo violenza alla ragione ed alla morale pubblica, può in tal caso il sovrano tenersi dispensato dal rendere ragione al pubblico di ciò che fa; e può, se non ragionevolmente. almeno logicamente, pretendere che il pubblico non si permetta pure di supporre che in ciò che si fa da lui o da’ ministri suoi rappresentanti a sua emanazione, non siasi recata piena cognizione di causa, tutta la prudenza e circospezione necessaria. In uno stato di simil fatta, nello Stato pontificio, la rettitudine per esempio, dei giudizi criminali è unicamente fondata sulla presunta onesta, capacità ed incorruttibilità, in una parola, sulla presunta infallibilità del Processante e dei giudici; non v’è controllo di sorta nè presso un tribunale superiore, nè presso la pubblica opinione, che messo a parte del giudizio serva di remora alla possibile malvagità od insipienza dei giudicanti. L’iniquità di un siffatto modo di procedere non abbisogna di dimostrazione. Ma se il sistema è di sua natura iniquo ed assurdo; cosa avrà a dirsi de’ giudici, i quali non si vergognano di confessare pubblicamente di aver distrutto essi stessi quell’unico fondamento presuntivo, sul quale potrebbe [p. 41 modifica]unicamente poggiare il loro giudicato? La legge vieta che sieno fatti palesi i nomi delle persone denuncianti ai profani; ma non vuole, e non poteva volere che fossero ignoti al processante ed ai giudici; giacchè quella, per quanto esorbitante presunzione d’infallibilità, non parte dal presunto afflato del Divino Spirito, ma dalla presunta scienza o coscienza dei ministri ai quali la legge concede illimitata fiducia. Ammettendo colla S. Consulta che potesse giustamente rimanere ignoto il nome e la persona dell’innominato referente, ne segue come deduzione diretta e necessaria, che sienò ammissibili per ogni effetto le accuse anonime, e così l’umanità incessantemente progrediente si trova in grazia del Poter Temporale risospinta di un tratto ai tempi felicissimi di Tiberio imperatore!

E non è cosa stupenda vedere una Sentenza, le cui conseguenze sono sì gravi, la quale adopera maniere di dire confacevoli appena ad una Difesa? La legge ammette di tener segrete le persone del denunciante; dunque poteva assolutamente ignorarsi chi fosse l’innominato riferente, il quale poteva pure in qualche modo riguardarsi come un denunciante. Lasciando stare che in nessuna lingua del mondo, ignoto e segreto non furono mai sinonimi, e che infinita è la differenza che passa fra le due idee espresse da quelle due parole; notiamo che quella frase - pure in qualche modo, - non possa e non debba significar altro, se non che la supposta somiglianza fra la persona nota e l’ignota sia soltanto apparente. Notiamo inoltre che quando pure la somiglianza fra l’ente esistente e l’ente immaginario esistesse in realtà, non poteva esser permesso ai giudici di scambiare l’uno coll’altro. Imperocchè trattandosi di una leggé di procedura penale, e che evidentemente non fu coniata a favore dell’accusato ma del fisco, anche secondo i principii giuridici ammessi in teoria nei tribunali pontificii, non poteva la S. Consulta dare a quella legge una interpretazione più lata, peggiorando la condizione dell’accusato. Sembra che il S. tribunale siasi fatta questa obbiezione, poichè vediamo che, assumendo un tuono sempre più litigioso e che riflette tanto bene la [p. 42 modifica]pacatezza d’animo che i giudici debbono recare nei giudizii, il S. tribunale infastidito di una discussione molesta soggiunge: «Ma checchè sia di ciò, col tenersi occulto il nome di costui ne discapita più, la giustizia che l’imputato, il quale per tal modo può giovarsi di tutte le ipotesi possibili nel senso più lato e favorevole a sè stesso, circa le qualità personali ed interesse a mentire, supponibile in colui, mentre la giustizia si trova nella condizione di doverle tutte subire.» Stupende davvero!! Quei signori reverendissimi si ricordano bene di essere una emanazione diretta di Sua Santità il papa, di cui si dice, e sta scritto nei trattati di diritto Canonico, che potest facere de albo nigrum, de quadrato rotundum, cioè ridersi sgangheratamente del senso comune e di chi ci crede 1 nostri revendissimi ed illustrissimi pro tribunali sedmtes Deum præ oculis habentes, Divino Spiritu afflati, avranno essi potuto vedere ed intendere come possano farsi delle ipotesi circa le qualità personali ed interesse a mentire relativamente a persona ignota; ma chi è tanto imbecille da credere al senso comune, per Dio, non l’intende e non l’intenderà giammai!

Le notizie pertanto ed i documenti relativi del cavalieri Lodovico Fausti poggiano unicamente sull’assertiva gratuita di Costanza Diotallevi come spia, e di Antonio Diotallevi testimone di quanto la fida e degna consorte immediatamente gli confidava. Ma soggiungendo la Sentenza, essersi data fede non al detto di costoro, sì alle prove ed alle verificazioni che somministrarono, è dunque necessario seguire la Sentenza nell’esame di queste prove, di queste verificazioni. Fra le prove figurano principalmente le lettere che vuolsi essere state scritte e spedite per la posta dal Fausti al cavalier Luigi Mastricola R. Sotto-Prefetto a Rieti. E qui tosto alla mente di ogni uomo del più comune buon senso si para dinanzi l’assurdo che un uomo sì accorto quale si pretende dal Fisco essere il Fausti, che vecchio ed attivo liberale fin dal 1831 aveva non ostante saputo ascondersi con arte sì sopraffina da essere riputato, dal Governo pontificio e da chiunque abbia avuto occasione [p. 43 modifica]di conoscerlo, uno de’ più affezionati e più caldi partigiani del Papato, sia poi ad un tratto divenuto un cospiratore tanto imbecille da valersi per le sue corrispondenze periodiche nel martedì e sabato di ogni settimana di un mezzo così pericoloso, quale è quello della Posta, o indirizzando le lettere ad una autorità di confine, rappresentata da un emigrato romano, notissimo e sospettissimo alla polizia, e per fine sottoscrivendo le lettere col suo proprio cognome.

La Sentenza non ha potuto dissimularsi questa difcoltà, questa assurdità, che sapeva essere stata notata dal pubblico, prima anche che fosse formulata nella Difesa dei Dionisi. A pagina 42 si è studiata, si è sforzata di distruggerla accumulando sciocchezze e cavilli senza pari. Quanto all’uso del mezzo postale, dice che «può osservarsi che per avere una continuata relazione e corrispondenza anche di più volte alla settimana, era ben difficile il servirsi sempre di spediti, i quali, come si è visto, si sarebbero usati nelle cose straordinarie e di maggiori difficoltà di trasmissione.» Che una osservazione possa farsi, non vuol già dire che la osservazione colga nel vero; e che quella fatta dalla Sentenza sia meramente gratuita ed immaginaria, può bene attestarsi dalla Polizia pontificia, la quale, sebbene non sia mai riuscita a sorprendere le corrispondenze,del Comitato Nazionale, nonostante le ricerche indefesse e costosissime, sa però di fatto proprio che il Comitato può corrispondere colle provincie libere del Regno di Italia quando e come vuole. Quella osservazione poi nel supporre che debba il Comitato avere una corrispondenza periodica di più volte la settimana, anzi giornaliera, supposto l’uso dei spediti, si riduce ad una puerilità poco degna di un Tribunale Supremo, e Sacro. Intende ciascuno, per quanto poco pratico di siffatta materia, che uno ilei primi e più essenziali precetti dell’arte di cospirare, è quello di scrivere il meno possibile, e nel solo caso di necessità, giacchè chi cospira deve soprattutto por mente di lasciare le minori tracce possibili del suo operato. Or bene, delle cinque lettere che diconsi spedite dal Fausti al cav. Mastricola, la [p. 44 modifica]prima, la seconda e la quarta non contengono cosa che meritasse la pena di essere scritta, poichè riduconsi a generalità che mentre potevano compromettere lo Scrivente, nessun giovamento, nessun lume potevano recare al ricevitore delle lettere. Nella prima lettera il Fausti dice espressamente, non ho cosa alcuna da parteciparvi; colla seconda si annunzia l’invio di un supposto spedito, che essendo partito 11 giorno innanzi sarebbe giunto a Rieti prima della lettera; la quarta è quasi una copia fedele della terza. Questa terza lettera poi, la quale conteneva la pianta di un ignoto fabbricato da mandarsi in rovina, unitamente alla quinta, nella quale lo scrivente, annunciando che gl’incendi erano cominciati, confessava di essere autore o complice, erano troppo importanti e meritavano bene che per la trasmissione si facesse uso di quei mezzi straordinari! usati, come dice la Sentenza, in cose straordinarie.

Ma le lettere erano in cifra, suppone la Sentenza, e però quando pure l’autorità papale fosse giunta a sequestrarle, avrebbe avuto nelle mani un brano di carta inutile, non potendo senza che gli venisse comunicata la chiave, intendere nè il contenute nè il nome dello scrivente. Semplici davvero e maravigliosamente ingenui sono quei Reverendi Monsignori! Vedasi fra i documenti qual sia la cifra con cui quelle lettere furono scritte, e si giudichi se a leggerle non fosse stato sufficiente anche un bambino.

E l’indirizzo al cavalier Mastricola, emigrato romano notissimo e sospettissimo al Governo pontificio? — Questo indirizzo, appunto perchè sospettissimo, diveniva insospettissimo, risponde la Sentenza; la quale convenendo anche che l’usare del mezzo postale per cospirare contro il Governo sia veramente cosa da sciocchi, aggiunge che appunto perchè tale si usava dalla setta. Ragionamenti di questa fatta vogliono essere riportati alla lettera, perchè servono di studio ai psicologi ed ai naturalisti. A questi può proporsi di dividere l’animale uomo in due specie, cioè uomo uomo, ed uomo prete; agli altri una limitazione alle tesi della spiritualità dell’anima. Così la sentenza: «oltre a ciò, le stesse [p. 45 modifica]specie del mezzo così manifesto e che è in potere del Governo, mentre faceva perdere alla lettera ogni idea di sospetto molto più con quell’indirizzo, serviva nel tempo stesso, anche nel caso ben difficile di discoperta, a rendere inverosimile l’accasa, come appunto avviene nella fattispecie, in cui per dare una mentita alla Giustizia; si grida all’inverosimiglianza ed all’impossibilità.»

Ed allo stesso fine si trascrive alla lettera ciò che a pagina 43 dice la Sentenza per dimostrare non essere punto inverosimile che il Fausti firmasse quelle lettere col proprio cognome: «Ed in ordine all’altra addotta inverosimiglianza della firma, che vedesi apposta, sebbene in cifra, alle lettere, chi potrebbe escludere che tale formalità si esigesse per renderle autentiche, per far tranquillo il destinatario della vera persona dello scrivente, o per tenere in fine compromesso costui ad ogni possibile evento nell’interesse comune del partito?» Sembra che all’interrogazione della Sentenza possa ottimamente rispondersi con un altra interrogazione, domandando: chi potrebbe ammettere ciò che ipoteticamente suppone la Sentenza? Per renderle autentiche, per la tranquillità del destinatario, una volta che il carattere era viziato e contraffatto, tant’era scriver Fausti quanto De Merode, Sagretti, Collemassi e simili. E perchè con una firma falsa si sarebbe voluto tener compromesso il Fausti che, essendo un liberale le cui gesta si fanno risalire sino al 1831, doveva godere di tutta la fiducia della setta? E come avrebbe potuto il Fausti rimanere compromesso firmando anche con firma autentica ed abituale le lettere, una volta che queste lettere non avrebbero potuto mai esser messe al pubblico, perchè, come pure una volta avverte benissimo la Sentenza a pagine 43, il Mastricola si sarebbe dovuto guardare dal compromettere sè stesso ed il Governo che rappresenta?!

Se la Sentenza non è riuscita a provare il contra- rio, rimane sempre meglio confermato essere inverosimilissima, essere moralmente assurda la pretesa corrispondenza epistolare fra il Fausti ed il cavalier Mastricola.

[p. 46 modifica]Però i difensori ad ogni costo officiali ed officiosi di tutto ciò che fa il Governo pontificio potrebbero dire a buon diritto che l’inverosimile non è impossibile, e che a fronte del fatto cade ogni ragione d’inverosimiglianza, di assurdità morale. Sia pure stata una di quelle aberrazioni mentali che accompagnano per lo più tutti i delitti: ma è un fatto la corrispondenza, una volta che le lettere esistono. Quanto ai principii, questo raziocinio non ammette replica; e se il Tribunale della Sacra Consulta, spinto e tormentato dalla mala coscienza, non si fosse trovato trascinato ad ingaggiare col senso morale pubblico, un’appassionata discussione, avrebbe fatto bene a seguirlo, risparmiandosi una parte almeno di quelle tante corbellerie che renderanno imperitura la sua Sentenza.

Esistono le lettere, esiste dunque la corrispondenza. Veramente questo fatto è un fatto assai incompleto, poichè se si hanno in atti le lettere che il Fausti avrebbe scritto al Mastricola, non si hanno però quelle che il Mastricola avrebbe dovuto necessariamente inviare al Fausti. La Sentenza a pagine 43, dice a questo proposito, che il Mastricola per la sua posizione doveva porre in uso cautele anche, maggiori del Fausti; che d’altronde non aveva bisogno di servirsi del mezzo postale, perchè non mancavano a lui in Roma, ove ha estese relazioni e strettissime attinenze, altri mezzi intermedii per far giungere con più sicurezza al partito i suoi intendimenti. — Dopo aver notato come la Sentenza vada sempre innanzi a furia d’ipotesi, che, appunto perchè tali, possono sussistere e non sussistere,, aggiungiamo sembrarci di trovare in contradizione i Reverendi Monsignori con quanto avevano precedentemente detto per provare la bontà del mezzo postale. Se questo mezzo era buono pel Fausti, che pure doveva scrivere a persona ribelle ed invisa al governo pontificio, doveva essere eccellente pel Mastricola, le cui lettere sarebbero state dirette al Fausti che sino al 22 febbraio 1863 aveva goduto fama non dubbia di papalino ferventissimo e la piena fiducia dei governanti. Aggiungasi che il Fausti come spedizioniere, come uomo di affari, riceveva ogni giorno più lettere da ogni parte, le quali nella loro [p. 47 modifica]moltiplicità avrebbero fatta passare inosservata quella del Sotto-Prefetto di Rieti. E la ragione della particolare cautela imposta a questo dalla sua posizione, doveva valere tanto nella corrispondenza attiva quanto nella passiva, giacchè o l’una o l’altra che fosse stata sorpresa, il regio Sotto Prefetto ne sarebbe rimasto egualmente compromesso. Che se le estese relazioni e le strettissime attinenze che dicesi avere in Roma il Mastricola, gli fornivano altri mezzi intermedi di corrispondenza; resta a sapersi il perchè di questi mezzi non fosse fatta copia al Fausti, piuttosto che lasciare che si valesse del pericolosissimo mezzo postale e colle indicate circostanze. Che della posta non si valesse il Mastricola, è indubitato, non trovandosi in atti lettere di lui. Il Collemassi non avrà mancato certo di farne ricerca, se non dalla prima denuncia che del Fausti fece la Diotallevi come impunitaria, almeno dal 3 decembre 1862, in cui la Diotallevi fatta spia gli denunciò formalmente e specificatamente il fatto della corrispondenza settimanale. Comunque poi corrispondesse il Mastricola col Fausti non sembra che il mezzo dovesse ignorarsi da quel tale innominato, sia perchè dai documenti che stanno in processo risulta ch’egli sapesse ogni cosa, sia perchè non era luogo a far misteri con lui della corrispondenza passiva, una volta che gli si era fatta conoscere l’attiva. Ciò sia detto per abbondanza, e passiamo ad esaminare il fatto così dimezzato come la Giustizia pontificia ne lo presenta.

Quando al Comitato Nazionale mancassero fatti ed argomenti per dimostrare che quel fatto non prova punto la corrispondenza fra il Fausti ed il Mastricola, esso, dando un piccolo saggio di quella buona fede che è abituale alla giustizia pontificia, potrebbe facilmente togliersi d’ogni impaccio negando il fatto. Non esistendo in atti alcuna lettera del Mastricola al Fausti, nè esistendo alcuna prova dell’invio di quelle lettere a Rieti ed al ricevimento di esse per parte del Mastricola, potrebbesi con tutta ragione negare che quelle lettere fossero inviate; che fossero ricevute.

Estremamente difficile, e forse assolutamente [p. 48 modifica]impossibile sarebbe al Governo pontificio il provare il contrario; ed è certo che sino a che non si fosse data questa prova, il Comitato potrebbe a buon diritto e con piena ragione asseverare che il Processante col consenso ed in pieno accordo dei suoi superiori, facesse impostare quelle lettere a fine di poterle sequestrare, e che non essendo state inviate fossero affatto ignote al cavalier Mastricola.

Non fa però mestieri negare l’invio ed il ricevimento di quelle lettere per negare la corrispondenza fra il Fausti ed il Mastricola. Quanto siamo per esporre prova positivamente che la corrispondenza non esistesse; Tranne la prima, che forse non fu inviata, il Mastricola ricevette puntualmente le altre quattro lettere; aggiungiamo anzi che posteriormente a queste e posteriormente alla carcerazione del Fausti, ne ricevette pure da Roma, in cifra e pel mezzo postale altre due, che, come sarà detto in seguito, sembrano avere una speciale importanza. Delle prima come delle seconde, il Comitato potè procurarsi la fotografia, della quale mentre ha depositato copia unitamente agli altri documenti originali, presenta ai lettori in questo opuscolo il fac simile litografato.

Nei primi giorni di Marzo dell’anno corrente perveniva al Comitato Nazionale una lettera scritta dal cavalier Mastricola ad un suo amico particolare in Roma il 27 del mese innanzi, colla quale il Mastricola narrando, come e quando avesse ricevute quelle tali lettere, gli mandava la traduzione della seconda e della quarta, pregandolo a procurarsi, se gli fosse possibile, ed a dargli qualche lume sulla cosa. Da questa lettera, che il Comitato pregava gli fosse rilasciata e che unisce agli altri documenti, sappiamo che nulla potè intendere del contenuto, ma che come ebbe ricevuta la quarta delle lettere di cui si tratta, sospettò che potesse essere una malizia pretina, od uno scherzo qualunque, e non agli parve che meritasse la pena del perder tempo a tradurle. Tanto poco conto fece il Mastricola di quelle lettere, che non volle neppure prendersi la noia di leggere la quarta ed ultima facilissima a decifrarsi, perchè cifrata soltanto in poche parole, nelle quali i numeri della [p. 49 modifica]cifra sono frammisti alte vere lettere, tanto che può credersi che la cifra fosse usata in quest’ultima lettera per dare la chiave a leggere le antecedenti. Fu un impiegato del Mastricola il quale, veduta che l’ebbe, riuscì tosto a trovare la chiave.

Essendo recentissimo l’arresto del Fausti, il cui cognome leggevasi a piedi di tre di quelle lettere, vide chiaramente il Comitato che potevano avere una importanza reale, tanto più che, da informazioni assunte, veniva a rilevare che si fosse proceduto a quell’arresto; in seguito della scoperta fatta di una corrispondenza. Recente era l’incendio del teatro Alibert, e mentre i cagnotti papali andavano spargendo voce che quell’incendio fosse opera del partito, liberale, il Comitato Romano veniva a conoscere che monsignor Benvenuti, Procuratore Generale del Fisco, vantava di avere nelle mani la prova che per quell’incendio erano stati pagati quattromila scudi, somma che dicevasi ricevuta nella detta ultima lettera. Queste informazioni che il Comitato aveva raccolte, erano dal Comitato comunicate alla persona che avevagli partecipato la lettera del Mastricola, aggiungendo che sebbene l’intrigo fosse molto sciocco, pur tuttavia non potendosi dubitare che fosse tessuto anchè al: fine di compromettere il Governo del Re nella persona di un suo funzionario, riteneva utile che da parte di questo si provvedesse a sventarlo. Il cavalier Mastricola con dispaccio di Gabinetto n.° 41 in data 17 marzo 1863 dava ragguaglio del fatto a S. E. il Ministro dell’Interno e gli inviava le prime quattro indicate lettere; ed altrettanto faceva dopo ricevute le ultime due, con dispaccio di Gabinetto n.° 116 in data 3 maggio 1863. Il Comitato può garantire l’esistenza d’ambidue questi dispacci, e ritiene anche che del contenuto il Governo del Re abbia dato comunicazione confidenziale a quello dell’imperatore Napoleone.

Sappiamo bene che i predetti difensori officiali ed officiosi del malgoverno del papa non mancheranno,di dire essere una favola l’ignoranza e la citata lettera del Mastricola; che quando pure esistano i dispacci e la comunicazione confidenziale, e quelli e questa furon fatti [p. 50 modifica]dopo che ed il Mastricola ed il Governo si videro scoperti, in seguito del conosciuto sequestro delle lettere. Peraltro ogni uomo di buon senso si renderà capace che se realmente il Governo del Re od il Sotto-Prefetto di Rieti, o in questa qualità o come particolare, fosse stato in relazione col Fausti, avrebbero potuto con pienissima sicurezza tacere, giacchè, come si è pocanzi notato, l’esistenza delle pretese lettere del Fausti in mano del Governo del Papa senza alcuna lettera o riscontro del Mastricola, nulla potevano provare contro il Governo del Re. Il carattere poi degli uomini che compongono questo Governo, la moderazione proverbiale, e forse eccessiva, di tutti i loro atti, e in piena contradizione cogli eccessi de’ quali vorrebbero rendersi responsabili. E perchè si sarebbero voluti compiere questi eccessi? Forse che distruggendo il teatro Alibert si sarebbe sciolta la così detta questione romana, o almeno se ne sarebbe facilitato lo scioglimento? Nel processo si volle dare ad intendere che il partito Nazionale volesse incendiare edificii per dimostrare che il Governo del Papa, come inetto, non bastava più a reprimere i delitti, che era divenuto incapace di governare. Ma son forse cose queste che abbiano bisogno di prova? È noto che i delitti sono frequentissimi negli Stati di Santa Chiesa, ed è notissimo che il papa può ancora chiamarsi re, perchè ventimila soldati francesi gli fanno la guardia. E quando pure il Governo del Re fosse amministrato da uomini violenti, è certissimo che la nobiltà d’animo e l’onestà specchiatissima dei cavalier Mastricola non sarebbe mai per prestarsi a dar mano a fatti men che onesti, non che della specie di quelli a cui accenna l’ultima delle quattro lettere.3

Sebbene sia immenso, inesprimibile il piacere di cogliere in fallo il Governo pontificio in un affare sì [p. 51 modifica]grave, quale è quello di cui si tratta; pure non temiamo che questo piacere ci faccia velo all’intelletto nel calcolare il valore dei fatti e delle ragioni che siam venuti esponendo Non temiamo di asseverare che per ciò che concerne il fatto della corrispondenza epistolare fra il Fausti ed il Mastricola, il sequestro delle lettere non costituisce quelle prove e quelle verificazioni, alle quali, e non al detto dei coniugi Diotallevi, come avverte la Sentenza, il tribunale avrebbe dato fede nel giudicare di quelle prove e verificazioni che la Sentenza pretende aver dedotte sia dalle cose contenute nelle lettere, sia dagli altri documenti esistenti in processo, e che leggonsi trascritte fedelmente nelle pagine antecedenti di queste Considerazioni.


Note

  1. La Sentenza del 30 maggio 1863 condannava gl’inquisiti per le sole incolpazioni meramente politiche, dichiarando constare, in genere, di trattative dirette a turbare l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato mediante corrispondenze di lettere sì all’interno che all’esterno, e mediante ancora altri mezzi. Ordinava la prosecuzione della inquisizione dei pretesi delitti comuni, per ispirito di parte, fra i quali primeggia quello del teatro Alibert. Standoci documenti presentati dalla Diotallevi e riconosciuti per veri dall’indicata Sentenza che forma cosa giudicata; il Fausti non può non esser ritenuto autore dell’incendio, e qualora rispetto all’uso, quell’edificio fosse considerato come pubblico, la pena sarebbe la morte.
  2. II Tribunale della Sacra Consulta trattandosi di cause criminali politiche non pubblica le sentenze motivale che nel solo caso di pena dì morie. Negli altri basi non si fa che leggere e lasciar copia della parte dispositiva ai condannati.
  3. Qualora il Comitato Nazionale stesse in relazione col R. Sotto-Prefetto di Rieti o con qualunque altra autorità governativa del Regno d’Italia, non potrebbe aver difficoltà a confessarlo, una volta che il Governo de! Papa non ha avuto difficoltà di confessare, che protegge e sta in relazione cogli industrianti Cipriano La Gala e compagni.