Le notti degli emigrati a Londra/Il conte Giovanni Lowanowicz/II
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II.
Arrivavo dalla Germania, quando l’imperatore Alessandro II venne a Varsavia, nel maggio 1856. Le promesse del conte Orloff al Congresso di Parigi, le intenzioni liberali che si attribuivano al nuovo Czar, mantenevano nell’Europa occidentale la meravigliosa speranza della rigenerazione della Russia. Ognuno si rallegrava della parte che andava a toccare alla Polonia in questa palingenesi slava. «Il meno che si potrà fare per noi, ci si diceva, gli è di ritornare alla politica di Alessandro I, formulata al Congresso di Vienna». Si aspettava lo Czar con ansietà, con impazienza; i più scettici, essi stessi, sembravano scossi.
Lo Czar venne. Egli parlò. «Intendo che l’ordine stabilito da mio padre sia mantenuto, diss’egli. Così, signori, ed anzi tutto, non più ubbie! non più ubbie! La felicità della Polonia, dipende dalla sua intera fusione coi popoli del mio Impero. Ciò che mio padre fece è ben fatto, ed io lo manterrò... Il mio regno sarà la continuazione del suo!...» E siccome uno dei marescialli della nobiltà sembrava voler parlare, così Alessandro II si volse, e riprese: «M’avete compreso? Io amo meglio ricompensare che punire... e punirò severamente...»
Ciò che Niccolò aveva fatto della Polonia, il mondo lo sa. Per Alessandro II era ben fatto, ed egli voleva continuare l’opera paterna.
Io non ricorderò che questo solo fatto. Un giorno, con un decreto, di sua propria mano, Niccolò scrisse la sentenza, cui nulla aveva provocato, della deportazione al Caucaso di quarantacinquemila famiglie polacche, di cui il Governo diffidava!
Alessandro II aveva detto tutto. La sfida era corsa. Le anime agghiadate si risvegliarono, i cuori arditi si prepararono.
Ma ciò non era tutto ancora.
L’eco dell’unità italiana compiuta risonava nella nostra vecchia coscienza nazionale, gualcita. Lo Czar scelse Varsavia per incontrarsi col re di Prussia e l’imperatore d’Austria, affin d’intendersi ed avvisare insieme sulla situazione dell’Europa. Egli portava una nuova sfida: una sfida alla Polonia, l’incarnazione sanguinosa delle nazioni vittime; una sfida all’Europa occidentale, che si diceva favorevole alla politica delle nazionalità inaugurata dalla Francia. La lezione di Wilna, ove nessuna dama accettò l’invito al ballo che il generale Nazimof dava al suo padrone ed ai cinque principi tedeschi che l’accompagnavano, questo avvertimento severo non rischiarò punto lo Czar. Egli si recò a Varsavia coi suoi due condivisori della Polonia. Varsavia restò deserta, fredda, silenziosa come una steppa.
— Gli è l’imperatore d’Austria, dissero i cortigiani russi, che è la causa di questo agghiacciato ricevimento.
— Gli è lo Czar che vale all’imperatore Francesco Giuseppe questo freddo accoglimento! dissero i giornali ufficiali di Vienna.
Lo Czar partì da Varsavia, con l’anima ulcerata ed umiliata.
Varsavia trasalì sotto l’ingiuria di codesto sinistro ritrovo.
Le dimostrazioni principiarono.
I Siberiani, vale a dire gli esuli ritornati dalla Siberia, in virtù di quell’equivoca amnistia accordata da Alessandro II pel suo avvenimento al trono, avevano rafforzato quella specie di misticismo pieno di fede, che i poeti avevano già inoculato alla nazione. La rigenerazione per mezzo delle sofferenze, predicata un dì in Italia da Savonarola, era divenuta la leva politica, che doveva agire oggimai per rovesciare la dominazione degli Czar, e stancare la forza. Le dimostrazioni principiarono dunque con uffizii religiosi, onde onorare la memoria dei poeti patriotti Mickiewicz, Krasinski e Slovacki. Il 29 novembre risuonò, per la prima volta nella cattedrale, il Boze cos Polske, quel canto che è stato la strana Marseillaise della nostra ultima insurrezione.
«Signore Iddio — si cantava — tu che durante tanti secoli circondasti la Polonia di splendore, di potenza e di gloria, tu che la coprivi allora del tuo scudo paterno, tu che stornasti per così lungo tempo i flagelli, da cui è stata in fine schiacciata, Signore, prosternati dinanzi ai tuoi altari, noi ti scongiuriamo, rendici la patria, rendici la libertà!
«Signore Iddio, tu che più tardi, commosso dalla nostra rovina, hai protetto i campioni della più santa delle cause, tu che hai dato loro il mondo intero a testimonio del loro coraggio, ed ingrandita la loro gloria nel seno stesso della loro calamità, Signore, prosternati dinanzi ai tuoi altari, te ne scongiuriamo, rendici la patria, rendici la libertà!
«Signore Iddio, tu il cui braccio giusto e vendicatore brucia in un attimo gli scettri e i brandi dei padroni del mondo, annienta i propositi e le opere dei perversi, risveglia la speranza della nostra anima polacca, rendici la patria. Signore, rendici la libertà!
«Dio santissimo, di cui una sola parola può risuscitarci in un istante, dègnati strappare il Popolo polacco dalla mano dei tiranni, dègnati benedire gli ardori della nostra gioventù; rendici, o Signore, la patria, rendici la libertà!
«Dio tre volte santo, in nome delle piaghe sanguinose del Cristo, dègnati aprire la luce eterna ai nostri fratelli periti per il loro popolo oppresso, dègnati accettare l’offerta delle nostre lagrime e dei nostri canti funebri; rendici la patria, o Signore, rendici la libertà!
«Dio santissimo, non è scorso un secolo ancora che la libertà è scomparsa dalla terra polacca, e per riconquistarla, il nostro sangue è sgorgato a torrenti; ma se costa tanto perdere la patria di questo mondo, ah! come debbono tremare coloro che perderanno la patria eterna.
«Prosternati dinanzi ai tuoi altari, te ne scongiuriamo o Signore, rendici la patria, rendici la libertà!»
L’impulso era dato.
La Società agricola, fondata da Andrea Zamoiski, deliberò allora sul diritto definitivo dei contadini a divenire proprietarii. Gli studenti polacchi arrivarono dalle Università di Kiew, Mosca, Dorpat, e si agitarono in Varsavia onde ottenere un’Università nazionale. L’idea d’un indirizzo all’Imperatore per reclamare una Costituzione e la ricostruzione della Polonia, albeggiò. Giunse il 25 febbrajo 1861.
Era l’anniversario della battaglia di Grochow. La giornata apparve cupa e caliginosa. La neve era caduta durante la notte, le strade n’erano bianche. Nessuna parola d’ordine era stata data, perocchè non v’era presso di noi, come in Italia, un Comitato che regolasse i battiti del cuore nazionale, per ordine, ad ora fissa, con uno scopo determinato. L’anima della Polonia è omogenea: i Polacchi sentono all’unisono. Per un impulso spontaneo, ognuno pensò che bisognava in quel dì pregare per coloro che erano morti per la patria. Cinquantamila persone si trovarono quindi nelle vie, animati dall’istessa idea, fiancheggiandosi e seguendosi. Una processione si formò naturalmente. Si comperarono dei ceri per via. Una bandiera coll’aquila bianca, sboccando non si sa donde, si pose alla testa del corteggio. Tutto un popolo con una sola voce, nell’istesso momento, intuonò l’inno Swiety Boze:
«Dio santo, Dio possente, abbiate pietà di noi, degnatevi di renderci la nostra patria; Santa Vergine Maria, regina di Polonia, pregate per noi!»
Nessun disordine. Nessun grido sedizioso. Nessuna disposizione ostile. Neppur l’ombra di un’arma. Non un viso aggressivo. Tutto ad un tratto, il colonnello Trepow, capo della polizia, si mostra seguito da due squadroni di gendarmi. La folla cade in ginocchio, e continua a cantare. I soldati si precipitano su quella massa compatta, e sciabolano alla cieca.
Un centinajo di persone caddero morte o ferite.
Io era là. Mia madre toccò una ferita al braccio. Io aveva un revolver in tasca, e restai calmo.
All’indomani, la città intera vestì a corruccio.
Il governatore, principe Gortschakoff, sembrò atterrito. Il generale Liprandi ne fu costernato.
Due giorni dopo, il 27, correva l’anniversario della morte del conte Zawisza ed altri patriotti, impiccati dai Russi come mio padre. Trentamila persone si trovarono riunite nella chiesa del Carmine e nei dintorni. Il massacro dell’antivigilia non aveva impaurito alcuno, nè le donne, nè i fanciulli. Si assistè alla messa, poi, uscendo, ci disponemmo a processione. Io dava il braccio a mia madre, la quale, quantunque ferita, non volle mancare.
Il generale Zabolotzkoy accorre coi suoi Cosacchi. Noi non avevamo armi. I Cosacchi si sbrancarono sopra di noi. La fucilata risuonò. Gli sterminatori sciabolarono a loro voglia un popolo prosternato, che, colle mani alzate al cielo, cantava:
«Santa Vergine Maria, madre della Polonia, pregate per noi!»
Un centinaio di persone restarono sul lastrico.
Il principe Gortschakoff si precipitò in mezzo alla folla per arrestare la carneficina.
— Ma, alla fin fine, cosa volete? gridò egli quasi fuori di sè.
— Vogliamo una patria! rispose il popolo con una sola voce.
L’arcivescovo, il conte Zamoyski, diversi nobili, parecchi notabili si recarono al castello per protestare, con linguaggio severo ed energico, contro l’ordine di quella esecuzione.
— Mi prendete voi forse per un Austriaco! sclamò il principe Gortschakoff indignato. Io non ho dato che un solo ordine: quello di non consegnarvi la cittadella, neppure sopra un’ingiunzione firmata di mia mano.
Il principe era sincero. La sera, la polizia della città fu confidata agli studenti; i Russi furono consegnati nelle loro caserme; un indirizzo all’Imperatore, sottoscritto dall’arcivescovo, dal gran rabbino, dai marescialli della nobiltà, circolò. Si chiedeva «una chiesa, una legislazione, una istruzione pubblica, una organizzazione sociale, colle stigmate del genio nazionale e delle tradizioni storiche».
La Polonia, che il Governo russo credeva di aver uccisa, si levava di un tratto, ritta, vivente, e dava i brividi all’Europa, i cui rimorsi per averla abbandonata sembravano addormentati. Si sparse allora un avvertimento: «In ogni parte della Polonia, diceva questo avviso, s’indosserà il lutto per un tempo indeterminato.... La corona di spine, ecco il nostro emblema da un secolo! Questa corona ornava jeri i cataletti dei nostri padri.... Essa significa: pazienza nel dolore, sacrifizio, liberazione, e perdono!»
La calma si ristabilì. Ciò aumentò lo stupore e lo spavento dei Russi. Cosa nascondeva quel silenzio?
— Tutta la città vi obbedisce, disse il principe Gortschakoff al conte Zamoyski. Ciò non può durare. Ho delle truppe, adesso; io non vi temo punto.
— Noi siamo pronti a ricevere le vostre palle, rispose il conte.
— No, no, gridò il principe di Gortschakoff: ci batteremo.
— Giammai! Noi non ci batteremo punto, riprese il conte Zamoyski. Ci assassinerete, se lo volete.
— Se avete bisogno d’armi, ve ne darò io, disse il principe fuori di sè.
— Noi non le adopreremo, dichiarò il conte Andrea.
I Russi non comprendevano più nulla di una situazione così strana.
— Ma essi non dimandano nulla, disse il granduca Costantino, quando lo Czar lesse davanti la sua famiglia la petizione di Varsavia.
— Gli è precisamente ciò che v’ha di grave! rispose l’Imperatore.
L’indefinito spaventava lo Czar. Eppure egli sapeva troppo bene ciò che nascondeva questo indefinito, ciò che le allusioni vaghe dei Polacchi significavano.
Il signor Muchanoff, ministro dell’interno a Varsavia — quello stesso che, opponendosi ad ogni sviluppo dell’istruzione pubblica, aveva detto: «Che dipingano codesti Polacchi, così non penseranno!» — il signor Muchanoff scoccò una circolare segreta ai contadini, onde rinnovassero il massacro che il principe di Metternich aveva consumato in Gallizia. Il principe di Gortschakoff lo destituì, e l’obbligò a partire da Varsavia.
Lo Czar si decise ad inviare un piano di riforma, che non era neppure la realizzazione del famoso Statuto di Niccolò. Queste concessioni ridicole arrivarono in pari tempo delle truppe che marciavano su Varsavia.
Il 7 aprile, la folla, che era stata al cimitero a pregare pei morti di febbraio, si fermò sulla piazza del castello, a fine di chiedere si revocasse il decreto di scioglimento della Società agricola. La piazza era occupata dai soldati. E’ si ritirarono. La sera seguente, una moltitudine più numerosa si recò di nuovo sulla piazza onde rinnovare la domanda della vigilia. Noi non avevamo più neppure la bandiera coll’aquila bianca, per non porgere pretesti. L’attitudine era pacifica. La voce calma e supplicante. Il principe Gortschakoff scese sulla piazza, e ripetè la sua domanda.
— Insomma, che cosa volete?
— Vogliamo una patria! rispose di nuovo la folla.
In quel momento, passa un postiglione, e fa risuonare col suo corno l’aria di Dombrowski: «No, la Polonia non perirà!» Tosto un grido entusiasta scoppia. Donne, fanciulli, vecchi, studenti, nobili, ad una voce, con lo stesso accento, gridano: Viva la Polonia!... e tutti cadono in ginocchio.
— Ritiratevi, urlarono le truppe, che accampavano militarmente sulla piazza.
— Uccideteci, ma non ci muoveremo, rispose la folla.
L’ingiunzione non fu ripetuta.
La fanteria fece fuoco, poi fece fuoco di nuovo, poi ricominciò le sue scariche: quindici volte! Squadroni di cavalleria caricarono. Làsciovi imaginare il macello. Fummo circondati: le donne ed i ragazzi, inginocchiati all’estremità della piazza, intorno ad una statua della Vergine, gli uomini indietro. Ricevemmo la fucilata e le sciabolate dei Cosacchi, senza muoverci, senza lagnarci, pregando e cantando. La truppa, spaventata, lasciò quel sito.
Non si è mai conosciuto il numero delle vittime.
Un disprezzo della morte, inaudito, entusiasta, irresistibile, s’impadronì di noi.
Il principe Gortschakoff ne divenne pazzo, e due mesi dopo morì all’improvviso. Egli gridava, due giorni avanti di morire: «Oh! le donne nere! le donne nere! Eccole ancora, eccole.... Allontanatele!»
Il generale Suchozanett gli succedette; ma nel Consiglio dominava il marchese Wielopolski. Non si poterono intendere. Il generale fu richiamato; e lasciando Varsavia, e’ non seppe domare il turbamento della sua coscienza.
— Potrete accusarmi d’essere un uomo poco abile, sclamò egli, ma non potrete dire che io fui un carnefice; non ho fatto fucilare nessuno.
Il movimento si stese alle antiche provincie della Polonia del 1772.
Wilna rinnovò le scene di Varsavia.
La situazione prese un aspetto nuovo. La Russia sembrava disposta alla moderazione. La Polonia inaugurava il mezzo della rivendicazione legale dei diritti usurpati.
Il 10 ottobre, ebbe luogo il pellegrinaggio a Horodlo, ove s’era compiuta l’unione della Lituania e della Polonia. Ciò poteva dare origine ad una carneficina. Il generale Chrustef, uomo dabbene, lasciò celebrare una messa fuori della città, sopra un altare improvvisato. Lasciò sventolare quaranta bandiere, rappresentanti tutte le provincie dell’antica Polonia, intorno all’immenso vessillo, che portava le armi unite della Lituania e della Polonia.
Lasciò arringare la folla da un prete basiliano del rito greco-unito, il quale, chiudendo, si volse verso il pennone, e sclamò: «Uccello senza macchia, aquila bianca, che un dì distribuisti corone e non ne hai più per te, librati al dissopra dei tuoi fratelli, e va ad annunziare ai quattro angoli del mondo che tu respiri ancora! Cònvoca i tuoi figli, i tuoi emigrati, gli antichi tuoi difensori, e mostra loro il cammino. Tu soffrirai, tu soffrirai molto...; ma un giorno ti alzerai più alto, più alto ancora che nel passato, e spiegherai le tue ali come per benedire la nazione, libera alfine!»
L’ultima manifestazione doveva aver luogo il 15 ottobre per la celebrazione di una festa religiosa in onore di Kosciusko. Il 14, lo stato d’assedio fu proclamato. Forse il conte Lambert, il quale era succeduto al generale Suchozanett come luogotenente, ne aveva ripugnanza. Certo è che gli uomini del vecchio partito russo, che lo circondavano, ve lo decisero. Lo stato d’assedio però non poteva spaventare un popolo, che guardava in faccia la morte con fanatismo voluttuoso.
Dalle sette del mattino, le chiese rigurgitavano di cittadini, le donne a bruno, gli uomini, come sempre, disarmati. La truppa, dalla mezzanotte, occupava militarmente la città.
Essa non s’oppose all’entrata dei cittadini nelle chiese, però, cangiando avviso, bentosto li circondò, e li accolse. La Cattedrale ed i Bernardini furono assediati. Nugoli di Cosacchi e di Circassi invasero la città, correndo dovunque, percotendo gli uomini, insultando le donne, saccheggiando le case. Si intimò al popolo di uscire dalle chiese.
— No, rispondemmo unanimi, no, fino a tanto che l’esercito ci assedia.
Si restò così tutto il giorno. I Polacchi rinsaccati nelle chiese, i Russi accampati alle porte. L’ansietà divenne estrema. Si prevedevano delle conseguenze sinistre, delle scene di orrore. Avevamo fame e sete. Ad otto ore di sera, si presentò un generale, e c’intimò di nuovo di renderci alla grazia ed alla mercè del luogotenente del regno.
— No, rispondemmo tutti. Non vi è luogo a grazia, ove non vi è delitto. Resteremo qui, fino a tanto che le truppe non siano rientrate nello loro caserme.
Si accesero i ceri del catafalco, eretto il giorno prima al morto arcivescovo, e s’intuonò il Swiety Boze: «Dio santo, Dio potente, abbiate pietà di noi, degnatevi renderci la nostra patria; santa Vergine Maria, Regina di Polonia, pregate per noi».
Alle due del mattino, un nuovo parlamentario recò l’istessa intimazione. Ottenne la stessa risposta. La situazione aveva acquistato una tensione estrema. La crisi si librava sul nostro capo, cupa, minacciosa, feroce; la sentivamo, la vedevamo. Due ore di angoscia mortale scorsero. Alle quattro, le truppe, in piedi da diciassette ore, tenendoci rinchiusi, minacciandoci con sguardi pieni di odio, ricevettero l’ordine di fare sgombrare le chiese. L’ordine fu eseguito. Più di duemila persone furono prese e condotte in cittadella.
Questa misura fu causa di rottura fra il conte Lambert ed il generale Gerstenzweig, capo dello stato d’assedio. Scambiarono parole di collera: Gerstenzweig si bruciò le cervella; il conte Lambert lasciò bruscamente Varsavia.
Il partito della violenza prevalse.
Le chiese, le scuole, i teatri furono chiusi. I Siberiani amnistiati furono rimandati in Siberia. Un gran numero di studenti, di preti, di operaj furono trasportati nel Caucaso e ad Oremburgo. Il gran rabbino e parecchi dei suoi colleghi furono espulsi. Il pastore evangelico Otho condannato alla deportazione. Il Capitolo di Varsavia ebbe dieci proscritti, ed il suo amministratore, vecchio di ottant’anni, fu condannato a morte. Il reclutamento fu ordinato, applicabile soltanto alle città, sopra una lista di coscritti redatta dalla polizia. La retata del 15 gennaio 1862, eseguita fra un’ora e le otto del mattino, ebbe luogo. La Russia proclamò in faccia all’Europa questa razzìa di giovani, presi durante il sonno, come «il trionfo dell’ordine sulla rivoluzione».
La coppa traboccava.
Il 22 gennajo, l’insurrezione scoppiò.