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Ognuno si rallegrava della parte che andava a toccare alla Polonia in questa palingenesi slava. «Il meno che si potrà fare per noi, ci si diceva, gli è di ritornare alla politica di Alessandro I, formulata al Congresso di Vienna». Si aspettava lo Czar con ansietà, con impazienza; i più scettici, essi stessi, sembravano scossi.

Lo Czar venne. Egli parlò. «Intendo che l’ordine stabilito da mio padre sia mantenuto, diss’egli. Così, signori, ed anzi tutto, non più ubbie! non più ubbie! La felicità della Polonia, dipende dalla sua intera fusione coi popoli del mio Impero. Ciò che mio padre fece è ben fatto, ed io lo manterrò... Il mio regno sarà la continuazione del suo!...» E siccome uno dei marescialli della nobiltà sembrava voler parlare, così Alessandro II si volse, e riprese: «M’avete compreso? Io amo meglio ricompensare che punire... e punirò severamente...»

Ciò che Niccolò aveva fatto della Polonia, il mondo lo sa. Per Alessandro II era ben fatto, ed egli voleva continuare l’opera paterna.

Io non ricorderò che questo solo fatto. Un giorno, con un decreto, di sua propria mano, Niccolò scrisse la sentenza, cui nulla aveva provocato, della deportazione al Caucaso di quarantacinquemila famiglie polacche, di cui il Governo diffidava!

Alessandro II aveva detto tutto. La sfida era corsa. Le anime agghiadate si risvegliarono, i cuori arditi si prepararono.

Ma ciò non era tutto ancora.

L’eco dell’unità italiana compiuta risonava nella nostra vecchia coscienza nazionale, gualcita. Lo Czar scelse Varsavia per incontrarsi col re di Prussia e