Le notti degli emigrati a Londra/Il conte Giovanni Lowanowicz/III
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III.
Il granduca Costantino, assistito dal marchese Wielopolski, aveva preso il posto di luogotenente imperiale, dopo la partenza del conte Lambert. Il marchese aveva presentato l’applicazione del reclutamento esclusivo nelle città come una operazione di depurazione d’alta polizia, per estirpare dal regno tutti gli elementi di turbolenza. Imperciocchè la coscrizione, appo noi, è un castigo: una Siberia mitigata!
Il Consiglio del distretto di Pioto Kow esponeva per essere esentato «dalla più grande delle disgrazie», che dal 1835 al 1855, undicimila giovani erano stati rapiti al distretto come reclute, e non ne erano ritornati che 498, la maggior parte dei quali aveva perduto lingua, religione, costumi, e ogni specie di attitudine al lavoro.
Dopo la guerra di Crimea, il reclutamento era stato sospeso. Il granduca ed il marchese ricominciarono la tratta. In pochi giorni, dalla frontiera della Lituania fino al ducato di Posen, la Polonia si coprì di bande composte della gioventù che fuggiva in massa; ed i primi scontri tra i fuggiaschi e le truppe russe avevano luogo nelle foreste dei governi di Plock, Lublino, Sandomir e della Podlachia.
Facendo parte del Comitato nazionale, io aveva dovuto restare a Varsavia.
Non avendo lo intendimento di portare la questione polacca sul terreno della forza, ma di stancare la Russia mediante le dimostrazioni legali del diritto, sorpresi dagli avvenimenti, non avevamo fatto nessun apparecchio d’armi. Quindi demmo l’ordine di evitare il combattimento, per quanto fosse possibile. Alcuni fucili da caccia, la falce, il randello ferrato erano essi sufficienti per tener testa alla mitraglia?
I nostri capi di banda pensarono che bisognava combattere per armarsi, impadronendosi dei fucili e dei cannoni dell’inimico.
La guerra e l’insurrezione armata d’altra volta ripugnavano alla maggioranza della nazione. I contadini, i nobili, gli studenti stessi tennero, infatti, un riserbo significativo, durante tutta la state del 1862. Con un po’ più di tatto e di moderazione per parte della Russia, la resistenza armata avrebbe ceduto poco a poco. La violenza, la crudeltà, l’acciecamento, l’odio del partito militare, che dominava intorno al granduca Costantino, precipitarono la catastrofe. Quelli che esitavano, si videro trascinati; e’ si fecero un punto d’onore di non rinnegare, di non abbandonare coloro che si erano compromessi e coloro che soffrivano della brutalità russa senza averla provocata. Da quel momento, studenti, nobili, contadini, vecchi e donne si misero della partita; e si udì, in un villaggio di Lublino, delle donne, a cui s’intimava di rendersi, rispondere con questo motto antico: «Qui le donne muojono vicino ai loro mariti, ed i figliuoli vicino ai loro padri».
Breve: nel mese di marzo 1863, avevamo sotto le armi 57,000 combattenti sulla riva sinistra e sulla diritta della Vistola, 30,000 nella Lituania, e più di 30,000 nella Podolia e nell’Ukrania.
I nomi di Langiewicz, di Jezioranski, di Bochdanowicz, di Frankowski, di Podlewski, di Zewandowski risuonavano nei bollettini russi e nel cuore della nazione. Diciassette combattimenti erano stati dati, di cui uno solo disgraziato, e tre dubbii.
Io non intendo raccontare la storia di questa guerra dai mille scontri, ove le peripezie si rassomigliano, e lo scioglimento è sempre lo stesso. Non amo parlare che di ciò che ho veduto; e formando parte del Comitato, che si rinnovava del terzo, per sorteggio, ogni tre mesi, ebbi la sfortuna di non uscirne che tardi, e per non più rientrarvi — di addormentarmi nell’agonia, per risvegliarmi in Siberia.
Non ebbi neppure migliore ventura, allorchè potei alla fine entrare in campagna. Il Comitato mi aveva inviato all’incontro delle bande formate in Galizia, entrate di già in Volinia. Era un corpo di 1700 uomini, che Wysocky ci conduceva, diviso in tre colonne. Il loro punto di riunione doveva essere Radziwitow. I Russi vennero a cognizione di questo movimento, e rinforzarono la guarnigione di quella città, posta sotto gli ordini di un capo abile e ardito, il maggiore Semenow. Incontrai Wysocky nella foresta di Zeloski, ove s’era accampato, sul punto di dar battaglia.
Rinviamo la nostra conferenza alla sera, dopo il combattimento.
Era un’ora dopo mezzogiorno, il 1.° giugno 1863. Penetrammo nella città per le paludi, avendo dell’acqua marcia fino al petto. I Russi ci aspettavano. L’urto fu violento. Ma io non aveva ancor fatto che pochi passi, non avevo ancora tirato un colpo di revolver, nè dato un colpo di sciabola, che un dragone di Kargopot, del granduca Costantino, si avvisò di spaccarmi il cranio per di dietro e aprirmelo come una melagrana. Caddi da cavallo. Fui pigiato per due ore. I Polacchi furono muti. L’azione, mi fu detto, era stata delle più sanguinose e delle più drammatiche. Le perdite dei Polacchi erano state considerevoli, aggiungevano i Russi. Gli abitanti si lagnavano acerbamente della maniera colla quale questi celebrarono la loro vittoria, a spese della città devota ai Polacchi. Tutto ciò può esser vero. Avvenne così in ogni tempo, avviene ancora oggidì in ogni sito dove sono stati e sono soldati, guerra, vittorie e borghesi pacifici.
Quanto a me, non rinvenni che tardi nella sera, e mi trovai steso sopra un po’ di paglia, nell’angolo di un magazzino, in compagnia di diversi altri più o meno malconci come me, Russi e Polacchi, misti insieme. Mi avevano avviluppato il capo con una fascia a guisa di turbante. Mi avevano alleggerito della borsa, dell’orologio e del portafogli. La fu per me una circostanza fortunata. Avevo nel mio taccuino delle carte di visita col mio nome ed indirizzo. Il mio nome ricordò immediatamente quello di mio fratello, aiutante di campo di Costantino, e quindi molto conosciuto nell’esercito russo in Polonia. Non fui dunque niente meravigliato di vedere al mio capezzale, alle dieci di sera, l’eroe della giornata, il maggiore Semenow in persona, un poco male in gambe, poichè levavasi di tavola, e veniva ad informarsi se io era parente del conte Casimiro Lawanowicz, aiutante di campo favorito di S. A. I. il granduca luogotenente. Non avevo nessuna ragione di mentire; risposi dunque: Che arrossivo di essere il suo fratello maggiore.
Io poteva arrossire a mio comodo di questa parentela, ma il maggiore non voleva saperne tanto. Ordinò una barella, mi fece trasportare nella casa che occupava egli stesso, e mi confidò alle cure del chirurgo il più abile, di cui disponeva. La mia ferita era spaventevole. Il cranio franto, la dura-madre tagliata, la sostanza grigia del cervello tocca.... In breve, io aveva novantacinque probabilità contro cinque di non cavarmi di là; ed in prospettiva, disse il dottore, se mi tiravo dal mal passo, la pazzia o l’idiotismo, l’intervento provvidenziale del Consiglio di guerra permettendolo. Infrattanto la febbre si dichiarò, sopravvenne il delirio, una specie di coma mi accasciò e durò quarantotto ore. Il chirurgo era polacco. Quindici giorni dopo, nulla ostante, io era in convalescenza! Il sedicesimo giorno, il maggiore Semenow accompagnava mia madre, che era accorsa da Varsavia.
— Che disgrazia, figlio mio, sclamò essa, vedendomi quasi guarito: tu non morrai delle tue ferite!
Il maggiore Semenow, scosso da questo voto di una madre, si ritirò confuso e quasi costernato.
Al 5 agosto, il dottore Kazala dichiarò che io era in istato di viaggiare. Da quindici giorni, il maggiore, ora colonnello Semenow, aveva ricevuto l’ordine di spedirmi a Varsavia. Mia madre dovette lasciarmi.
Ho io bisogno di dire che in tutto questo si manifestava la misteriosa protezione di mio fratello? Egli aveva appreso dal rapporto della battaglia, mandato dal maggiore al luogotenente generale, che io era in mezzo ai prigionieri, come parecchi altri nobili, e interveniva a mio favore, senza mostrarsi.