Le notti degli emigrati a Londra/Il conte Giovanni Lowanowicz/I
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IL CONTE GIOVANNI LOWANOWICZ
I.
..... Il mio bisavolo, quantunque avanzatissimo in età, si era trovato il 10 ottobre 1793 alla battaglia di Macieiovich, e vi era perito vicino a Koshiusko, che non pronunziò mai il famoso finis Poloniae! Mio nonno, anch’egli molto vecchio, era morto il 25 febbrajo 1831 alla battaglia di Grochow, ove l’armata polacca lottò tre giorni contro la russa. Mio padre era stato impiccato nel 1848, dopo una di quelle cospirazioni tenebrose, che intorbidarono sì di sovente l’olimpico regno dell’imperatore Niccolò. Egli lasciava due figli: il primogenito, ch’era io, e mio fratello Casimiro, più giovane di due anni.
La storia della mia famiglia, di cui non ho ricordato che la fine dei tre suoi ultimi capi, indicava la nostra probabile sorte.
Quando si nasce sotto un Governo col quale si è sicuri di trovarsi tosto o tardi in lotta, bisogna prepararvisi e stare in guardia. È ciò che pensò nostra madre. Il cómpito non era difficile, e non occorreva del genio per definirlo.
Ciò che guasta i caratteri, e per contraccolpo consolida le tirannie, è la mancanza di abitudine nel sopportare il dolor fisico; è lo sbigottimento subito, che ci colpisce in presenza dei fenomeni, dei fatti morali. Abituare il corpo alle sofferenze e lo spirito ad ogni sorta di urto, gli è rendersi padroni del timone della vita.
— La prospettiva che vi si apre dinanzi, ci disse nostra madre, quando apprese come era morto nostro padre, si riassume in questo: morire combattendo; morire sopra un patibolo, o sotto il knut; perire in Siberia. Non c’è esempio che un conte di Lowanowicz sia morto per la mano di Dio. Bisogna dunque prepararvi, non già alla morte, che non è nulla, ma a subire con sguardo sicuro, con cuore virile, le ansie terribili che la precedono.
L’educazione, che ella ci diede, fu dunque conseguente a questo programma.
Non parlo dell’istruzione. Fu quella che gentiluomini ben educati dovevano avere, e potevano ricevere nelle Università tedesche e completare viaggiando. Rammento soltanto che, a quindici anni, noi eravamo maestri consumati nel maneggio d’ogni sorta d’armi; che potevamo dormire a cielo scoperto tutta una notte, succintamente vestiti, con venti gradi di freddo; che potevamo restare, senza alcun incomodo, tre giorni a digiuno; che potevamo ricevere qualche colpo di knut senza muover palpebra; che nessun lavoro materiale penoso ci ripugnava; che conoscevamo la geografia del Caucaso, dell’Oremburgo e della Siberia, e diversi dialetti di quelle contrade, come si conosce la propria casa e la propria lingua. Ci eravamo dunque famigliarizzati con tutte le cose impreviste. Eravamo preparati alla nostra parte. Ma questa parte non doveva essere la medesima per ambedue.
Il conte Andrea Zamoyski era stato l’amico di mio padre. Il marchese Alessandro Vielopolski-Myszkowski era parente di mia madre. Questi due personaggi, due incarnazioni della Polonia contemporanea, influirono in diversa maniera sul mio spirito e su quello di mio fratello, e decisero del nostro doppio destino. Io restai Polacco per opera della Polonia stessa, come il conte Andrea Zamoyski; Casimiro divenne Polacco per opera della Russia, come il marchese Wielopolski.
— La nobiltà polacca, diceva il marchese, preferirà certo meglio di camminare coi Russi alla testa della civiltà slava, giovane, vigorosa e piena d’avvenire, che di trascinarsi, imbarazzata, disprezzata, odiata, ingiuriata, in coda alla civiltà decrepita, brogliona e prosuntuosa delle nazioni occidentali. Diamoci dunque ai Romanoff da uomini liberi, che hanno il coraggio di riconoscersi vinti, senza condizioni, senza riserva, con una preghiera silenziosa sulle labbra: di strappare, cioè, alla razza tedesca i brani della Polonia del 1772, ch’essa possiede.
— Restiamo noi medesimi, diceva il conte Zamoyski, poichè Dio non ci ha confusi coi Russi, poichè tutti i tentativi ed i misfatti degli uomini per cangiarci sono falliti. Cinque o sei volte divisa e rimanipolata, vinta nel 1794, schiacciata nel 1831, data in mano alla rude assimilazione tedesca a Posen, massacrata in Gallizia, stritolata sotto la Russia, la Polonia attesta la sua vitalità indestruttibile. Questa nazione è un’anima anzi tutto. Operiamo come un’anima, e per l’anima; siamo il diritto e la giustizia che, alla lunga, trionfano sempre della forza. Esistiamo, e persistiamo. La risurrezione per la forza non ci è mai riescita; proviamo la risurrezione per la trasformazione morale. Sursum corda!
Queste parole non potevano mancare di fare una breccia profonda in un carattere come il mio, freddo, convinto, perseverante, senza paura e senza impazienza. La teoria del marchese scosse mio fratello, cuore pieno di foga, altiero e vendicativo. Noi eravamo, nel fondo, i due sistemi della rinnovazione della Polonia; ma entrambi Polacchi. Pure ci parve che un abisso s’interponesse fra noi, e la tenerezza severa di nostra madre fu impotente a colmarlo.
Una circostanza allargò lo spazio che ci separava.
Casimiro s’innamorò della moglie di un generale russo, una Polacca. Entrò nell’esercito russo, e vi fece la sua strada. Nel 1861 era aiutante di campo del granduca Costantino. A quell’epoca, egli aveva ventidue anni, io ventiquattro. Egli era a Pietroburgo, io a Varsavia.