Le donne di casa Savoia/XIII. Bianca di Monferrato
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Bianca di Monferrato
moglie di Carlo I
1471-1519.
XII.
BIANCA DI MONFERRATO
n. 1471 — m. 1519
Per una strada o florida o selvaggia |
sposa, fu accolta dalle popolazioni con vive simpatie.
Figlia di Guglielmo Paleologo, Marchese di Monferrato, e della sua seconda moglie Elisabetta Maria, figlia di Francesco Sforza, quando si stipulò il suo matrimonio col Duca Carlo di Savoia, Bianca era orfana, e sul trono del Monferrato sedeva suo zio Bonifacio, vecchio e vedovo senza figli. La matrigna, terza moglie di suo padre, era morta da poco, e tutta la sua famiglia consisteva nel vecchio zio, e nella sorella Giovanna, figlia della prima moglie, e già maritata al Marchese Lodovico di Saluzzo.
Giovani e belli entrambi gli sposi, dovevano in seguito portarsi vivissimo affetto, e la loro breve unione, per quanto lo consentissero i tempi calamitosi, doveva irradiarsi del sorriso d’amore; ma per adesso non si conoscevano, nessuna simpatia li univa, ed era la ragione di Stato che presiedeva al loro matrimonio; ragione di Stato intricatissima e con guerre e scissure in prospettiva, per la successione del Marchesato, da tanti ambita e pretesa.
E ad onta che solo da un mese fosse morta la matrigna di Bianca, ad onta che si fosse nella Settimana Santa, ad onta che non fossero ancora giunte le dispense dal Papa, perchè gli sposi erano parenti, giacché il nonno di Carlo e la nonna paterna di Bianca erano figli della stessa madre, il matrimonio fu affrettatamente concluso; un matrimonio fatto fuor di chiesa e senza sacerdote, e che allora si usava talvolta, detto sponsalia per verba de praesenti, e che si faceva dinanzi al Presidente del Consiglio marchionale, a cui i due sposi dichiaravano formalmente la loro volontà di unirsi, e che fino all’epoca del Concilio di Trento ebbe valore.
Ma tale matrimonio, pel quale si concepirono allora le più liete speranze, in sostanza non fece che arricchire di una virtuosa Principessa di più la schiera delle Sabaude, e in quanto a risultati politici essi furono una nuova e dannosissima guerra in cui fu travolto il Piemonte.
La ratifica del contratto doveva seguire a Moncrivello, ed ivi si recò Carlo, d’onde volse a Crescentino ad incontrare la sposa, che vi giunse il 9 aprile; ma solo dopo un mese arrivarono finalmente le sospirate dispense, e il matrimonio fu allora benedetto e consumato.
A Moncrivello gli sposi non si trattennero, dopo la cerimonia, che cinque giorni, spesi principalmente a preparare le magnificenze pel solenne ingresso a Torino, ove entrarono nel pomeriggio del diciannove, in bella e splendida cavalcata, in mezzo alle liete accoglienze dei Torinesi, tutti conquistati dalla bellezza e dalla grazia della sposa.
E i due coniugi poterono, per un anno e mezzo, godersi con sufficiente pace la dolcezza della loro affettuosa ed intima unione, ma fu quello forse il solo tempo felice della loro esistenza.
Carlo I, il marito, figlio di Yolanda e di Amedeo IX, aveva allora diciassette anni, ed era Duca da tre per la morte di suo fratello Filiberto. Dotato di spirito brillante e vivace, temprato da una precoce saggezza, accuratamente e con profitto educato presso suo zio Luigi XI, che lo volle seco quando rimase orfano, amò subito con passione la giovinetta che gli fu dolce e amorosa compagna nella sua breve vita. Perchè Carlo I, bello, buono, colto, valoroso, amicissimo del cugino, il futuro Carlo VIII, col quale aveva diviso svaghi e passatempi alla Corte del di lui padre, doveva avere la vita dei fiori. Amore e speranza dei suoi sudditi, pei quali aveva fatto e faceva tante belle e buone cose, e che in sì giovane età dava campo a formulare l’adempimento di splendide promesse, Carlo era anche allegro, di bei modi e generosissimo. L’assassinio di un intimo del Duca, i movimenti guerreschi di cui quello fu causa, poi la morte del fratello minore di Carlo, vennero ben presto a turbare la felicità dell’augusta coppia; felicità da allora sempre più contrastata dal continuo succedersi di spiacevoli avvenimenti, fino all’invasione del Ducato, fatta dal cognato Lodovico di Saluzzo con altri piccoli alleati.
Il Duca mosse allora da Torino per Vercelli, onde avvicinarsi al teatro della guerra, e quindi marciò contro gli invasori, e ben presto Lodovico dovè pentirsi di quella mossa imprudente. — Il 6 aprile, dopo una serie di battaglie riuscite per lui tante vittorie, Carlo entrava in Saluzzo!
Bianca era rimasta a Vercelli, in compagnia delle sue damigelle e con pochi fedeli servitori, vivendo ansiosa per i disagi a cui era esposto il marito, confortata solo dalle frequenti notizie di lui, e distratta dal continuo via vai di corrieri e ambasciatori, da Milano, Casale e dal campo, che si fermavano a farle omaggio.
Finalmente, sugli ultimi di aprile, il Duca potè tornare a Torino, e mandò un inviato a Vercelli per ricondurre ivi anche la Duchessa. E per tre mesi vissero riuniti, attendendo la nascita del loro primogenito, mentre Carlo frenava il suo istinto guerriero, che lo incitava a combattere le ultime battaglie, per essere presso la sposa nel supremo momento.
Nella notte dell’11 luglio 1487 si compiè il desiderato avvenimento, e la Duchessa diè felicemente alla luce una bambina, Yolanda Lodovica, accolta con giubilo dai genitori e festeggiata con entusiasmo dal popolo.
Dopo di che il Duca tornò al campo, onde vedere di conciliare la questione di Saluzzo, e terminare al più presto la guerra, facendo arbitro della decisione il Re di Francia. Le trattative però furono lunghe, perchè Carlo, mentre aveva ancora le mani libere, voleva approfittarne per finire di conquistare tutto quel Marchesato. Si arrivò nondimeno a concludere la convenzione di Chateaubriant, che niuno seriamente osservò; e quindi il trattato di Chinon, che poneva la questione, di Saluzzo in una via più pacifica, giacché ora erano i politici, e non i guerrieri, che dovevano decidere, sedendo in conferenze a Beauvoisin.
Durante la tregua ivi stabilita, Carlo si recò in Francia, alla Corte del cugino da poco Re, per meglio provvedere in persona agli interessi del Ducato, e là, recata da un araldo, che fece prodigi di velocità, gli giunse la sospirata notizia che il 24 giugno 1488, Bianca lo aveva fatto padre di un erede al Ducato. Egli, non appena pregato ed ottenuto che il Re tenesse al fonte il neonato, pensò ritornare in patria, impaziente di riabbracciare la moglie e il figliuolino.
La Corte di Carlo, rallegrata dal sorriso dell’amabile Duchessa, che non aveva desideri, gusti e piaceri se non divisi con lui, era una scuola perfetta di onore e di virtù. E ne fu valida prova il Cavaliere senza macchia e senza paura, il celebre Baiardo, che fu ivi educato e vi servì da paggio. Separata però dal marito, Bianca aveva intrapresa nel castello di Torino una vita modesta e ritirata, quale anche si confaceva al suo stato. Circondata dalle sue damigelle, servita da pochi gentiluomini, passava il tempo a ricamare, a decretare elemosine, messe e preghiere. Un solo concerto fu tenuto negli ultimi giorni di carnevale; indi succede la quaresima austera e rispettata.
E intanto si facevano i preparativi per l’ingresso nel mondo del futuro principe. Nato il fanciullo, le feste e le luminarie non furono risparmiate, e più di tutti esultò Torino, che da qualche anno si vedeva, con sua immensa soddisfazione prescelta a dimora ordinaria dei Duchi, e cominciava ad assumere dignità ed aspetto di capitale, a detrimento dell’emula Chambéry.
Il battesimo ebbe luogo il 2 agosto, con grande solennità, e così ritardato per dar tempo di giungere ai rappresentanti degli illustri padrini, e per far loro onore. Il bambino ricevè i nomi di Carlo, Giovanni, Amedeo: il primo dal padrino Carlo VIII, il secondo dal santo del giorno in cui nacque, il terzo dall’avo, la cui santità era stata in quei giorni riconosciuta a Roma.
Il Duca non fu presente al battesimo. Affari di Stato lo trattennero al suo ritorno in Savoia, e non rientrò in Torino che il 29 agosto, accompagnato dallo zio Filippo di Bressa, col quale erasi riconciliato ad Amboise.
In settembre Carlo presiedè in Torino la riunione degli Stati, e regolate in quella molte faccende, sperò di potere inaugurare un periodo di vita serena e tranquilla fra le domestiche mura, a fianco della moglie e dei figliuoletti. Invece, mentre il principino cresceva, orgoglio e delizia della reggia, colpito da lenta febbre deperiva il padre. Invano i medici impensieriti lo fecero trasportare a Moncalieri, perchè respirasse aria più pura in luogo più ridente; eppoi nel castello di Pinerolo, soggiorno non meno gradevole e lieto; ma niente lo sollevava né lo rinfrancava.
Appena si riaveva un poco, sorrideva alla moglie, sua assidua infermiera, e stringendole la mano le parlava dell’avvenire dei loro bambini; ma per sé stesso é probabile che presentisse già la fine, poiché dalla sua bocca non uscì mai una frase che accennasse a qualche progetto, da effettuarsi dopo la guarigione. Infatti egli languì tutto l’inverno, e alle prime aure di primavera, mentre la sposa cercava ansiosa sulle sue sembianze una traccia dell’influsso della benefica fata, quel povero volto facevasi ognor più pallido e magro, gli occhi si aprivano più languidamente, finché...non si riaprirono più! Era la primavera del 1490, la sua ventiduesima primavera!
Descrivere la costernazione universale per questa morte, sarebbe impresa ardua; ed impossibile addirittura sarebbe dare soltanto un’idea di quella di Bianca, del suo dolore! Trovarsi priva del suo affettuoso compagno, dopo soli quattro anni di dolce unione, e ciò a diciotto anni! Quando la vita non dovrebbe avere che sorrisi, la sua veniva crudelmente spezzata!
Con Carlo I si estingueva la brillante meteora, che aveva per poco illuminato il Piemonte, facendogli sperare in giorni migliori, giacché egli aveva compreso, e fatto comprendere agli altri, qual dovesse essere la via da tenersi politicamente. Emanciparsi risolutamente dalla Francia, affermare la superiorità della sua casa in tutto il Piemonte, e mediante l’unione intima con Milano, assicurarsi il predominio assoluto nell’alta Italia. Arduo compito, ch’egli avrebbe esaurito in mezzo agli applausi e al sostegno delle sue popolazioni, che ora invece sconfortate guardavano la corona ducale passata sulla tenera fronte di un esserino di nove mesi. — E s’invidiano i grandi!
La povera Bianca non poteva avere neppure il conforto che nel suo immenso dolore è concesso alla più umile donnicciuola. Essa non potè chiudersi nella solitudine, isolarsi e piangere, fino che almeno una calma relativa fosse ritornata nel suo cuore. Stretta da mille preoccupazioni per l’avvenire, mentre la salma del Duca non era ancor chiusa nella tomba, essa dovè ricevere sudditi e vassalli, che le si affollavano intorno per rinnovarle l’omaggio di sottomissione e servitù, per chiederle in nome del figlio conferma d’impieghi e di cariche, per riceverne ordini, per implorarne la benevolenza, con quella egoistica premura di chi, per l’interesse proprio, non calcola il dolore altrui. Ed essa non respinse nessuno, ma celando a fatica le lacrime, si costringeva ad essere serena e gentile con tutti, e mostrare l’animo freddo e calmo che deve avere chi sente di tenere nelle mani i destini di un popolo, dimostrando in tal guisa la sua gratitudine verso quei fedeli che non avevano aspettato ordini di Ministri, né compromessi di Principi per correre a lei e riconoscerla come naturale e legittima rappresentante del figlio.
Dal dovere e dalle circostanze, Bianca attinse la forza per non soggiacere all’immane prova, e giovane di diciotto anni si sentì trasformata in donna. Né doveva tardare a manifestarsi tale, a coloro cui le sorti del Ducato tenevano in apprensione, e anche donna di senno.
Carlo Giovanni Amedeo, fu proclamato Duca; ma.... a nove mesi era lui che aveva bisogno di essere governato! Bianca reclamò la Reggenza che come madre le spettava; ma i prozii avanzarono anch’essi le loro pretese, non rifuggendo dal rinnovare le lotte, i contrasti e le perturbazioni, suscitati intorno alla reggenza della di lei suocera Yolanda. Di più, piemontesi e savoiardi si contrastavano la sede del Duchino; i piemontesi, appoggiando le loro pretese al fatto che il bambino era nato fra loro, e non volendo per ciò che egli se ne andasse da Torino a Chambéry; i savoiardi, facendosi forti dall’essere la loro città la culla della famiglia. La Duchessa, italiana nata al di qua delle Alpi, inclinava a Torino, ma anche in questo caso, dando prova di quella rara prudenza che la distinse, mirando sempre ad evitare ciò che poteva far nascere gelosia fra i due popoli, volle lasciare ad ognuno libertà d’azione, e mentre ferveva la lotta, essa se ne stette ritirata a Pinerolo, coi figliuoletti.
Per sciogliere la questione, si convocarono gli Stati Generali; e vedendo intanto, i personaggi così riuniti, addensarsi in lontananza altre tempeste, e comprendendo che il Ducato vi sarebbe stato necessariamente coinvolto, ebbero la provvida idea di affrettarsi a prevenire la guerra civile, onde prepararsi, tutti concordi, alla straniera. L’amore alla dinastia e alla patria impose silenzio ad ogni altra passione, e fece sparire la barriera delle Alpi, ispirando sentimenti di fratellanza a due popoli così diversi nell’apparenza e non nella sostanza.
Fu dunque lasciata la Reggenza alla Duchessa, coadiuvata da un consiglio di notabili, e stabilita la sede della Corte a Torino; ed è appunto da quell’epoca che data la proclamazione della forte città a capitale della Monarchia di Savoia. Ritornatavi, Bianca andò coi figli ad abitare al Castello delle quattro Torri, e pose ogni suo studio e cura, fino dai primi atti, a vivere in buona armonia con tutti quelli che dovevano secondarla negli affari, il che era necessarissimo, poiché ogni giorno sorgevano nuovi e più grandi ostacoli ad attraversarle la via.
Qui ebbe inoltre subito a lottare con difficoltà finanziarie, che la fecero eroicamente risolvere a grandi economie, e a preoccuparsi delle pretensioni del Conte Filippo e del cognato Marchese di Saluzzo, che sperava prendere adesso la sua rivincita. Ma Bianca, ben consigliata e ben diretta, sopratutto dalla sua mente e dal suo cuore, seppe sempre evitare i tiri e i tranelli, e comportarsi nobilmente e italianamente, facendo sempre il bene e l’utile del suo popolo, giungendo fino a porsi in buoni rapporti col Conte Filippo, cedendo ad alcune sue pretese, ed a stipulare accordi col Marchese di Saluzzo e con Lodovico il Moro, da soddisfare i Piemontesi. Quest’unione dei tre potentati italiani, mise di malumore Carlo VIII, che nei primi mesi della Reggenza era assai più favorevole a Bianca; ma essa seguiva la politica del marito, che non voleva blanditi i francesi.
Essa riuscì pure a pacificare i rivoltosi savoiardi, che aiutati da Francia non volevano sottoporsi alla restituzione delle terre ai sudditi di Saluzzo; e se qualcuno l’accusò in questo caso di troppa sommissione, le va tenuto conto che era mossa dal desiderio di evitare la guerra. Però non potè evitarla del tutto, e Filippo, lo zio, dovè andare contro i ribelli. Berna e Friburgo però presero partito per Bianca, e la ferma attitudine di questi alleati salvò in quel momento il Ducato da una guerra disastrosa. Il Conte di Bressa andò quindi in Francia, ove doveva definirsi la questione, ma ne tornò poco contento, e poco soddisfatto dell’accordo stipulato, a cui’ la nipote dovè porre la ratifica.
Bianca, che altamente sentiva la dignità della sua casa, ne rimase assai più di lui offesa, tanto più che, meno assai di lui provava simpatia per quella Corte francese, che ad ogni patto voleva imporle la sua volontà, e da cui essa non aveva ricavato se non che danni ed umiliazioni. Ma d’altra parte, tanto lei che i consiglieri, comprendevano il bisogno di garantire la pace in Savoia, di vivere tranquilli, smettere gli armamenti e le spese onerose, e lo subirono.
E veramente, dopo quell’accordo, la tranquillità della Savoia non fu più gravemente turbata.
Sebbene Bianca avesse dovuto mettersi in economia e licenziare parte della Corte, fra cui il paggio Baiardo, quella rimaneva sempre brillante e numerosa. La Duchessa viveva nella più affettuosa intimità colle sue dame e damigelle, ed insieme attendevano a pazienti e delicati lavori d’ago, il più spesso destinati ad ornamenti da chiesa.
Pietro Baiardo, checché se ne dica, entrò al servizio del Duca Carlo nel 1486, e ne uscì, come ho detto, dopo la sua morte; e la sua prima educazione la ricevè in Italia, alla Corte di Savoia, dove i giovani Duchi si prendevano una cura speciale per l’educazione e l’istruzione dei loro paggi e delle loro damigelle.
Bianca, da vedova, dava ancora moderatamente feste e concerti, e le solennità religiose voleva che fossero celebrate sontuosamente e pubblicamente. Era poi generosissima e donava strenne e ricordi, ad ogni occasione, agli intimi, ai parenti, agli ambasciatori, associando spesso i figliuoletti ai suoi doni, come alle sue beneficenze. Le feste però non la distraevano troppo, né vi si abbandonava con entusiasmo. Religiosissima, dava costante esempio di preghiera, specie per implorare la salute dei figliuoli che crescevano deboli e malaticci, minacciati dalla stessa malattia di esaurimento che aveva spento il loro padre. Essa non ristava mai da appendere voti e fare innalzare preghiere nei più celebri Santuari dello Stato e specialmente all’altare dedicato a suo suocero, il Beato Amedeo IX.
Ma la devozione di lei non riusciva ad ottenere la grazia, ed il Duchino particolarmente aveva una salute fragilissima. Ciò nondimeno essa si prendeva gran cura onde, nel fanciullo e nella sorellina, l’educazione fisica andasse di pari passo con l’educazione morale e con l’istruzione, e li aveva circondati di valenti maestri che ritraevano dai loro allievi eccellenti risultati; e il Duchino a cinque anni stava in sella come un guerriero provetto, e la piccola Yolanda, di poco a lui maggiore, prendeva talora parte ai balletti di Corte, nei quali si distingueva per grazia e disinvoltura. Ma ne le cure dello Stato, né quella dei figli, assorbivano del tutto la Duchessa Bianca: essa prestava del pari soccorso ad opere d’arte e ad opere pie, e fu sotto la sua Reggenza, nel 1491, che s’iniziò la riedificazione, in Torino, della Cattedrale di S. Giovanni, sul disegno del fiorentino Baccio Pontelli, opera signe terminata poi sotto Filiberto II, figlio del Conte Filippo di Bressa, a cui allora era fidanzata Yolanda e che non aveva un trono in prospettiva. Bianca provvide ancora con un editto alla nettezza della sua capitale, e diè impulso ed aiuto alla coltivazione dei bachi da seta, industria nascente allora fra noi.
Sopraggiunta la pestilenza del 1493, la Reggente, come madre e come tutrice, sentì il dovere di allontanarsi da Torino, e si trasferì ad Ivrea, ma raggiunta in breve dal morbo, passò di lì a Vercelli.
Fu durante il suo soggiorno in questa città, che Bianca, consigliata anche dallo zio Filippo, venuto ivi a visitarla da Chambéry, ove teneva ora quasi abituale residenza, si decise a malincuore ad accordare a Carlo VIII il passaggio pel suo territorio per scendere alla conquista di Napoli. E il 4 luglio successivo tornava a Torino, costretta ad apparecchiarsi a ricevere degnamente e col sorriso sul labbro il non desiderato ospite. Ma come opporsi a quella discesa lei sola, circondata da potenti che o la desideravano o erano indifferenti? Quanta fermezza, quanta abilità, quante preoccupazioni costò a questa donna la spavalda impresa di Carlo VIII! Pure ne uscì meglio che potè, e mantenne intatto in quell’anno di trionfi francesi il possesso del figlio, e non riacquistò la calma se non quando Carlo, vinto, ebbe ripassate le Alpi, il 23 ottobre dell’anno appresso. E mentre aveva raccomandato sempre ai suoi ministri di non precipitare i suoi ordini, quando v’era dubbio che l’importunità o l’inganno li avessero strappati alla sua indulgenza, o alla sua giustizia, esercitava saggiamente l’autorità sovrana, essendo riuscita a conservare l’amicizia della Francia, senza dispiacere ai potentati d’Italia. Appena liberata da quell’incubo, sperando che nel tranquillo riposo della campagna meglio potessero rinfrancarsi i figli, specie il Duchino che, per quell’impresa aveva avuto anch’egli i suoi strapazzi, si recò, il 29 ottobre, con tutta la corte a Moncalieri. E per tutto l’inverno né feste né svaghi vennero ad interrompere la quiete di quella dimora, ove la madre paventava ogni giorno più per la vita del figlio, e la sovrana conosceva sempre più le strettezze e le sofferenze del popolo. Una mesta visita venne sola in quell’epoca a distrarre la Duchessa dalle sue preoccupazioni; quella della sconsolata Bona di Savoia, Duchessa di Milano, che perduto il figlio si recava in Francia, per farsi fare giustizia, e si fermò prima tre giorni presso la nipote.
Bianca, nella riconoscenza del suo popolo, e nella stima dei sovrani contemporanei, trovava una dolce ricompensa ai suoi sacrifizi, e forse anelava al tempo, oramai non troppo lontano, in cui, consegnato al figlio giovinetto lo scettro dei suoi avi, avrebbe potuto riposarsi, godendo il maggior gaudio delle madri, che consiste negli onori tributati al proprio sangue. Ma il cielo, che si riserva di provare a sua voglia la virtù dei mortali, le serbava ancora la maggiore delle afflizioni. Dopo aver passato l’inverno a Torino coi figli, la tenera madre, che ne sorvegliava con ansia e sollecitudine lo sviluppo fisico, ritornò con essi, nei primi bei giorni di primavera, a Moncalieri. Ma ahimè, che bella stagione non rifioriva nel cuore di Bianca, né sulle guancie di suo figlio! E i tristi presentimenti non la ingannarono: il 16 aprile 1496, Carlo Giovanni Amedeo moriva in età di 8 anni, traendo seco nella tomba tutte le speranze, le soddisfazioni e gli affetti della povera madre.
Carlo Giovanni Amedeo fu sepolto nella chiesa della Madonna a Moncalieri; e con lui si estinse la linea di Amedeo IX e di Yolanda, succedendogli sul trono il prozio, Filippo di Bressa, di cui era figlio ed erede il fidanzato della giovinetta Yolanda.
Il popolo pianse nel Duchino il bene che se ne aspettava, e più pianse la perdita del governo di Bianca. La quale non volle neppure pensare a ritenersi il potere, come alcuno, specie il Duca di Milano, le suggeriva; anzi, appena suo figlio ebbe esalato l’ultimo respiro, essa scrupolosamente non volle dar più nessun ordine, neppure pei funerali, ne per la sepoltura.
In seguito, il 12 maggio, nel Castello di Torino, si stabilì definitivamente che il matrimonio di Yolanda e Filiberto si sarebbe celebrato appena la fanciulla fosse in età conveniente, e tanta premura fu spiegata da Filippo per evitare che si potesse col mezzo di essa contestare a lui ed ai suoi la corona.
Bianca si formò allora una piccola Corte, ma non si ritrasse pel momento addirittura a vita privata, avendola di ciò pregata lo zio, e rimase con la figlia alla Corte di Torino, che tenne ancora per abituai residenza, non ristando però da frequenti visite e dimore nei castelli del suo assegno vedovile. Una volta anche, cedendo all’invito del futuro genero, stabilito a Ginevra, passò le Alpi e si recò ivi con Yolanda. Vi andò però a malincuore, e proprio per non offendere il giovane con un rifiuto, dispiacendole intraprendere un viaggio così disagiato nel gennaio, anche per la salute delicatissima della figlia. Il solenne ingresso con la futura Duchessa a Ginevra, fu il 1O febbraio 1498, ed entrambe vi ebbero magnifica accoglienza e splendide feste.
Bianca rimase parecchi mesi a Ginevra, ma non vi ebbe più l’animo lieto. La salute di Yolanda andava ogni dì pur troppo deperendo, finché la poverina si spense colà, in età di dodici anni, il 12 settembre 1498.
Bianca, desolata, dopo aver tributate alla figlia diletta le estreme cure, ne abbandonò forzatamente il corpo, che rimase a Ginevra, nella chiesa di S. Francesco, e partì il 25, a piccole giornate, per Torino, arrivandovi nell’ottobre, affranta di salute, e non riuscendo a trovare neppure lì ne pace, ne riposo. Voleva la solitudine, la vita addirittura privata, circondata da pochi servi, in un castello solitario, e scelse Carignano, che già da due anni aveva fatto riparare e adattare. E lì, tolte alcune gite a Torino, che ogni anno si facevano sempre meno frequenti, risiedè da allora abituallente.
A questo punto la figura di Bianca sparisce completamente dalla storia come sovrana; e diviene una gentildonna qualunque, che trascorre la vita nel lavoro, nella preghiera, nella beneficenza. Ma il mondo, caso raro, non la dimentica ancora; perchè non si siede per circa dieci anni sopra un trono con onore, per sparire improvvisamente; e spesso la raggiungevano nel suo ritiro lettere, omaggi e visite brillanti. Per due volte, cioè nel 1502 e nel 1507, ella ospitò nel suo castello Luigi XII, che l’aveva conosciuta e pregiata da semplice Duca d’Orléans, all’epoca della discesa in Italia di Carlo VIII; e nel 1515 Francesco I, che scendeva le Alpi a ricuperare il Ducato di Milano, per non accennare che ai maggiori.
Tra il novembre 1499 e il febbraio 1500, mentre le truppe francesi, scese a conquistare il Ducato di Milano, presidiavano la Lombardia, godendosi quel riposo in feste e spassi, Baiardo, che faceva parte di esse, volle approfittare di quella libertà per recarsi ad ossequiare la sua antica signora.
Bianca lo accolse quasi come un congiunto (le rammentava i suoi cari e la sua gioventù), ed egli, riconoscente, tenne in suo onore un torneo che fu seguito da feste che durarono vari giorni, giacché Bianca, come fu detto, non era raggiunta da nessun principe nella cortesia e magnificenza con cui trattava gli ospiti.
Bianca, rimasta cosi potente nel suo ritiro, trattata alla pari da Re, Cardinali e Principi, conduceva la vita più umile e modesta. Molte ore del giorno lavorava di ricami, al solito, colle sue damigelle; attendeva all’allevamento dei filugelli, ed a filar seta.
A quest’industria, che per allora non ebbe grande sviluppo, essa si dedicava fino da giovinetta; e da Reggente aveva stabilito in Torino un laboratorio per la seta, ed aveva fatto venire dalla Grecia una donna che insegnasse la filatura, e da Barcellona un tintore.
Tra i suoi svaghi eravi pure la cura di animali domestici, specie cani; ed occupavasi di confetture e sciroppi, che poi regalava a parenti e ad amici. Né venne meno al costume dell’epoca, che voleva esempi materiali di pietà e di religione, e fondò due conventi, sacri a S. Agostino, uno a Cavour, l’altro a Barges, ed arricchì straordinariamente quello di Carignano.
Così arrivò il 1519, e il 31 marzo di quell’anno, la bell’anima che aveva presentito la partenza, e tutto aveva disposto con ordine, placida s’innalzava a Dio.
La Duchessa Bianca è sepolta appunto nel convento di Carignano e sulla sua tomba Pingon fece così il di lei elogio:
«Bianca di Monferrato fu uno specchio di castità e di prudenza».