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lungo la muriccia di cinta del predio e guardava là dentro come Adamo doveva guardare il paradiso terrestre dopo esserne stato scacciato.

A dire il vero, il luogo non aveva più quell’aria di abbandono che invitava i passanti ad entrare ed a cogliere i frutti come in una terra senza guardiano; era ringiovanito, il prediu, come i nuovi padroni, con la muriccia riattata e assiepata, gli alberi pettinati lucenti: i latrati feroci del cane rosso echeggiavano nella solitudine. Il vecchio recitava i berbos, parole magiche per far tacere il cane, e pareva un mago, fermo sul suo alto bastone, con la sacca, la lunga barba, le reliquie sul petto; ma la bestia continuava a urlare e Pancraziu appariva qua e là tra il verde, nero e beffardo come un piccolo diavolo.

— Non entrate? Venite, venite avanti, zio Baì.

All’invito, il vecchio rispondeva facendo le fiche.

— Il fuoco entri e distrugga te e la roba del tuo padrone.

E s’allontanava, curvo sotto il peso del suo dolore geloso. Gli sembrava che il suo predio, come l’amante che lascia l’amico vecchio per darsi a uno giovane, si abbellisse e ringiovanisse dimenticando il passato; e un giorno, in ottobre, Antonio Ruju, il melograno, gli sbattè addosso, dall’alto del rialzo sopra la muriccia, una folata di foglioline gialle fitte come le goccie d’una nuvola che passa, quasi per irriderlo e farlo fuggire.