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che la copriva, l’alzai, e mi si presentò una scala per cui discesi colla mia scure. Giunto in fondo, mi trovai in un vasto palazzo che mi destò grande ammirazione per la luce che lo rischiarava quasi fosse stato sulla terra, nel luogo meglio soleggiato. M’inoltrai per una galleria sostenuta da colonne di diaspro, con basi e capitelli d’oro massiccio, ma vedendomi venire incontro una dama, mi parve essa d’aspetto sì nobile e disinvolto, e d’avvenenza sì straordinaria, che stogliendo lo sguardo da ogni altro oggetto, mi diedi unicamente a contemplarla.»

Qui Scheherazade cessò di parlare, vedendo ch’era giorno; Dinarzade allora le disse: — Mia cara sorella, ti confesso che sono contentissima di ciò che ci hai oggi raccontato, e m’immagino che quanto rimane non sia meno maraviglioso. — Nè t’inganni,» rispose la sultana, «poichè il resto della storia di questo calendero è più degno dell’attenzione del sultano mio signore di tutto ciò ch’egli ha udito finora. — Ne dubito,» disse Schahriar; «ma lo vedremo domani.»


NOTTE XLIII


Anche questa notte Dinarzade fu diligentissima, e la sultana, per soddisfare alla premura della sorella, si pose a raccontare ciò che avvenne nel palazzo sotterraneo tra la dama ed il principe. — Il secondo calendero,» continuò essa, «proseguì così la sua storia:

«Per risparmiare alla bella dama,» disse, «la pena di venire fino a me, m’affrettai a raggiungerla, e mentre le faceva una profonda riverenza, essa mi disse: — Chi siete? Uomo o genio? — Sono uomo,» le risposi rialzandomi, «e non ho coi geni verun commercio. — Per qual avventura,» ripigliò essa