Le Mille ed una Notti/Storia del primo calendero figlio di re

Storia del primo calendero figlio di re

../Storia di tre Calenderi, figli di re, e di cinque dame di Bagdad ../Storia del secondo calendero figlio di re IncludiIntestazione 27 novembre 2017 100% Da definire

Storia del primo calendero figlio di re
Storia di tre Calenderi, figli di re, e di cinque dame di Bagdad Storia del secondo calendero figlio di re
[p. 132 modifica]

storia


DEL PRIMO CALENDERO FIGLIO DI RE.


«Signora, per manifestarvi perchè io abbia perduto l’occhio destro, e la ragione che mi costrinse a prender l’abito di calendero, vi dirò che nacqui figliuolo di re. Mio padre aveva un fratello che regnava come lui in uno stato vicino. Ebbe questi due figli, un principe ed una principessa; e il principe ed io eravamo all’incirca della medesima età. Compiti tutti i miei studi, e datami dal re mio padre una ragionevole libertà, io andava regolarmente ogni anno a far visita al re mio zio, e mi fermava alla sua corte un mese [p. 133 modifica]o due, dopo cui tornava dal padre. Questi viaggi diedero occasione al principe mio cugino ed a me di stringere insieme un’amicizia assai forte e particolare. L’ultima volta che lo vidi, mi accolse colle maggiori dimostrazioni di tenerezza che non avesse mai fatto, e volendo un giorno convitarmi, fece a tal uopo straordinari preparativi. Ci trattenemmo a tavola molto tempo, e dopo ch’ebbimo ben cenato: — Cugino,» mi disse, «non indovinereste mai in che cosa mi sia occupato dopo l’ultimo vostro viaggio. È già un anno che, dopo la vostra partenza, impiegai un gran numero d’operai per un disegno che medito. Ho fatto fabbricare un edificio che è terminato, ed ora vi si può alloggiare, nè vi spiacerà di vederlo; ma bisogna mi giuriate prima di mantenermi il segreto e la fedeltà: sono due cose che esigo da voi.» Non permettendomi l’amicizia e la familiarità che passavano fra noi di negargli cosa veruna, feci senza esitare un giuramento qual egli desiderava, ed allora mi disse: — Aspettatemi qui; sono in un momento da voi.» Infatti non tardò a ricomparire, e lo vidi entrare con una donna di singolar bellezza, e splendidamente vestita; egli non mi disse chi era, nè io credetti doverglielo chiedere. Tornammo a porci a tavola colla dama, e restativi ancora alcun tempo, parlando di cose indifferenti, e bevendo alla salute l’un dell’altro, il principe in fine dissemi: — Cugino, non abbiamo tempo da perdere; fatemi il favore di prender con voi questa signora, e condurla in un certo luogo ove vedrete una tomba a cupola eretta da poco. La conoscerete agevolmente: la porta n’è aperta; entratevi insieme, ed aspettetemi. Vi raggiungerò in breve.

«Fedele al mio giuramento, non volli saperne di più, e offerta la mano alla signora, mediante le indicazioni datemi dal principe mio cugino la condussi [p. 134 modifica]felicemente al raggio della luna, senza smarrirmi. Appena giunti alla tomba, vedemmo comparire il principe che ci avea seguiti, carico d’una piccola brocca piena d’acqua, d’una zappa e d’un sacchetto di gesso. La zappa gli servì per demolire l’avello vuoto che trovavasi in mezzo alla tomba; ne tolse ad una ad una le pietre, e le dispose in un canto; quando le ebbe tutte levate, scavò la terra, e vidi una botola situata sotto l’avello stesso. La sollevò, e sotto vi scorsi una scala a lumaca. Allora mio cugino, volgendosi alla dama, le disse: — Signora, ecco per dove si scende al luogo di cui v’ho parlato.» La dama a quelle parole si accostò e discese, ed il principe s’accinse a seguirla; ma voltosi prima a me: — Cugino,» mi disse, «vi sono infinitamente grato della briga che vi siete dato per me. — Mio caro cugino,» gridai io allora, «che cosa significa questo? — Ciò vi basti,» mi rispose; «potete ripigliare la strada d’onde siete venuto.»

Il giorno che sopraggiunse impedì a Scheherazade di proseguire. Il sultano si alzò, ansioso di sapere il disegno del principe e della dama, che pareva volessero seppellirsi vivi, ed attese impazientemente la notte successiva per esserne informato.


NOTTE XXXVIII


Schahriar essendosi esternato colla sultana che gli farebbe cosa grata a continuare il racconto del primo calendero, ripigliò essa la narrazione in questi termini:

— «Signora,» disse il calendero a Zobeide, «non potei ricavar altro dal principe mio cugino, e fui costretto ad accommiatarmi da lui. Nel tornare al [p. 135 modifica]palazzo del re mio zio, i vapori del vino mi montavano alla testa; pure non lasciai di recarmi al mio appartamento, e mettermi a letto. Alla domane, svegliandomi, riflettei a quanto m’era occorso la notte, e richiamatemi in mente tutte le circostanze di un’avventura sì singolare, mi parve un sogno, talchè, occupato di tal pensiero, mandai a chiedere se il principe mio cugino fosse visibile. Ma quando mi fu riferito che non aveva dormito in palazzo, ignorarsi che cosa fosse di lui, e che tutti ne stavano in gran pena, giudicai che lo strano avvenimento della tomba pur troppo era vero. Ne fui afflittissimo, ed involandomi all’altrui vista, mi recai segretamente al pubblico cimitero, dov’era un’infinità di tombe simili a quella da me veduta; passai tutta la giornata a rimirarle ad una ad una, ma non seppi trovare quella che cercava, sebbene ripetessi per quattro giorni le indagini.

«È d’uopo sapere che, durante quel tempo, il re mio zio era assente da più giorni, trovandosi alla caccia. Mi stancai di aspettarlo, e pregati i suoi ministri di fargli al suo ritorno le mie scuse, partii per restituirmi alla corte del re mio padre, da cui io non soleva stare tanto tempo lontano. Lasciai i ministri del re mio zio inquietissimi di non sapere notizie del principe mio cugino; ma, per non violare il giuramento da me fatto di mantenergli il segreto, non volli comunicar loro nulla di quanto sapeva, e li lasciai nella loro agitazione.

«Giunsi alla residenza di mio padre, e, contro il solito, trovai alla porta del palazzo una numerosa guardia, dalla quale, entrando, fui circondato, e chiestane la ragione, l’ufficiale che la comandava mi rispose: — Principe, l’esercito ha riconosciuto il gran visir in vece del re vostro padre, che più non esiste; debbo dunque ritenervi prigioniero per ordine [p. 136 modifica]del nuovo sovrano.» A tai detti, le guardie s’impossessarono di me, e mi trascinarono al cospetto del tiranno. Giudicate, o signora, della mia sorpresa e del mio dolore.

«Il ribelle visir aveva concepito da molto tempo un odio fortissimo contro di me, ed eccone il motivo. Nella mia più tenera gioventù mi dilettava a tirare di balestra; un giorno, che stava esercitandomi con quest’arme sulla terrazza del palazzo reale, mi si presentò un uccello: lo mirai, ma sbagliato il colpo, la freccia andò per caso a ferire in un occhio il gran visir, che prendeva il fresco sulla terrazza della sua casa. Quando seppi tale disgrazia, mandai a fare mille scuse al visir, e gliene feci io stesso; ma egli non lasciò di serbarne un vivo risentimento, di cui mi dava segni ogni qual volta se gliene presentava l’occasione, e lo manifestò in barbara guisa quando m’ebbe in suo potere; chè appena mi vide, corsemi incontro come un furioso, e cacciandomi le dita nell’occhio destro, me lo cavò egli stesso: ecco perchè divenni guercio.

«L’usurpatore qui non limitò la sua crudeltà; mi fece rinchiudere in una cassa, ed ordinò al carnefice di portarmi così assai lontano dal palazzo, di troncarmi la testa ed abbandonarmi in preda agli uccelli di rapina. Il manigoldo, accompagnato da un altro, montò a cavallo, carico della cassa, e fermossi nella campagna per eseguire il barbaro comando: ma tante furono le preghiere e le mie lagrime, che finii col moverlo a pietà. — Andate,» mi disse, «uscite di volo dal regno, e guardatevi bene dal tornarvi, poichè non isfuggireste alla vostra perdita, o sareste cagione della mia.» Lo ringraziai, del favore, e mi confortai della perdita dell’occhio pensando, che aveva evitato una disgrazia maggiore.

«Nello stato in cui mi trovava non poteva far molta [p. 137 modifica]strada; mi ritirava di giorno in luoghi remoti, e viaggiava la notte per quanto le forze me lo permettevano; giunsi finalmente negli stati del re mio zio, e mi recai alla sua capitale. Gli feci una lunga relazione della tragica causa del mio ritorno e della triste condizione nella quale mi vedeva. — Aimè,» sclamò egli, «non bastava aver perduto mio figlio, che doveva udir ancora la morte d’un fratello diletto, e veder voi nel deplorabile stato in cui siete!» Mi esternò la sua inquietudine per non aver ricevuto nuova alcuna del principe suo figliuolo, malgrado le diligenti ricerche fatte. Piangeva l’infelice padre a calde lagrime nel parlarmi, e mi sembrò sì afflitto che non seppi resistere al suo dolore, e mi fu impossibile osservare più a lungo il giuramento fatto al principe mio cugino, talchè raccontai al re suo padre quanto m’era noto. Ascoltommi il re con qualche specie di conforto, e quand’ebbi finito: — Nipote,» mi disse, «il vostro racconto mi dà alcun raggio di speranza. Io ho saputo che mio figlio faceva erigere quella tomba, e ne so a un dipresso il sito; coll’idea che ve n'è rimasta, ho fiducia di trovarla. Ma poichè l’ha fatta costruire segretamente, e vi fece giurare di non parlarne, son d’avviso di andarla a cercare noi due soli, ond’evitare ogni pubblicità.» Aveva poi egli un’altra ragione, che non mi comunicò, di tener occulta la cosa a tutti; ragione importantissima, come la continuazione del mio racconto vi farà conoscere.

«Ci travestimmo amendue, ed usciti per una porta del giardino che metteva sulla campagna, fummo assai fortunati per trovare in breve ciò che cercavamo. Riconobbi la tomba, e ne provai tanto maggior gioia, in quanto che prima l’aveva cercata lungamente indarno. Entrati, trovammo turato l’ingresso della scala dalla botola di ferro; con gran pena la sollevammo, [p. 138 modifica]perchè il principe l’aveva assicurata per di dentro col gesso e l’acqua di cui feci menzione, ma finalmente vi riuscimmo.

«Il re, mio zio, scese pel primo; lo seguii, e calammo circa cinquanta gradini. Quando fummo in fondo alla scala, ci trovammo in una specie d’anticamera, piena di cattivo odore e di denso fumo, ond’era oscurata la luce tramandata da una bellissima lumiera. Dall’anticamera passammo in una vasta sala, sostenuta da grosse colonne, e illuminata da parecchie altre lumiere. Eravi in mezzo una cisterna, e vedevansi varie sorta di provvigioni da bocca disposte in un angolo. Fummo però maravigliati di non trovarvi alcuno. Rimpetto stava un sofà assai alto, al quale salivasi per alcuni gradini, e su cui stava un largo letto, colle cortine chiuse. Salì il re, ed apertele, vide il principe suo figlio e la dama coricati insieme, ma bruciati o ridotti in carbone, come se fossero stati arsi sur un rogo, e ritirati prima di andar combusti.

«Ciò che mi sorprese più d’ogni altra cosa, fu che a tale spettacolo, ispirante orrore, il re mio zio, in vece di mostrarne afflizione vedendo il principe suo figlio in sì orribile stato, gli sputò in volto, dicendogli in aria sdegnosa: — Ecco qual fu il tuo gastigo in questo mondo; ma quello dell’altro durerà in eterno.» Nè si contento d’aver parlato così, ma cavatesi le scarpe, diè sulla guancia del figlio un gran colpo colla pappuccia1.

— Ma, sire,» disse Scheherazade, «è giorno, e mi spiace che vostra maestà non abbia tempo d’ascoltarmi più oltre.» Siccome la storia del primo [p. 139 modifica]calendero non era ancor finita, e sembrava assai strana al sultano, si alzò egli nella risoluzione d’udirne il resto la notte seguente.


NOTTE XXXIX


Vedendo Scheherazade la grande impazienza della sorella di sapere il fine della storia del primo calendero, le disse: — Sappiate dunque che il primo calendero, continuando a raccontare la sua storia a Zobeide, ripigliò in tal modo:

«Non posso esprimervi, o signora, qual fu il mio stupore, quando vidi il re mio zio maltrattare così il cadavere del principe suo figlio. — Sire,» gli dissi, «per quanto grande sia il dolore che mi cagiona sì funesto oggetto, non posso a meno di sospenderne il corso per chiedere a vostra maestà qual delitto possa aver commesso il principe mio cugino onde maltrattiate in siffatta guisa la misera sua salma. — Nipote,» risposemi il re, «vi dirò che mio figlio, indegno di portar questo nome, amò fino dai primi anni sua sorella, e ne fu riamato. Io non mi opposi al loro amore nascente, non prevedendo il male che poteva derivarne. E chi avrebbe potuto prevederlo? La loro tenerezza crebbe coll’età, e giunse al punto che finalmente ne temetti le conseguenze; ma non vi misi allora il rimedio ch’era in mio potere; m’accontentai di prendere in disparte mio figlio, ed ammonirlo severamente, rappresentandogli l’orrore della passione cui lasciavasi trascinare, e l’eterna infamia di cui stava per coprire la famiglia, se persisteva in sì rei sentimenti; esposi le stesse cose anche a mia figlia, e la rinchiusi in modo che non potè più comunicare col fratello. Ma la sciagurata aveva [p. 140 modifica]trangugiato il veleno, e tutti gli ostacoli che la mia prudenza cercò frapporre al loro amore, non servirono che ad irritarlo. Mio figlio, persuaso che sua sorella fosse sempre la stessa per lui, col pretesto di farsi costruire una tomba, fece preparare questa dimora sotterranea, nella speranza di trovare un dì o l’altro occasione di rapire il colpevole oggetto della sua fiamma, e qui condurlo. Approfittò della mia assenza per involare la sorella dal ritiro ove stava, ed è tal circostanza che il mio onore non mi permise di pubblicare. Dopo sì abbominevole azione, è venuto a rinchiudersi con lei in questo luogo da lui munito, come vedete, d’ogni specie di provvisioni, per potervi godere a lungo de’ suoi detestabili amori, che devono ispirar orrore all’universo. Ma il cielo non ha voluto soffrire tanta vergogna, e li ha entrambi giustamente puniti.» Ciò detto, proruppe in dirotto pianto, ed io mischiai le mie alle sue lagrime. Indi volti gli occhi su me: — Ma, mio caro nipote,» ripigliò egli abbracciandomi, «se perdo un figlio indegno, trovo per fortuna in voi chi degnamente potrà surrogarlo.» Le riflessioni ch’ei fece ancora sulla triste fine del principe e della principessa suoi figliuoli, ci strapparono nuove lagrime. Risalimmo per la medesima scala, ed usciti da quel luogo funesto, abbassammo la botola di ferro, e la coprimmo di terra e de’ materiali ond’era stato costrutto l’avello, affin di nascondere, per quanto stava in noi, un effetto sì terribile della collera divina.

«Non molto dopo il nostro ritorno al palazzo, senza che alcuno si fosse avveduto della nostra assenza, udimmo un confuso rumore di trombe, timballi, tamburi ed altri bellici strumenti. Un denso nembo di polvere, di cui era oscurata l’aria, ci manifestò in breve di che si trattava, annunziandoci l’arrivo d’un esercito formidabile. Era lo stesso visir che aveva detronizzato mio padre ed usurpati i suoi stati, il quale [p. 141 modifica]veniva con innumerabili falangi per impossessarsi anche di quelli del re mio zio.

«Non avendo allora questo principe che la sua guardia ordinaria, non potè resistere a tanti nemici, che investirono la città, ed essendo state loro aperte le porte, poco stentarono ad impadronirsene. Nè maggior difficoltà provarono a penetrare fino al palazzo del re mio zio, che, postosi in difesa, dopo accanita pugna, rimase ucciso. Quanto a me, combattei per qualche tempo; ma vedendo che bisognava cedere alla forza, cercai di ritirarmi, ed ebbi la buona ventura di scampare per vie nascoste, e recarmi presso un ufficiale del re, la cui fedeltà m’era nota.

«Oppresso dal dolore, perseguitato dalla fortuna, ebbi ricorso ad uno strattagemma, unico rifugio che restavami per conservare la vita. Mi feci radere la barba e le sopracciglia, e preso l’abito di calendero, uscii dalla città senz’essere riconosciuto. Mi fu quindi agevole allontanarmi dal regno di mio zio, camminando per luoghi remoti, ed evitando di passare per le città, finchè giunto nell’impero del possente commendatore dei credenti (2), il glorioso ed illustre califfo Aaron-al-Rascid, cessai di temere. Allora, pensando su ciò che aveva a fare, presi la determinazione di venire a Bagdad per gettarmi appiè di sì gran monarca, del quale ovunque si vanta la generosità. Lo commoverò, diceva, col racconto delle mie sventure; avrà pietà senza dubbio di un principe infelice, e non ne implorerò certo invano la protezione.

«Finalmente, dopo un viaggio di più mesi, sono arrivato oggi alle porte di questa città; entratovi sul cadere del giorno, ed essendomi fermato per ripigliare le forze, e deliberare da qual parte volgere i passi, [p. 142 modifica]l’altro calendero che qui vedete, giunse egli pure da un suo viaggio. Mi salutò, e corrispostogli: — Al vedervi,» gli dissi, «voi siete forestiero al par di me.» Rispose che non m’ingannava, e mentre così parlavami, ecco sopravvenire il terzo calendero che pur vedete. Ci salutò, e ci fe’ sapere d’essere anch’egli straniero a Bagdad; siccome fratelli ci unimmo insieme, risoluti di non separarci mai più.

«Intanto facevasi tardi, e noi non sapevamo ove andar ad alloggiare in una città, di cui non avevamo conoscenza alcuna, non essendoci mai stati. Ma giunti per buona nostra fortuna davanti alla vostra porta, ci pigliammo la libertà di bussare, e voi ci riceveste con tanta carità e bontà, che non sappiamo abbastanza ringraziarvene. Ecco, signora, ciò che mi avete comandato di raccontarvi, perchè ho perduto l’occhio destro, perchè ho rasa la barba e le sopracciglia, e perchè sono in tal momento in casa vostra.

«— Basta così,» rispose Zobeide, «siamo contente: ritiratevi ove meglio vi piace.» Il calendero se ne scusò, istando presso la dama onde le permettesse di rimanere per aver la soddisfazione di udire la storia dei due confratelli, ch’ei non poteva, a parere suo, abbandonare per civiltà, e quella delle tre altre persone della compagnia.

— Ma, sire» disse qui Scheherazade, «il giorno che spunta mi vieta di cominciare la storia del secondo calendero; ma se vostra maestà vorrà udirla domani, non ne sarà men soddisfatta di quella del primo.» Il sultano acconsentì, e si alzò per andar a presiedere il suo consiglio.

[p. 143 modifica]


NOTTE XL


Dinarzade non mancò di svegliare la sultana prima di giorno, pregandola di cominciare il promesso racconto. Scheherazade, volgendo tosto la parola al sultano, così disse:

— Sire, la storia del primo calendero parve strana a tutta la brigata, e specialmente al califfo, cui la presenza degli schiavi colle scimitarre sguainate non impedì di dire sotto voce al visir: — Dacchè ho l’uso della ragione, udii molte storie, ma nessuna mai che somigliasse a quella di questo calendero.» Mentre così favellava, il secondo calendero prese la parola, e volgendola a Zobeide.


Note

  1. Battere qualcuno sulla bocca con una scarpa, è infliggere un’ignominiosa punizione. Quest’uso, tuttora sussistente, pare antichissimo in Oriente.
  2. Ossia principe de’ fedeli, titolo dei califfi.