Le Metamorfosi/Libro Quinto

Libro Quinto

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Libro Quarto Libro Sesto

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LIBRO QUINTO

M
entre à più degni Heroi de l’Ethiopia

     L’illustre cavalier Greco ragiona;
     Un gran romor d’huomini, e gridi in copia
     Sorge ne l’aere, et ogni orecchia introna.
     Tanto che lascia ogn’un la sede propia,
     E pronta à l’armi acconcia la persona,
     Che non è suon di dolci voci, ò carmi
     Per rallegrar; ma d’alti gridi, e d’armi.

La regia sala è lunga, e larga tanto,
     Ch’à gran pena maggior far si potria:
     E ’l Re, che Perseo, il qual gli tolse il pianto,
     Volle honorar d’ogni alta cortesia,
     V’havea invitato il regno tutto quanto,
     E v’era il fior de la sua Monarchia.
     Tal, che la sala anchor confusa, e varia,
     Empie di doppio suon l’orecchia, e l’aria.

Come talhor, se ’l mar si gode in pace
     L’ampio suo letto placido, e contento,
     E mentre tutto humil senz’onda giace,
     Freme ne l’aria un tempestoso vento,
     L’onda alza, e rompe, e mormorar la face,
     Tanto, ch’assorda il ciel doppio lamento:
     Cosi il lieto convito al novo insulto
     Multiplicò tumulto con tumulto.

Fineo fratel di Cefeo era l’autore
     Del romor, che promesso il Re gli havea
     D’Andromeda il connubio, e co’l favore
     Quasi di tutto il Regno hor la volea.
     E quei, ch’eran più degni, e di più core
     Nel palazzo Real condotti havea,
     Da picche in fuor, con arme d’ogni sorte,
     Proprie per quella sala, e quella corte.

Gli Ethiopi tutti havean non poco à sdegno,
     Anchor che fosse il Greco un gran guerriero,
     Che la figlia del Re con tutto il regno
     S’havesse à dare in preda à un forestiero.
     Però il fratel del Re fece disegno
     (Seco havendo il favor del popol nero)
     D’uccider Perseo, e torsi ogni sospetto,
     Pria, che ’l facesse sposo ella nel letto.

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Manda à veder con degnità turbato
     Chi fà il romore il Re canuto, e bianco.
     Il fido scudo il Greco hà già trovato
     Col capo ascoso di Medusa al fianco.
     Lo stocco, che Mercurio gli havea dato,
     Nel fodro anchor pendea dal lato manco,
     Che la Real presentia ivi richiede,
     Ch’ei non debbia sfodrar, s’altro non vede.

I Principi, che fur di quel convito,
     Stavano come quei, ch’altro non sanno,
     Del ricco ornato, e splendido vestito,
     Pronti per imbracciar la seta, e ’l panno,
     E chiedean, chi superbo, e chi smarrito,
     Chi son quei, che da basso il romor fanno,
     Chi può, da i balcon guarda in sù la strada,
     E ogn’un la man sù l’elso hà de la spada.

La guardia del Signor, che sù l’entrata
     Stava ordinaria à l’ improviso colta,
     Dopo qualche contrasto fu sforzata,
     Tutta disfatta fu non senza molta
     Strage, ch’alcuni havean l’arma abbassata,
     E la difesa de la porta tolta.
     Ma fur tanto assaltati à l’ improviso,
     Ch’un dopo l’altro al fin ciascun fu ucciso.

Come Fineo compare in sala, e grida
     Con arme hastate, e spade, archi, e rotelle,
     E Perseo, e tutti i suoi minaccia, e sfida;
     La sposa, et altre assai donne, e donzelle,
     Alzano sbigottite al ciel le strida,
     Ne il Moro udir si può quel, che favelle.
     Ma tosto un prende de le Donne cura,
     E tutte in altra stanza l’assicura.

Hor si vedrà, se sei figliuol di Giove
     Fineo à gridar comincia da la lunga,
     Ch’ei non farà, che tutto intende, e move,
     Che ’l core hoggi quest’ hasta non ti punga.
     L’ali del tuo destrier si rare, e nove
     Non potran sì volar, ch’ io non ti giunga.
     Tutto il ciel non farà, ch’ io non ti spoglie
     De la vita in un punto, e de la moglie.

Vede ei, mentre l’ ingiuria, e d’ ira freme,
     Che in sala ignuda ogn’un la spada afferra,
     E però pensa i suoi stringere insieme,
     Et in battaglia poi far lor la guerra.
     Che se non và come conviensi, teme
     Ch’ à suoi non tocchi insanguinar la terra,
     E però aspetta gli altri ne la sala,
     Li quai di man in man montan la scala.

Il Re al fratello accenna con la mano,
     E corre con senile, e debil piede,
     E gli dice sdegnato di lontano.
     Questa del merto dunque è la mercede?
     S’ei salvò lei dal mostro horrendo, e strano,
     Come poss’ io mancar de la mia fede?
     Perseo à te non hà tolta la consorte,
     Ben l’hà involata al mostro, et à la morte.

Legata la vedesti al duro scoglio,
     Dove dal mostro esser dovea inghiottita:
     E tu suo sposo, e zio di lei cordoglio
     Non però havesti, e non le desti aita.
     Fineo tutto ripien d’ira, e d’orgoglio
     Tolta al Re in un momento havria la vita,
     Ma perche sposar vuol la figlia, l’ira
     Sfoga contra il rivale, e un dardo tira.

Perseo, che attento stava à riguardallo
     Quello al ferro nemico oppose scudo,
     Ch’è fuor d’acciaio, e dentro di cristallo,
     E fe lo stral restar d’effetto ignudo.
     Ma il Greco già lanciar no’l volle in fallo,
     Ma, che contra Fineo fera più crudo,
     Manda l’istesso dardo à la vendetta,
     Ma Fineo spicca un salto, e non l’aspetta.

Il dardo fende l’aria, e in fronte giunge
     D’un, che dietro era à Fineo detto Reto,
     E tanto indentro in quella parte il punge,
     Che ’l fa senz’alma riversare indrieto.
     Il vecchio Re da quel furor và lunge,
     E protesta a gli Dei, ne ’l dice cheto,
     Ch’al forte peregrin, cortese, e saggio
     Contra la mente sua fan quello oltraggio.

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Perseo intanto gli Heroi di quella mensa
     (Per proveder se può di qualche scampo)
     In filo con grand’ordine dispensa,
     E tutto prende per traverso il campo,
     Squadra gli huomini, e l’arme, e mentre pensa
     Come meglio ordinar puote il suo campo,
     Giunge una freccia ingiuriosa, e presta,
     E fora à lui le falde de la vesta.

Fin da l’estremo Gange era venuto
     Ati, un paggio di Fineo illustre, e bello,
     E forse un simil mai non fu veduto
     Da la natura fatto, ò dal pennello,
     Da ch’egli nacque havea il Montone havuto
     Dal Sol sedici volte onato il vello,
     E solea ornar si vago aspetto, e divo
     D’un vestir non men ricco, che lascivo.

Vada pur dove vuol, da tutti gli occhi
     D’huomini, e donne à se tira lo sguardo.
     Altri non è, che meglio un segno tocchi,
     Quando egli lancia un pal di ferro, ò un dardo,
     Nel far, che giusto al punto un telo scocchi,
     Nel mostrarsi à caval destro, e gagliardo.
     E ’n tutto quel, che fà, mostra tal gratia,
     Che vista mai di lui non resta satia.

Trovossi Perseo appresso al ricco altare,
     Dove fer sacrificio ad Himeneo,
     E vedendo un gran legno anchor fumare,
     Il prese, e l’aventò contra Fineo.
     Hor mentre il vuol d’un salto egli schivare,
     Colse contra la mente di Perseo
     Nel vago viso, e d’ogni gratia adorno,
     Mentre egli à l’arco anchor tendeva il corno.

Fra la fronte, e la tempia fu percosso
     Il misero garzon dal lato manco,
     E non bastò al carbon far nero, e rosso
     Di sangue il volto suo splendido, e bianco;
     Ma gli ruppe la fronte insino à l’osso,
     E batter fe in terra il petto, e ’l fianco,
     E dopo un rispirar penoso, e corto
     Il misero restò del tutto morto.

Quando il vede cader Licaba, un Siro,
     Il qual l’amava assai più che se stesso,
     Fà con un doloroso alto sospiro
     Conoscere à ciascun, che gli è da presso,
     Ch’egli hà di quel morir maggior martiro,
     Che se fosse il morir toccato ad esso,
     À piangerlo l’ invita il duol; ma l’ ira
     À la vendetta, et à la morte il tira.

E ben mostrò l’amor non esser finto,
     Che ’l nervo, che quel misero havea teso,
     A punto in quel momento, che fu estinto,
     Prese di rabbia, e di furor acceso,
     Lo strale incocca, e poi, che l’arco ha spinto
     Co’l braccio manco più, che può disteso,
     Tira il cordon co’l destro, e pria, che scocchi,
     Drizza à l’istesso segno il dardo, e gli occhi.

Scocca la freccia, e batte in aria l’ale,
     Lo guarda il mesto Siro, e grida forte,
     Tutto ’l ciel non farà, che questo strale
     Non vendichi la sua con la tua morte.
     E quando l’arco suo non sia mortale,
     T’ucciderò con arme d’altra sorte,
     C’hai scolorato un viso il più giocondo,
     Che fosse mai veduto in tutto ’l mondo.

Schiva egli il colpo, e quel, che trasse, vede,
     Che di novo minaccia, e l’arco tende,
     Lascia le squadre unite, e giunge, e fiede
     Il Siro, e d’un mandritto il capo fende.
     Quel gira, e và, ne può tenersi in piede,
     E in tanto nel garzon le luci intende,
     Gli cade appresso, e se felice chiama,
     Che muore à canto à quel, che cotanto ama.

Dal Greco a pena il Siro fu percosso,
     Che Fineo, e mille suoi tutti in un punto
     Se gli aventaro con mille arme addosso,
     Ma à tempo ei ritirossi, e non fu punto.
     Hor l’uno, e l’altro essercito s’è mosso,
     E quel del Moro, e quel del Greco è giunto.
     L’un Duca addosso à l’altro altier si serra,
     E sono i primi à cominciar la guerra.

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Mostra la punta de la spada, e ’l volto
     L’uno, e l’altro rivale audace, e forte,
     E cerca via, che sia il nemico colto
     In parte tal, che lui conduca à morte.
     Ma il braccio hanno ambedue si fermo, e sciolto,
     E voglia tal di vincer la consorte,
     Ch’ogni lor colpo ingiurioso, e crudo
     Hor la spada ripara, et hor lo scudo.

Mostrano i due Signor nel mezzo il viso,
     E questi, e quei ne l’uno, e l’altro corno.
     Se ben quei, che fur colti à l’improviso,
     Non han tante haste, e tanto ferro intorno,
     Ma sanno star talmente in sù l’aviso,
     Che da gli altri non han danno, ne scorno,
     Pur qualche targa, e qualche spiedo v’hanno,
     Che ritrovar dove hor le Donne stanno.

Il Greco, e ’l Moro cerca ogni vantaggio,
     Onde il nemico suo di vita spoglie,
     E fere questi, e quei con gran coraggio,
     Ne men l’honor combatte, che la moglie.
     È ver, che ’l Moro hà già disavantaggio,
     Ne la persona no, ma ne le spoglie,
     Che la spada celeste è di tal prova,
     Che manda tutto in pezzi ciò, che trova.

Hor ecco quei, che son dal destro lato
     Di Perseo tutti in fuga, e molti morti,
     Che i Cefeni han molt’haste, e ogn’uno è armato,
     Non, che de gli altri sian più fieri, e accorti.
     Perseo, che l’alma, e la sposa, e lo stato
     Perde, se gli aversarij son più forti,
     I suoi soccorre, e Libi al collo arriva,
     E del suo caro peso il busto priva.

Sdegnato contra lui con una scure
     Per vendicar l’amico Erito venne,
     Ma le tempre del ciel fendenti, e dure
     Li fan cader la mano, e la bipenne.
     À Forba rende poi le luci oscure,
     Che la celata il colpo non sostenne.
     Il colpo, ch’ à la sua terrestre salma
     Tolse con un fendente il giorno, e l’alma.

Mill’arme, e cavalier à un tratto à fronte
     Gli sono, et ei più invitto ogni hor contende,
     Ne men che invitto il core, hà le man pronte,
     E ribatte, e percuote, e fora, e fende,
     E fà di sangue un mar, di morti un monte.
     Bellona è seco, e ’l cor più ogni hor gli accende.
     Visto quei, che fuggir si gran valore,
     Ripigliaro in un punto, e l’alme, e ’l core.

Fra i morti in terra eran molt’haste sparte,
     Onde quei, che fuggir, meglio s’armaro,
     E si strinser di novo al fiero Marte,
     E co’l Greco Signor s’accompagnaro,
     E si pronti investir, che in quella parte
     Gli aversi cavalier si ritiraro,
     E ben di lor si vendicar, ma in tanto
     I Persi rotti fur da l’altro canto.

L’ ira, e ’l valor di Fineo, il core, e ’l senno,
     Il vantaggio de l’arme, e de guerrieri
     La rotta à i Persi in quella parte denno,
     Se ben furo un gran tempo arditi, e fieri.
     Un, ch’era appresso à Perseo, gli fe cenno,
     E fe, che vide i morti cavalieri.
     Non sà l’ardito Greco ove s’ investa,
     Se salva quella parte, perde questa.

Come Tigre crudel, ch’arrota i denti,
     Da fame stimulata, anzi da rabbia,
     Se muggir sente due diversi armenti,
     In due diverse valli, più s’arrabia,
     Gli orecchi hà in questa parte, e in quella intenti,
     E non sa dove prima à investir s’habbia,
     Al fin dove è più cibo, e più muggito,
     Corre à sfogar l’ingordo suo appetito.

Tal’ ei, che di ferire ardea di voglia
     Varij nemici in varij luochi sparsi,
     Mentre à questi, et à quei l’ardor l’ invoglia,
     Riguarda questi, e quei, ne sà, che farsi.
     S’ investe questi pria, di quei si spoglia,
     Corre alfin dove i cibi son men scarsi,
     E procaccia esca al ferro ingordo, e fido,
     Dov’è maggior romore, e maggior grido.

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In prima Molfo, e dopo uccide Enone,
     E Clito, e Flegia il cavalier esterno,
     E di ciascun, ch’al suo furor s’oppone,
     L’alma in un colpo, ò due manda à l’inferno.
     Seguon lui due fratei Brotea, et Ammone,
     E Odite, che del Regno havea il governo,
     E con animo invitto, e saggio aviso
     Fecer di nuovo à lor mostrare il viso.

Ma i Mori, che restar da l’altro lato,
     Vedendo guerreggiar nel corno manco,
     E’l destro restar tutto abbandonato,
     Strinsersi insieme, e à Persi dier per fianco.
     Come vide con pochi esser serrato
     Da tanti, e tanti neri il guerrier bianco,
     Si tirò in un canton, che ’l fea sicuro
     Quinci un superbo armario, e quindi il muro.

E à quei, che seco lì si ritiraro,
     Disse, armar ne convien d’invitto core,
     Se voi mi fate tanto di riparo,
     Ch’io possa trar di questo sacco fuore
     L’empia Medusa, costerà lor caro
     L’oltraggio, che n’ han fatto, e ’l dishonore.
     Vi trarrò tutti à un tratto di periglio,
     Ma al primo motto mio chiudete il ciglio.

I seguaci di Fineo, freschi, e molti
     Fieri combatton contra pochi, e stanchi;
     Ma i Persi con gran cor mostrano i volti
     Dapoi, che s’hanno assicurati i fianchi.
     Di quei, che fuor di quel canton fur colti.
     Molti ne mandar giù pallidi, e bianchi.
     Molti, che fur più fieri, e meglio accorti,
     In un’ altro canton si fecer forti.

Fra i quali Odite fu, che ’l primo grado
     Levato quel del Re nel regno havea,
     Fineo l’odiava à morte, ch’à mal grado
     Di quei del sangue regio egli il tenea,
     E perche vien l’occasion di rado,
     Vedendo, che con pochi ei difendea
     La fronte d’un canton ristretto, e forte,
     Andò per dargli di sua man la morte.

L’odio, che porta à Odite, e la paura,
     Che n’hà per quel, ch’ei può co’l suo fratello,
     Fà, che de l’odio antico hà maggior cura,
     E s’oblia per allhor l’odio novello.
     Perseo intanto à colei, che l’huomo indura,
     Havea scoperto il viperin capello,
     E gli amici avisati, e ’l tempo tolto,
     Alzò in fronte al nemico il crudo volto.

Tessalo alza la man per trarre un dardo,
     E dice armati pur di più fort’armi,
     Ch’io farò te col tuo mostro bugiardo,
     Se d’altro contra il mio ferir non t’armi;
     Volle snodare il braccio, ma fu tardo,
     Che tutti i membri suoi si fecer marmi,
     Co’l braccio destro alzato, che s’arretra,
     E co’l piè manco innanzi ei si fe pietra.

Neleo nel tempo istesso il Greco vede,
     Che con altr’arme à la vittoria aspira,
     E che mostra quel capo, e che si crede,
     Che debbia marmo far ciascun, che ’l mira;
     Vuol per girlo à ferire alzare il piede,
     E trova, che ’l gran peso abbasso il tira,
     E anchor l’ immarmorite, e stupid’ossa
     Mostran, che correr voglia, e che non possa.

Erice, ch’à quei due, c’havean la scorza
     Di marmo era vicino, e combattea
     Co’ soldati di Perseo, che per forza
     Con molti altri in quel canto entrar volea,
     Mentre, che chiama aiuto, e entrar si sforza,
     Vede stupidi i due, ch’appresso havea,
     Gli guarda, e vuol con man la prova farne,
     E in somma son di sasso, e non di carne.

Si tira à dietro, e al ciel le mani alzando,
     Gli guarda, e dice. oh Dio, che cosa è questa?
     Ne vuoi far sassi, come fummo quando
     Deucalion ne fe la mortal vesta ?
     Et in quell’atto attonito parlando,
     Un marmo con le labra aperte resta,
     Con tese braccia, e stupefatte ciglia
     Guarda quei sassi, e se ne maraviglia.

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Ma quei puniti fur meritamente,
     Che fer torto al cortese cavaliero,
     Ma Aconto, che di questo era innocente,
     E combattea per Perseo ardito, e fiero,
     Tosto, ch’ incauto al mostro pose mente,
     La carne trasformò, perdè il pensiero.
     Astiage si credea, che vivo fosse,
     E d’un man dritto in testa empio il percosse.

La spada lampeggiando il capo fiede,
     E spicca un sasso, e in su balza, e s’arretra,
     Maravigliato, il colpo ei guarda, e vede
     Una ferita essangue in sù la pietra.
     Hor mentre vuol toccarlo, e che no’l crede,
     E stà tutto confuso, anch’ei s’impetra.
     Dove anchor guarda attonito, e stordito,
     E la ferita sua tocca col dito.

Ognun restò ne l’atto, ov’era intento,
     Quando il capo crudel venne à mostrarsi,
     Ma saria troppo à dirne, e cento, e cento,
     Che per tutta la sala erano sparsi,
     Per Perseo, e contra Perseo, e in un momento
     Fur visti tutti quanti trasformarsi.
     Perseo insaccar pensa il suo mostro, e intanto
     Combatter sente anchor ne l’altro canto.

Fineo disposto uccider il nemico
     Con Climeno, e molti altri à questo intende,
     Et ei con più d’un forte, e fido amico
     Valoroso in quel canto si difende.
     Il volto, che nel tempio fu impudico,
     Anchora in parte stà, che non gli offende.
     Il Greco andar vi vuole, e stà confuso,
     Che d’ogn’intorno l’han le statue chiuso.

Secondo, ch’era intorno assediato,
     Non molto pria da gli huomini, e da l’armi,
     Cosi poi, che ciascun fu trasformato.
     Restò chiuso in quel canto da quei marmi,
     Non si trovando allhora il piede alato,
     Monta sopra una statua, e veder parmi
     Quei, ch’Ercole imitar sanno co’l salto,
     Quando l’huom sopra l’huom sormonta in alto.

Climeno intanto, e Fineo haveano morti
     Odite, e gli altri, e s’erano inviati
     Là dove i Persi s’eran fatti forti:
     Ma quando vider tanti sassi armati,
     Stupidi in atti star di mille sorti,
     Restar com’ essi attoniti, e insensati,
     E allhor si ricordar, che ’l cauto Greco
     Il sassifico mostro havea ogni hor seco.

Mentre Fineo con lui si maraviglia,
     E pensa seco andar verso la scala,
     Vede, ch’egli non batte più le ciglia,
     E che lo spirto il gozzo non essala.
     Subito chiude gli occhi, e si consiglia
     D’abbandonar la stupefatta sala.
     Non sà dove si sia l’esterno Duce,
     Ne per saperlo aprire osa la luce.

Dapoi, che ’l cavalier di Grecia scese
     Da marmi, che gli havean serrato il passo,
     Dritto ne và dove il contrasto intese,
     Ne vi trova huom, che non sia morto, ò sasso.
     Poi vede il disleale, e discortese
     Fineo, che move brancolando il passo,
     E le man stende innanzi, c’hà paura
     Del volto fier, ch’altrui la carne indura.

Guardando stassi, e tien la risa à pena,
     Che spesso in qualche statua urta la mano.
     E perche i morti, onde la sala è piena,
     Spesso il fanno intoppare, e gir più piano,
     E più, che quel camino in luogo il mena
     Dal desiderio suo molto lontano,
     Ch’ei per fuggir vorria trovar le scale,
     E quello il mena dritto al suo rivale.

Hor come di quel moto, e di quel riso
     Fece l’attenta orecchia il Moro accorto,
     Crebbe il timore, e prese un’ altro aviso,
     Per non restare, ò simolacro, ò morto,
     Di non aprir mai gli occhi al crudo viso,
     Ma confessare al suo nemico il torto.
     E fatta à timidi occhi un’altra chiusa
     Con tutte due le man, cosi si scusa.

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Deh Perseo contentatevi haver vinto,
     Deh nascondete il venenoso mostro,
     Perch’odio à prender l’armi non m’ hà spinto,
     Ne desio di regnar nel clima nostro:
     Ma bene un’ amor nobile, e non finto,
     M’armò contra il maggior merito vostro,
     Per quella, ch’à voi sposa il valor diede,
     Et à me il padre, il regno, e la sua fede.

Di non l’haver ceduta à voi mi pento,
     E in tutto à me dò torto, à voi ragione.
     Deh non mi fate l’horrido spavento
     Veder de la sassifica Gorgone.
     Quest’anima, ond’io formo questo accento,
     Lasciate anchor ne la carnal prigione,
     Non fate questa vita un simulacro,
     E tutta al vostro Nume io la consacro.

À quei si caldi preghi si commosse,
     Il cortese, e magnanimo guerriero,
     E discorse fra se, che ben non fosse
     Di perder cosi nobil cavaliero.
     Ma ne la mente un dubbio gli si mosse,
     Che ’l fe sospeso alquanto nel pensiero,
     Ch’ei sol potea, d’ogn’un più illustre, e degno
     Porgli in dubbio ogni dì la sposa e ’l Regno.

Mentre dubbio pensiero ingombra il petto
     À chi nacque di Danae, e pioggia d’oro:
     E da l’un canto il domina il sospetto
     Di non perder il doppio suo thesoro,
     Da l’altro il move un virtuoso affetto
     Di compiacere al supplicante Moro.
     Che non è ben, ch’un vincitore offenda
     Un, che si chiami vinto, e che s’arrenda.

Ode, che Fineo alza la voce, e dice
     Oime, c’hò fatto, e in là la testa volta.
     E mentre anchor pregar vuol l’infelice,
     Sente, che più non hà la lingua sciolta.
     E toccandogli il collo, e la cervice
     Trova, che ’l sasso gli hà la carne tolta,
     Anchor tien con le man gli occhi coperti,
     È ver, che v’à due diti alquanto aperti.

Ó che fosse la voglia di scoprire
     Chi sia colui, ch’à perdonargli essorta,
     Ó pur perch’havea voglia di fuggire,
     Ma non sapea dove trovar la porta,
     Come volle la luce alquanto aprire,
     Vide del Re del mar l’amica morta,
     E fattosi da se del tutto cieco,
     Ogni sospetto tolse al dubbio Greco.

Perseo vittorioso il zaino prende,
     E vi ripon la testa infame, e truce,
     E lieto à suoi consorti il giorno rende,
     Che chiusa insino allhor tenner la luce.
     Poi l’amor de la patria si l’accende,
     Che seco la consorte vi conduce.
     Non và su’l Pegaseo, che s’era sciolto,
     Ne sapea dove il vol s’havesse volto.

Seppe per via, che Preto, empio suo zio
     D’Argo, e del regno havea tolto il governo
     À quel, che più d’ogni altro iniquo e rio
     Con la madre il die in preda al mare, e al verno.
     Ma l’atto empio, e mortal posto in oblio
     De l’avo immeritevole materno,
     D’armarsi contra il zio fece disegno,
     E l’avo ingiusto suo ripor nel regno.

L’arme non gli giovar, ne la gran forza,
     Ch’Argo contra Perseo gia non difese,
     Che ’l miser fe di marmo un’ altra scorza,
     Come ne l’empio crin le luci intese.
     Poi nel mare alternò la poggia, e l’orza,
     E ver l’iniquo alunno il camin prese,
     Il qual con empio fin gli die consiglio,
     Che s’esponesse à cosi gran periglio.

Non fu raccolto Perseo con quel viso,
     Che gli parea, che richiedesse il merto,
     Anzi quando egli disse, fu deriso
     D’haver quel mostro seco, ma coperto.
     Diss’ei creder non vuoi, ch’io l’habbia ucciso,
     Ma te ne voglio dar pegno più certo,
     Subito afferra in man l’horribil’ angue,
     E fallo dura selce senza sangue.

[p. 79v modifica]

Dal dì, che da quest’ isola si tolse
     Perseo, per gire à si dubbiosa impresa,
     Abbandonar non mai Minerva il volse,
     Ma si trovò per tutto in sua difesa.
     Come poi ne la patria ei si raccolse,
     Havendo ella la mente altrove intesa,
     Lascia il fratello, e verso il santo monte
     De le figlie di Giove alza la fronte.

Com’ella giunge à l’elevato tetto
     Di gemme adorno, e d’artificio, e d’oro,
     E vede insieme il bel numero eletto
     Del sacro, dotto, e venerabil choro,
     Con quella dignitate il suo concetto
     Apre à le Dee, che à lei conviensi, e à loro,
     E con parole saggie, e grato modo
     Cosi disciolse à la sua lingua il nodo.

Di voi talmente in ogni parte suona
     La fama prudentissime sorelle,
     Ch’à celebrare il monte di Elicona
     Tirato havete tutte le favelle.
     Ma più d’ogni altra cosa si ragiona
     De le nov’acque cristalline, e belle,
     Ch’à quell’augello qui far sorger piacque,
     Che di Medusa, e del suo sangue nacque.

Del sangue di Medusa egli formosse
     In un batter di ciglio, e ’l vidi anch’io.
     E poi ch’ in Ethiopia egli involosse
     Nascosamente à un fratel vostro, e mio,
     La fama m’apportò, che qui voltosse,
     E co’l piè zappò in terra, e nacque un rio,
     Il più chiaro, il più puro, e ’l più giocondo,
     Che fosse mai veduto in tutto il mondo.

Ond’io, che più d’ogni altra veder bramo
     Le vostre maraviglie, i pregi nostri,
     Che la virtù, che v’orna, ammiro, et amo,
     Venuta sono à i dotti ornati chiostri.
     E per quel padre, che comune habbiamo,
     Vi prego in cortesia, che mi si mostri
     La nova fonte, e più d’ogni altra chiara,
     E s’altra cosa in questo monte è rara.

Fer le cortesi Dee con lieto volto
     Palese à la pudica, e saggia Dea,
     Che ’l virginal collegio ivi raccolto
     Pronto era à tutto quel, ch’ella chiedea.
     E verso Urania ogn’una il ciglio volto,
     Che nel Senato allhor tal grado havea,
     Tutte con gran rispetto atteser, ch’ella
     Fosse la prima à scioglier la favella.

Qual si sia la cagion, ch’al monte nostro
     Lieta (le disse Urania) hoggi vi rende
     L’acqua, gli antri, le selve, i prati, e ’l chiostro
     Quanto il nostro dominio si distende,
     Tutto saggia Tritonia, il monte è vostro,
     Nulla al vostro desio qui si contende,
     Pur dianzi il Pegaseo qui battè l’ale,
     E ’l fonte fe, c’hor di veder vi cale.

Nume ne l’alto regno io non conosco,
     Che ne potesse ritrovar più pronte.
     E s’havrete piacer di venir nosco,
     Non sol vi mostrerem la nova fonte,
     Ma il tempio, i libri, le ghirlande, e ’l bosco,
     Et ogni altro thesor, ch’eterna il monte.
     E in un tempo per man la prese, e tacque,
     E con l’altre n’andar verso quell’acque.

Sorger la Dea d’un vivo sasso vede
     Quel fonte vivo, cristallino, e bello.
     Che nacque lì zappando con un piede
     Il novo Meduseo veloce augello.
     Loda il vaso capace, ù surge, e siede,
     Loda il lascivo, e lucido ruscello.
     Loda gli antri, le selve, i prati, e i fiori,
     E tutti gli altri lor pregi, et honori.

Felice monte, ella soggiunse poi,
     Che si dotte sorelle ascolti, e chiudi,
     Che fan, che gl’infiniti pregi tuoi
     Non restan come gli altri inculti, e rudi.
     Degne ben sete Dee del loco voi,
     E degno è ’l loco de bei vostri studi.
     Voi culto, illustre, e celebre il rendete,
     Et ei vi dà il diporto, che vedete.

[p. 80r modifica]

Ó Dei (rispose allhora una di quelle)
     Ben saremmo felici, e in pregio havute,
     S’ad opre più magnanime, e più belle
     La vostra non v’ergesse alta virtute,
     E fra le vostre timide sorelle
     Fossero le vostre arme conosciute,
     Si che le menti nostre, e caste, e pure
     Da l’insolentie altrui fosser sicure.

Il tempio, il fonte, il sito, e l’aere è grato,
     Lo studio alto, e divin del nostro carme.
     E sarebbe felice il nostro stato
     Se voi foste fra noi con le vostr’arme.
     Non è mai dì, che qualche scelerato
     Contra la nostra castità non s’arme,
     Che vedendoci imbelli hà ogn’un coraggio
     Di machinarci insidie, e farci oltraggio.

Di Tracia venne in Focide un tiranno
     Il maggior non fu mal sopra la terra,
     E prese con la forza, e con l’ inganno
     Daulia, una populata, e ricca terra.
     Non credo, che regnato havesse un’ anno,
     Che mosse à le tue suore un’ altra guerra,
     E batter le costrinse in aria i vanni,
     Per via fuggir da suoi troppo empi inganni.

Andando noi verso Parnaso un giorno
     Per porger voto al suo famoso tempio,
     N’ingombra tutto il ciel di nubi intorno
     Un’ austro, che si leva oscure et empio.
     N’invita intanto à far seco soggiorno
     Per far di tutte un vergognoso essempio
     Questo crudel, che Pirenio nomosse,
     Fin, che la pioggia, e ’l giel passato fosse.

Noi, che veggiam d’oscuri nembi il cielo,
     E di grandine, e pioggia esser coperto,
     Mosse dal minacciato horrore, e gielo,
     E da l’invito in quel bisogno offerto,
     Tanto, che quell’oscuro, e horribil velo
     Havesse à l’atra pioggia il grembo aperto,
     Ó volto al nostro cielo havesse il tergo,
     Crediam noi stesse al suo non fido albergo.

N’invita intanto il suo pensier malvagio,
     Ch’appar nel volto amabile, e modesto
     À veder de l’ ignoto à noi palagio
     Lo stupendo artificio, ond’è contesto.
     E havendo da quel tempo horrido ogni agio
     Con parole cortesi, e modo honesto
     Seppe far si, ch’à rimirar la pioggia
     N’andammo ne la sua più alta loggia.

Ma poi che l’Aquilon chiaro, et altero
     Comparse in giostra con il torbido Austro,
     E ’l fece con quel nembo oscuro, e nero
     Nasconder sotto ’l mar nel noto claustro,
     E tutto rallegrò questo hemispero
     Lo scoperto del Sol lucido plaustro,
     Lui ringratiammo col migliore aviso,
     Che san le nostre lingue, e ’l nostro viso.

Ben che ’l Barbaro rio noi conoscesse.
     E Clio, Calliope, e me chiamasse Dea;
     Non però vidi, ch’ei riguardo havesse
     Al divin, che n’eterna, e che ne bea.
     Un van desio di noi l’alma gli oppresse,
     E perche chiuse già le porte havea,
     Cercò di farne forza, e ne convenne
     Se volemmo fuggir, vestir le penne.

Battiam veloci, e snelle in aria l’ale,
     E lasciam l’empio hostel, cerchiamo il pio.
     Lo sciocco allhora, e misero mortale
     Non s’accorgendo, ch’ei non era un Dio,
     Ne prevedendo il suo propinquo male,
     Mosso dal troppo ardente empio desio,
     Saltò fuor de la loggia al volo intento,
     E fidò ’l corpo suo più grave al vento.

Con la parte celeste al cielo aspira
     Per seguir noi l’amante iniquo, e stolto,
     Ma la terrea virtù, ch’in terra il tira,
     Fà, ch’à l’antica madre ei batte il volto.
     Da lui lo spirto in poco tempo spira,
     E ver l’inferno và libero, e sciolto,
     Del sangue ingiusto havendo il terren tinto
     Il corpo, pria che fosse in tutto estinto.

[p. 80v modifica]

Mentre l’accorta Musa anchor ragiona
     De la caduta del crudel tiranno,
     À tutte un gran romor l’orecchie introna
     Di molti augei, ch’al ciel le penne danno.
     Corron per tutto il bel monte Helicona,
     Poi volan sopra un faggio, e lì si stanno.
     E senza mai tener la lingua muta
     Guarda ogni augel Minerva, e la saluta.

Prima, che gli vedesse, ella pensosse,
     Ch’un’ huom da l’arbor ragionasse seco,
     Quando il saluto pio, che ’l ciel percosse,
     Fe l’ idioma suo conoscer Greco.
     Minerva ver le Muse il parlar mosse,
     Non so se quegli augei ragionin meco,
     Che se ’l sapessi, io non rifiuterei
     D’aggradir lor d’altri saluti miei.

Guarda d’accordo allhor disser le Muse,
     Fà, ch’ad uso miglior la lingua serbe,
     Non ascoltar le lor querele, e scuse,
     Che non fur donne mai tanto superbe.
     Del volto human restar pur dianzi escluse
     Essendo anchor d’eta molli, et accerbe
     Dal nostro allhor troppo oltraggiato choro
     Per l’arrogantia, e per la gloria loro.

Dentro del Macedonico sentiero
     Peonia una provincia il volgo appella,
     Vi nacque Evippe moglie di Piero,
     Ricco, e degno huom de la città di Pella.
     Di questa donna, e questo cavaliero
     Nacque quell’animal, c’hor ti favella,
     Che come io dissi, à ritrovar ne venne
     Per arricchire il ciel di nove penne.

Non credo mai, che de la madre alcuna
     Più prospera nascesse, e più feconda,
     C’havesse nel figliar miglior fortuna,
     Che trovasse Lucina più seconda.
     Fece una figlia ad ogni nona Luna
     Più bella una dell’ altra, e più gioconda,
     Tal, che in men di novanta Lune nove
     Con gran felicità n’acquistò nove.

Crebbero, e si trovar queste donzelle
     Cresciute un canto haver tanto soave,
     Che sopra tutte l’altre essendo belle,
     E’l lor verso ammirando ogni huom piu grave,
     Essendo come noi nove sorelle
     La lingua di parole armar sì prave,
     Che per tutto d’haver si davan vanto
     Di noi maggior dottrina, e miglior canto.

E un dì lasciato à bel studio il patrio tetto,
     Venner con grande audacia al sacro monte,
     E innanzi il nostro virginal cospetto
     Disser con folle, e temeraria fronte.
     Trovate altro diporto, altro ricetto,
     Che terrem cura noi di questa fonte,
     Ch’essendo nel cantar miglior di voi
     L’officio vostro hor s’appertiene à noi.

E se tal confidentia in voi si trova,
     Che ’l vostro canto sia di voce, e d’arte,
     Più soave del nostro, e che più mova,
     Ritiriamoci à cantare in qualche parte,
     Che vi farem veder per chiara prova,
     Che siam migliori in voci, e ’n vive carte,
     E siam contente, che le Ninfe unite
     Debbian d’accordo terminar tal lite.

Ma con patto però, che se in tal gioco
     À l’Amadriadi addolcirem più l’alma,
     Che voi n’habbiate à ceder questo loco,
     Questa fontana gloriosa, et alma.
     Ma quando il nostro canto sia più fioco,
     E tocchi à voi di riportar la palma,
     L’Emathie selve de la madre Evippe
     Contraponiamo al fonte d’Aganippe.

Se bene opra ne par di Dee non degna
     Venir contra mortali à tal contesa,
     Di gran lunga ne par cosa più indegna,
     Che si possan vantar di tanta offesa.
     De le Ninfe troviam l’illustre insegna,
     Le quai poi, ch’accettata hebber l’impresa,
     Per lo stagno giurar fatale, e nero
     Dar la sententia lor, secondo il vero.

[p. 81r modifica]

In un bell’antro un sasso vivo, e forte
     D’intorno fa molti honorati seggi,
     I primi à premer van le Ninfe accorte,
     Come del giudicar voglion le leggi,
     L’altre senza servar legge, ne sorte,
     Come alcuna in virtù non le pareggi,
     Fecer di tutte noi si poca stima.
     Ch’occupar la man destra, e cantar prima.

Dà lor l’eletta à cominciar lor canti
     Al suon d’un non colpevole istrumento,
     In dispregio de Numi eterni, e santi
     Die fuora il primo suo profano accento.
     Cantò gli horrendi, e perfidi giganti,
     E ’l periglio del cielo, e lo spavento.
     Tutta contra gli Dei l’horribil guerra
     De figli di Titano, e de la terra.

L’empia suo verso ogni sovrano honore
     À giganti rendea, tutto in dispregio
     Del padre nostro altissimo motore,
     E de l’eterno suo divin collegio.
     E d’haver dato al ciel maggior terrore
     Dava à Tifeo fra gli altri il sommo pregio,
     Perch’ei fu, ch’agli Dei tal terror diede,
     Che la salute lor fidaro al piede.

E che ogni Dio dal troppo corso afflitto
     Perduta nel fuggir tutta la lena,
     Raccolto fu dal Nilo, e da l’Egitto,
     Che per dar refrigerio à si gran pena,
     D’ogni vivanda più prestante al vitto
     Apparecchiaro una superba cena,
     E come v’ invitaro ogni huom più degno,
     Ogni più bella donna del lor regno.

Ma che goder non la poter, che quando
     Erano per mangiar, sentir Tifeo,
     Che per l’Egitto già gli Dei cercando,
     Per dargli al suo flagello ingiusto, e reo.
     E che come il sentir, l’un l’altro urtando,
     Volle ogni Dio fuggir, ma non poteo:
     Ch’essendo già vicin fu à tutti forza
     Per salvarsi da lui cangiar la scorza.

Ch’à pena con Tifeo s’udì dir ecco,
     Che per l’incomparabil lor paura,
     Si fe Giove un montone, e Bacco un becco,
     E gir con l’altre bestie à la pastura.
     Ch’Apollo anch’ei fe de la bocca un becco,
     E tutto si vestì di piuma oscura.
     E fatto un corvo lui, Mercurio un Ibi
     Volar con le cornacchie, e con gli nibi.

Che visto ciò Giunon temendo anch’ella,
     Una cornuta vacca si fe dopo:
     La cacciatrice Dea del Sol sorella
     Si fe il folle animal, che caccia il topo:
     Che l’impudica Dea, non disse bella,
     L’onde, che fur sua madre, hebbe per scopo;
     E udito l’huom, che de la terra nacque,
     Entrò in un pesce, e s’attuffò ne l’ acque.

Ogni calunnia, che trovò maggiore,
     Osò dir de gli Dei sommi immortali,
     Ne disse pure un verso in lor favore,
     Ne come fur dapoi gli Egitij tali,
     Che con sommo del ciel pregio, et honore
     Ne’ lor tempij adorar molti animali;
     Ne come sotto il vello d’un montone
     Venerar ne la Libia Giove Ammone.

Ma ogn’un, che la risposta havesse intesa,
     E di Calliope la dottrina, e l’arte,
     E come hebbe l’honor di questa impresa,
     E la pena, che n’hebbe l’altra parte,
     Sapria, che chi con noi prende contesa
     Nel canto, con honor non se ne parte.
     Ma forse non hai tempo d’ascoltarmi,
     Ch’io farò udirti i suoi più dotti carmi.

Anzi te’n vò pregar (la Dea rispose)
     Ch’io bramo un tempo far con voi soggiorno,
     E goder queste belle selve ombrose,
     Fin che passi il calor del mezzo giorno.
     E fia ben, che sù l’erba si ripose
     Ciascuna à guisa, di theatro intorno,
     Ch’io spero di goder con questo aviso
     D’una il dotto parlar, di tutte il viso.

[p. 81v modifica]

Poste à seder nel bosco ombroso, e santo,
     Cosi la Musa il suo parlar riprese
     Poi che Calliope hebbe da noi co’l canto
     Cura di terminar le liti prese;
     Tolse la dotta cetra, e tirò alquanto
     Hor questa, hor quella corda, insin ch’intese
     Da più d’un lamentevol lor ricordo,
     Che tutte le sorelle eran d’accordo.

Percote hor solo un nervo, hor molti insieme
     La destra, e molto hor fa veloce, hor lento,
     E ’l nervo hor sol se ne risente, e geme,
     Hor fa con gli altri il suo dolce lamento.
     La manca trova à tempo i tasti, e preme,
     E con l’acuto accorda il grave accento.
     Et ella al suon, ch’ in aria ripercote,
     Concorda anchor le sue divine note.

Prima Cerere à l’huom la norma diede,
     Onde co’l curvo aratro aprì la terra.
     Prima gli fe conoscer la mercede
     Del seme, se con arte il pon sotterra.
     Prima le leggi die d’amore, e fede
     Da viver senza lite, e senza guerra.
     Prima die à l’huom la più lodata spica,
     À l’alimento suo si dolce amica.

Questa cantare intendo, e piaccia à Dio
     Di dare il canto à me si pronto, e certo,
     Ch’agguagli di prontezza il gran desio,
     De la Dea di certezza agguagli il merto.
     Che se sarà si chiaro il canto mio,
     Che quel, c’hò dentro al cor, mostri scoperto,
     Farò veder, che fra gli eterni Dei
     Tocca del sommo honor gran parte à lei.

Poi che dal divin folgore percosso
     Tifeo cadde anchor vivo in terra steso,
     Giove, perch’ ei da troppo orgoglio mosso,
     Il Cielo havea di mille ingiurie offeso,
     Gli pose la Sicilia tutta adosso,
     Perche gravato dal soverchio peso,
     Stesse in eterno in quel sepolcro oscuro,
     Per fare il Ciel dal suo terror sicuro.

La destra ver l’ Italia del gigante
     Stà sotto al promontorio di Peloro.
     La manca, ch’è rivolta in ver Levante,
     Pachino aggrava un’ altro promontoro.
     Sostengon Lilibeo l’ immense piante
     Che guarda fra Ponente, e ’l popol Moro.
     Etna gli preme il volto, et è quel loco,
     Onde anchor resupino essala il foco.

L’altier gigante, che gravar si sente
     Dal peso, che sostien la carne, e l’ossa,
     Con ogni suo poter se ne risente,
     E dà talhor si smisurata scossa,
     Che ’l terremoto la terra innocente
     Apre, e fa si profonda, e larga fossa,
     Ch’ inghiotte dentro à regni infami, e neri
     I palazzi, le terre, e i monti interi.

Vede una volta il Re de le mort’ombra
     Tutto intorno tremar ciò, ch’è sotterra,
     E che per tema ogni empia Erinni, ogn’ ombra
     Cerca fuggir del cerchio, che la serra.
     Subito tal paura il cor gl’ingombra,
     Che teme, che la troppo aperta Terra
     Non inghiotta l’inferno, e chi v’è dentro
     Più basso s’esser può, che non e ’l centro.

Dapoi, che ’l terremoto venne meno
     Lo sbigottito anchor Re dell’lnferno
     Fà porre à neri suoi cavalli il freno,
     Monta su’l carro, e lascia il lago averno,
     E subito, che scorge il ciel sereno,
     Splender vede in Sicilia un foco eterno,
     Ei tien, che ’l terremoto habbia per certo
     Fin dentro il regno suo quel monte aperto.

Vavvi, et ode, che ’l foco, ch’ ivi splende,
     È ’l fiato d’ ira acceso di Tifeo.
     Onde intorno à veder l’isola intende,
     Per saper s’altro mal quel moto feo.
     E quando danno alcun non vi comprende,
     Tornar pensa ov’ei crucia il popol reo;
     Ma nel girar ch’ei fe, cosa gli avenne,
     Che ’l suo camino alquanto gli ritenne.

[p. 82r modifica]

Ne la Sicilia un monte Erice è detto,
     Dove è sacrato un tempio à Citherea,
     Quivi la bella Dea stando à diletto,
     Co’l suo dolce figliuol, ch’in braccio havea,
     Vede il Signor del tenebroso tetto
     Guardar, se la gran machina Tifea
     Fatt’hà qualche voragine in quel sito,
     Che torni in danno al regno di Cocito.

Venere, c’havea ogni hor la mente accesa
     Di crescere à se nome, imperio al figlio,
     Proserpina vedendo essere intesa
     À corre, e à inghirlandar la rosa, e ’l giglio,
     Le cadde in mente un’honorata impresa,
     E volse ver Cupido il lieto ciglio,
     Et accennando in questa parte, e ’n quella,
     Gli fe veder Plutone, e la Donzella.

Era anchor una tenera fanciulla
     Colei figlia di Cerere, e di Giove,
     Hor mentre coglie i fiori, e si trastulla,
     Cosi il parlar la Dea verso Amor move.
     La tua potentia ogni potentia annulla
     Nel cielo, e ne la terra, eccetto dove
     Regna colui, c’hor qui ti vedi à fronte,
     Il quale è Re del regno d’Acheronte.

Già tre parti si fer di tutto il mondo.
     Costui per Re la terza parte osserva.
     Tu acquisti il Re del regno più profondo,
     Se fai lui tuo soggetto, e lei tua serva.
     Tu vedi ne l’ imperio alto, e giocondo
     La guerra, che ci fa Delia, e Minerva.
     Tal, che s’habbiam nel ciel perduto in parte,
     È ben, che ci allarghiamo in altra parte.

Prendi dolce amor mio, quell’alme prendi,
     (Non ci perdiam si aventurosa sorte)
     Onde et huomini, e Dei sovente accendi,
     E fai soggetti à la tua altera corte.
     Stendi à l’ inferno anchor l’ imperio, stendi,
     E fa del zio Proserpina consorte.
     Fatti soggetti anchor gl’inferni Dei,
     Tu vedi qui Pluton, lì vedi lei.

L’ale il lascivo Amor subito stende,
     E trova l’arco, e la faretra, e guarda,
     E fra mille saette una ne prende,
     Più giusta, più sicura, e più gagliarda.
     E che talmente il volo, e l’arco intende,
     Ch’ogni sorella sua fà parer tarda,
     Et aguzzato il ferro à un duro sasso,
     Ferma co’l piè sinistro innanzi il passo.

Lo stral nel nervo incocca, e insieme accorda
     E la cocca, e la punta, e l’occhio à un segno:
     Poi con la destra tira à se la corda,
     E con la manca spinge innanzi il legno.
     La destra allenta poi, lo stral si scorda,
     E contra il Re del tenebroso regno
     Fendendo l’aria, e sibilando giunge,
     E dove accenna l’occhio il coglie, e punge.

Stà non lontan dal monte, ond’esce il foco
     Di prati un lago cinto d’ogn’intorno,
     Con fiori di color di minio, e croco,
     D’ogni splendor, che far può un prato adorno.
     Ma quei, che fan più vago il nobil loco,
     I boschi son, che dal calor del giorno
     Difendon quei bei prati d’ogni banda,
     E fanno intorno al lago una ghirlanda.

Hà di Pergusa il nome il lago, dove
     Con altre vaghe, e tenere donzelle
     La vergine di Cerere, e di Giove
     Tessea le vaghe sue ghirlande, e belle.
     Quivi cercò come havea fatto altrove
     Quel, che dà legge à l’ombre oscure, e felle,
     Per veder se Tifeo fatto ivi havesse
     Danno, ch’al Regno suo nocer potesse.

E poi, che danno alcun non vi comprese,
     Pensò tornare al suo scuro ricetto,
     Ma nel girar del carro i lumi intese
     In quel leggiadro, anzi divino aspetto.
     In tanto contra Amor l’arco gli tese,
     E come io dissi, il colse in mezzo al petto,
     E passò il colpo si dentro à la scorza,
     Che ei senza altro pensar venne à la forza.

[p. 82v modifica]

La tenera fanciulla, et innocente
     Tutta lieta cogliea questo, et quel fiore,
     E quinci, e quindi havea le luci intente,
     Correndo à quei, c’havean più bel colore.
     Quest’era il maggior fin de la sua mente,
     D’haver fra le compagne il primo honore.
     In tanto il novo amante, ch’io vi narro,
     L’afferrò un braccio, e la tirò su’l carro.

Ella, che tutto havea volto il pensiero
     À le ghirlande, e à fior, come si vede
     Prender da quel cosi affumato, e nero,
     Stridendo à le compagne aiuto chiede.
     Plutone intanto al suo infernal impero
     Gl’infiammati cavalli instiga, e fiede.
     Chiama la mesta Vergine in quel corso
     Più d’ogni altra la madre in suo soccorso.

E volendo appigliarsi per tenersi
     À un legno con le man, vede, che cade
     Il lembo de la veste, e i fior diversi
     Tutte adornar le polverose strade:
     E in tal semplicità lasciò cadersi
     L’affetto de la sua tenera etade,
     Che de caduti fior non men si dolse,
     Che del ladron, ch’à forza indi la tolse.

Inteso il Re de l’Orco al suo contento
     Poi, che su’l carro tien l’amate some,
     Fa sovente scoppiar la sferza al vento,
     E questo, e quel caval chiama per nome.
     E grida, e fa lor’ animo, e spavento,
     E scuote lor le redine, e le chiome.
     Strid’ella, e volge à le compagne il viso,
     Che corrano à la madre à darne aviso.

Ma strider ben potea, che si discosto
     Da l’altre il Re infernal trovolla, e prese,
     Et elle havean tanto il pensier disposto
     À fiori, e tanto in lor le luci intese,
     Et ei fe il carro suo sparir si tosto,
     Che di tutte una non la vide, ò intese,
     E già calava il Sol verso la sera
     Quando tutte s’accorser, che non v’era.

Passa Pluton sul suo carro veloce
     Vicino à gli alti di Palico stagni,
     Dove l’odor solfureo à l’aria noce,
     Ch’essala fuor di quei ferventi bagni,
     Ne si cura di lei, ch’alza la voce,
     Ma lascia, che si doglia, e che si lagni,
     Giunge poi dove appresso à Siracusa
     Sorge il famoso fonte d’Aretusa.

Da quel sorge non un’altra fonte,
     V’è chi dal nome suo Ciane l’appella,
     Ninfa, che l’hà in custodia à piè del monte,
     Che preme di Tifeo la manca ascella.
     Costei tenendo allhora alta la fronte
     Fuor di quell’acqua cristallina, e bella,
     Vide portar con violentia altrove
     Colei, ch’uscì di Cerere, e di Giove.

E de la madre amica, e de l’honesto
     Al Re de l’Orco attraversò la strada,
     E disse con un volto acro, e molesto,
     Non passerai per questa mia contrada,
     Che pria non lasci il furto manifesto.
     E se pur questa vergine t’aggrada,
     Dei Cerere pregar, che te la dia,
     E non torla per forza, e fuggir via.

Farsi genero alcun mai non dovrebbe,
     Se ’l socero à restar n’havesse offeso,
     E s’uno à le gran cose agguagliar debbe
     Le picciole, anche Anapo restò preso
     Di me, qual tu mi vedi, e sposa m’hebbe,
     Ma ben con modo honestamente inteso.
     Cosi dicendo stende ambe le braccia,
     Et à cavalli suoi grida, e minaccia.

Temendo il Re del tenebroso inferno,
     Che l’Amadriade, e i Fauni, e le Napee,
     E quelle, che del mare hanno il governo,
     Et altre assai de le dolci acque Dee
     Non concorrano à fargli danno, e scherno
     Prima, che torni à l’ombre ingiuste, e ree,
     Batte la Terra, e le comanda poi,
     Che s’apra fin’ al centro, e che l’ingoi.

[p. 83r modifica]

Obedisce la Terra al suo tiranno,
     E la strada apre, ch’ à l’inferno il mena,
     Et ei sferza i cavalli, e quei vi vanno
     À roder lieti l’infernale avena.
     Con dolor, con angoscia, e con affanno
     Resta, colei ne l’oltraggiata arena,
     E può l’ira, e ’l dolor nel suo cor tanto,
     Che più, che v’ha il pensier, più cresce il pianto.

Stillar fa in acqua l’uno, e l’altro lume
     La grand’ira, e ’l dolor ch’ange la mente,
     E ne l’onde medesme, ond’era nume,
     À poco, à poco liquefar si sente,
     Tal, che fà di se stessa un picciol fiume,
     Il piede è già tutt’acqua e solamente
     Si tien anchora un poco il nervo, e l’osso,
     Se ben non è si duro, ne si grosso.

Piegato havreste qual tenera verga
     L’ossa, che non ster molto à liquefarsi,
     Ne membro v’ha, che l’acqua no’l disperga,
     Ogni poco, che dentro osa attuffarsi,
     Di questa, e quella man, ch’entro v’alberga,
     I diti son nel fonte in fonte sparsi,
     Visibil restav’ ancho il volto, e ’l petto,
     Ma assai trasfigurato ne l’aspetto.

Perche fur prime le sue chiome bionde
     À la fontana à far più colmo l’alvo,
     Che cadder di ruggiada in mezzo à l’onde,
     E le lasciaro il capo ignudo, e calvo,
     Al fine il petto, e ’l volto anch’ei si fonde
     In acqua, e membro in lei non resta salvo,
     E dove pria fu de le linfe Ninfa,
     Si fece poi de l’altre Ninfe linfa.

Quando tornar la madre non la vede
     La sera in compagnia de le donzelle,
     La qual con tutte ne ragiona, e chiede,
     E non è, chi ne sappia dir novelle,
     Move per tutto il doloroso piede,
     Cercandola hor co’l Sole, hor con le stelle,
     Fà poi con alte, e dolorose strida
     Palese il gran dolor, che in lei s’annida.

L’Aurora già di ruggiadoso humore
     Sparsa l’arida terra havea due volte,
     Et altrettanto il Sol co’l suo splendore
     Havea tutte à i mortai le stelle tolte.
     Due volte anchor nel tenebroso horrore
     L’alme città la notte havea sepolte
     Co’l manto suo caliginoso, e nero,
     Del nostro, e de l’Antartico Hemispero.

Quando per tutta la Trinacria havendo
     Cercato, senza haverla mai trovata,
     E fuor del suo costume non essendo
     À l’infelice albergo mai tornata;
     Congiunse i draghi horribili piangendo
     Al carro, in tutto afflitta, e disperata.
     Ma due gran Pini pria nel monte Etneo
     Accese ne le fiamme di Tifeo.

Dapoi, c’hebbe la Dea le faci accese,
     Montò su’l carro, e diede i draghi al volo,
     E vide ( in tanto ciel le penne stese )
     L’Hibero, il Gange, e l’uno, e l’altro Polo.
     Benche più, che cerconne, men n’intese;
     Le mancò la speranza, e crebbe il duolo;
     E ’n boschi, antri, palazzi, e ’n ogni loco
     Entrò quando co’l Sol, quando co’l foco.

Al fin da la stanchezza, e da la sete
     Vinta, co’l carro in una selva scende,
     Lega gli stanchi draghi ad uno abete,
     E l’occhio, e ’l piè verso un tugurio intende.
     E d’acqua desiosa, e di quiete,
     Co’l piè la bassa porta alquanto offende.
     Una vecchia vien fuor, ch’ode picchiarla,
     E la Sicana Dea cosi le parla.

Se chi può, quelle spighe faccia d’oro,
     Che concede la terra à la tua sorte,
     E renda gli anni tuoi, come già foro
     Lieti, e robusti, e te vivace, e forte;
     Dà con un poco d’acqua alcun ristoro
     À queste membra stanche, afflitte, e morte:
     Ristora quell’humor, che ’l Sol m’ ha tolto,
     E fatto nel camin piover dal volto.

[p. 83v modifica]

Non havea anchor la Dea fermato il detto,
     Che la cortese vecchia, benche lenta,
     Mossa da la pietà, dal santo aspetto,
     Cercò farla restar di se contenta.
     E del vin, che nel suo povero tetto
     Teneva, e d’una rustica polenta,
     C’havea per uso suo fatta pur dianzi,
     Con fede, e con amor le pose innanzi.

Il palato la Dea sente si asciutto,
     Et ha di ristorar sete si grande
     L’afflitto corpo da l’ardor distrutto,
     Che poco havendo à cor l’altre vivande,
     Dal vaso terreo il vin si beve tutto,
     E poi de l’altro vin da se vi spande.
     Poi getta dentro al vin le spighe cotte,
     E ’l vino, e l’orzo ingordamente inghiotte.

Un fanciullo era lì soverchio ardito,
     Anzi secondo il suo stato impudente,
     Ne visto havendo mai si bel vestito,
     Ne fronte si divina, e risplendente,
     Stava à mirarla attonito, e stordito,
     Vistola poi mangiar si ingordamente,
     Rise, e guardò la vecchia, et additolla,
     E troppo ingorda, et avida chiamolla.

E seguitando il suo dispregio, e riso,
     Fu forza, che la Dea si risentisse,
     E quella zuppa gli aventò nel viso,
     E con grand’ira, e gran disdegno disse.
     Perche non sia da te più alcun deriso,
     Io vo, che porti eternamente affisse
     Queste vivande, onde mi spregi tanto,
     Per nota del tuo ardir sopra il tuo manto.

Tutto gli macchia il vino, e ’l grano il volto,
     E in un momento tutto il corpo abbraccia:
     Si fan d’un’ animal breve, e raccolto
     Due gambe picciolissime le braccia.
     Non dal Ramarro differente ha molto
     Il corpo, i piedi, e la coda, e la faccia.
     È più picciolo assai, di stelle pieno,
     Et ha, ma non mortal qualche veneno.

Vien detto Stellion da molte stelle,
     Che ’l manto cosi vario gli han composto,
     E che gl’impresser sopra de la pelle
     Per uno sdegno la polenta, e ’l mosto.
     Piange l’afflitta vecchia, e guarda quelle
     Membra fatte si picciole, e si tosto:
     Vorria toccarlo, e teme, e non sà donde
     Debbia afferrarlo, et ei fugge, e s’asconde.

La Dea ritorna à draghi, e in aria poggia
     Sotto il torrido cerchio, e sotto il gielo:
     Vede ove il Sol si leva, e dove alloggia,
     L’huom di quanti colori hà il mortal velo.
     Non teme Sol, ne grandine, ne pioggia,
     Ne il troppo freddo, o ’l troppo ardente cielo.
     E tanto in giro andò di tondo, in tondo,
     Che per troppo cercar le mancò il mondo.

Al fin torna in Sicania, e guarda dove
     Stava cogliendo i fior con le compagne.
     Quivi non la ritrova, e cerca altrove,
     E tutti scorre i boschi, e le campagne.
     Al fin verso quel fonte il passo move,
     Che ’l torto di Pluton continuo piagne:
     L’havria ben Ciane allhora il tutto detto,
     Ma le mancava il suon, la lingua, e ’l petto.

E non potendo più con quelle note,
     Onde à Pluton gridò, scoprir la mente:
     Dà quegli inditij à lei, che dar le puote,
     Come la nova sorte le consente.
     Mentre spinse Pluton l’avare rote,
     Co’ fior cadde à la vergine innocente
     Una cintura, dove il fonte nacque,
     E questa Ciane le mostrò sù l’acque.

Come la madre sconsolata vede
     La pretiosa fascia, e in man la piglia,
     Come le faccia indubitata fede,
     Che cadde nel fuggir, che fe la figlia,
     Il tristo, et innocente petto fiede,
     E l’inornate chiome si scapiglia:
     E stride, e fa sentire i suoi lamenti
     Con questi afflitti, e dolorosi accenti.

[p. 84r modifica]

Malvagia terra, e di quei frutti indegna,
     Ond’ho fatti i tuoi campi alteri, e lieti.
     Onde ridotta t’ ho fertile, e pregna
     Da le nobili biade, che tu mieti.
     Ahi quanta ingratitudine in te regna,
     Dapoi, che non t’opponi, e che non vieti
     À chi danno, et ingiuria mi procaccia
     Con ogni tuo poter, ch’egli no’l faccia.

Io cerco di giovarti più, ch’io posso,
     D’ornarti d’ogni pregio, e d’ogni honore;
     Per porti un ricco, e vago manto adosso,
     Varia l’herba ti dò, la spiga, e ’l fiore:
     Tu poi vedi un contra il mio sangue mosso,
     Che la mia figlia toglie, anzi il mio core,
     E beneficio tal posto in oblio,
     Tu ’l soffri, e non ti cal del danno mio.

Ne mi puoi dir di non l’haver veduta,
     Ch’ecco la sua cintura, ecco qui il pegno,
     Ch’ in questa parte è nel fuggir caduta
     Quando rapita fu da questo regno.
     Che non mi dici almen, perche stai muta,
     Dov’ha l’involator drizzato il legno?
     Come ha passato il mare, et à che volta,
     Come ha nome il ladron, che me l’ha tolta?

Sicania più d’ogni altra empia contrada,
     Ingrata, e degna, d’ogni gran supplicio
     Terra non v’è, per cui la miglior biada
     Facesse mai più liberale ufficio:
     E tu soffristi, che per questa strada,
     Scordata di si raro beneficio,
     Fosse condotta misera, e infelice,
     La figlia de la tua benefattrice.

E per farmi maggior l’onta, e l’offesa,
     Al desiderio mio muta ti stai,
     Non vuoi dir dove sia, chi l’habbia presa,
     Anchor, che certa io sia, che ’l tutto sai.
     Già mai maggiore ingiuria non fu intesa
     Di quella, che m’hai fatta, e che mi fai.
     Ma di quella mercè sarai pregiata,
     Che si conviene à la tua mente ingrata.

I curvi aratri, e i vomeri lucenti,
     I rastri, e gl’istrumenti d’ogni sorte,
     Tutti rompe, e distrugge, e gl’innocenti
     Huomini, et animai condanna à morte.
     Comanda poi, che sterile diventi
     Il fertil campo, e frutto non apporte
     À chi il seme in deposito gli crede,
     E manchi de l’usura, e de la fede.

La Sicilia le biade alte, e superbe
     Non rende più, che Cerere non vole,
     Le secca, se talhor crescono acerbe
     Hor troppo lunga pioggia, hor troppo Sole.
     Vedi il seme marcir, seccarsi l’herbe,
     E restar le campagne ignude, e sole.
     Vi corron, s’altrui sparge in terra il seme
     Tutti gli augei del mondo uniti insieme.

La terra, non più matre, anzi matrigna,
     Ogni herbaggio nutrisce infame, e strano,
     E fà, che ’l seme buon manca, e traligna,
     E diventa di nobile villano.
     Fà, che l’inespugnabile gramigna,
     E che ’l loglio, e la vecchia affoghi il grano.
     Se la pioggia il corrompe, il Sole il coce,
     La terra, il foco, e l’acqua, e ’l ciel li noce.

La fonte allhor, che fu prima Aretusa,
     Che sà chi tien la figlia, e dove, e come,
     Alza da l’onde Elee la testa infusa,
     Dal volto allarga poi l’humide chiome.
     E come meglio sà, la terra scusa,
     Per lei sgravar da si dannose some,
     E stando fuor de l’acqua insino al petto,
     Cerca mover la Dea con questo affetto.

Ó de le biade santa genitrice,
     E di quel viso angelico, e giocondo,
     Che del mar ricercando ogni pendice,
     Trovata anchor non hai, ne in tutto ’l mondo;
     Rendi à la terra misera, e infelice
     Il manto, come havea lieto, e fecondo,
     Ch’al furto de la figlia, che t’addoglia,
     Aperse il tristo sen contra sua voglia.

[p. 84v modifica]

Non da l’amor de la mia patria spinta
     Ti prego, essorto, e supplico per lei,
     Ch’io nacqui in quella Grecia, che vien cinta
     Da Corinto, e dal mar ne’ campi Eliei;
     Ma ben dal giusto, e da l’honesto vinta
     Ti ricordo, che fai quel, che non dei.
     Che togli à questa terra i pregi sui,
     E la vieni à punir del fallo altrui.

Non per la patria, ò mio proprio interesse,
     Ti cerco far ver la Sicilia humana,
     Ch’anchor, ch’ io irrighi la Trinacria messe,
     Io son qui forestiera, e non Sicana.
     Che fur le membra mie da prima impresse
     Ne’ campi Elei, dov’io nacqui Pisana,
     Benche quest’isola ami à quella guisa,
     Ch’ amai la patria Elea vivendo in Pisa.

E s’io scorgessi in te più lieta fronte,
     E tu havessi diletto d’ascoltarme,
     Ti conterei, come io mi sparsi in fonte,
     E come venni in queste parti à starme.
     Basta per hor, che la ragion ti conte,
     Ch’ in favor de la terra ha fatto armarme.
     E s’io troverò in te l’usata pieta,
     Tu la tua patria, et io farò te lieta.

Sappi, che queste fresche, e limpid’onde,
     Che surgon qui nel tuo Sicanio lito,
     Non nascon ne le tue fertili sponde,
     Ma ben nel primo mio materno sito.
     Quivi il terren m’inghiotte, e mi nasconde,
     E mena per lo regno di Cocito,
     Là dove lascio l’ombre oscure, e felle,
     E qui risorgo à riveder le stelle.

Hor mentre sotto il mar per molte miglia
     L’onde nascoste mie conduco meco,
     Io veggio tutta l’infernal famiglia,
     E ciò, che fan nel piu profondo speco.
     E fra gli altri ho veduta la tua figlia,
     Ma Regina del regno opaco, e cieco,
     Ma, che comanda à l’ infernal magione,
     Ma Dea de l’Orco, e moglie di Plutone.

Si che non sol non dei pianger si forte,
     D’haver per maggior ben perduta lei,
     Ma, ch’ella habbia acquistato un tal consorte
     Mi par, che molto rallegrar ti dei.
     Hor qual potea maggior ritrovar sorte?
     Qual maggior nobiltà fra gli alti Dei?
     S’ella chiama marito il Re notturno,
     Giunon cognata, e socero Saturno?

Come la madre addolorata sente
     Di Proserpina sua l’inferno honore,
     Resta si stupefatta de la mente,
     Dal novo sopragiunto dolore.
     Ch’assembra un marmo, e come si risente,
     Da l’ira stimulata, e dal furore,
     Verso i superbi draghi il camin tenne,
     E dritto al ciel fe lor batter le penne.

E co’l crin scapigliato, hirto, et incolto
     Si fermò innanzi al tribunal di Giove.
     E di lagrime sparso havendo il volto,
     Che ’l continuo dolor distilla, e piove;
     Poi che lo spirto alquanto have raccolto,
     Cosi la voce articolata move.
     Giove de gli alti Dei Signore, e padre,
     Ascolta questa addolorata madre.

Io vengo al tuo sublime tribunale,
     Ó de gli eterni Dei superno Dio,
     Non già per accusar, ne per far male
     Altrui, per odio, ò vendice desio.
     Non, perche ’l tuo giudicio universale
     Punisca l’offensor del sangue mio,
     Non per dir, c’hoggi ogn’uno empio, e profano
     Osa nel sangue tuo stender la mano.

Di questo io lascerò cura à colui,
     Che debbe provedere al comun danno,
     Ch’io non porto odio, e inimicitia altrui,
     Se bene in me la forza usa, e l’inganno.
     Tu sai pur quale io son, qual sempre fui,
     E quanto m’affatichi tutto l’anno,
     Per provedere i frutti più pregiati
     Tanto à gli honesti, e pij, quanto à gl’ingrati.

[p. 85r modifica]

Non ho la mente si malvagia, e ria,
     Che m’apporti contento l’altrui doglia,
     Ma cerco, che ragion fatta mi sia,
     Che dal tuo tribunal non mi si toglia,
     Che donna io sia de la fortuna mia,
     Poi che v’è chi per forza me ne spoglia,
     Rendasi à me quel, che mi s’appartiene,
     E ’l ladro, e ’l malfattore habbia ogni bene.

La mia figlia infelice, ch’io perdei,
     Anzi la tua da me cercata tanto,
     La figlia, che di te già concepei,
     Che fu creata dal tuo Nume santo;
     Fra gli spirti hor si stà dannati, e rei,
     Nel regno de le tenebre, e del pianto,
     Trovata l’ho ne l’infernal deserto,
     Se trovar si può dir, perder più certo.

Se trovar si può dir saper dov’ella
     Per forza stà, senza poterla havere.
     Pluton rapì la misera donzella,
     Fuor del rispetto tuo, fuor del devere.
     Hor non ti dimando altro, che d’havella,
     Come prima l’havea nel mio potere.
     Che starà tanto meglio al mio governo,
     Quanto è più ben nel ciel, che ne l’inferno.

Sol questo à te nel tuo santo collegio
     Chiedo, non men per me, che per te stesso,
     E se ’l mio sangue non t’ è punto in pregio,
     Movati il sangue, ond’hai quel parto impresso.
     Non disprezzar del cielo il germe regio,
     Anchor che fosse il mio vile, e dimesso;
     Deh se mover no’l può l’afflitta madre,
     Mova la figlia almen l’offeso padre.

Fà dunque come Dio giusto, e clemente,
     Ch’un prego honesto, e pio non sia schernito,
     Che ’l celeste giudicio non consente,
     Ch’alcun debbia goder d’un ben rapito.
     E la pietà non vuol, ch’una innocente
     Figlia uno involator chiami marito.
     Se tal ragione ogni giudicio move,
     Ben mover dè per la sua figlia Giove.

L’imperador del sempiterno regno
     Con dolce occhio guardò la dolce amica.
     E d’havere in memoria le fè segno
     La grata lor benevolentia antica.
     Comune è questa ingiuria, e questo pegno,
     Comune è la vendetta, e la fatica,
     Rispose poi, comune è il suo cordoglio;
     Ma dà l’orecchie à quel, che dir ti voglio.

Se noi vogliam considerare il vero,
     Può dirsi allhora ingiurioso oltraggio,
     Che l’ ingiuria è nel fatto, e nel pensiero,
     E qui bisogna haver l’occhio al coraggio.
     S’un tragge in alto un sasso, e un cavaliero
     Percote giunto à caso in quel viaggio,
     S’ in mente il trahitor non ha l’ inganno,
     Ingiuria non gli fa, ma gli fa danno.

D’oltraggio io non saprei dannar Plutone,
     Di danno si nel pegno amato, e fido,
     Ch’ei non v’andò con questa intentione,
     E lo sforzò la face di Cupido.
     Anzi io sarei di ferma opinione
     Di dar Regina al sotterraneo lido,
     E consorte à colui la nostra prole,
     Che ’l terzo tien de l’universa mole.

Io ’l ciel, Nettuno il mar, quel regno hav’ello,
     Che de gli altri è più immobile, e più forte,
     Ne sdegnar ci dobbiam genero havello,
     Poi che nel mondo ci tien la terza corte,
     Et è mio, come sai, minor fratello,
     Ne d’altro cede à me, che de la sorte,
     E questo furto, s’un vi pon ben cura,
     Non è danno, ne ingiuria, ma ventura.

Ma se pure il desio, che ti conduce,
     Cerca disfar questo connubio à fatto,
     Ritornerà Proserpina à la luce
     Per sententia del ciel con questo patto;
     Se nel paese de l’infernal duce
     Non ha del cibo al gusto satisfatto:
     Ma non se i frutti Stigij ha già gustati,
     Che cosi voglion de le Parche i fati.

[p. 85v modifica]

Era l’irata Dea disposta in tutto,
     Di dar la figlia al ciel, torla à l’inferno,
     Ma non vollero i fati, che già un frutto
     Gustato havea contra il decreto eterno,
     L’havea il sudor tanto il palato asciutto,
     Che ritrovando nel giardino Averno
     Molti pomi granati, ne prese uno,
     E ruppe prima il pomo, e poi il digiuno.

Orfne già piacque al torbido Acheronte,
     La qual Naiade fu de le mort’acque,
     Ninfa la giù di non ignobil fronte,
     E ’n quei scuri antri al fin con lei si giacque.
     Di questa donna Stigia, e questo Fonte
     Ascalafo nomato un figlio nacque,
     Costui mangiar la vide, e al Re notturno
     Accusò la nipote di Saturno.

Non pensò allhora Ascalafo all’errore,
     Che ’l corvo fe, ne à quel, che gl’intervenne,
     E perch’ei fu cagion, ch’à lo splendore
     Del più lodato regno ella non venne,
     Sdegnò la Dea del tenebroso horrore,
     E tutto il fe vestir di smorte penne,
     E gli fe, in quel, che l’ammantar le piume
     Più picciolo ogni membro eccetto il lume.

Fece del molle labro un duro rostro,
     Curvo, e d’augel, che viva de la caccia,
     Fa, che fra gli altri augei rassembra un mostro
     La grande, altera, e stupefatta faccia.
     Non move avezzo ne l’ infernal chiostro
     Di giorno à volo mai l’ inerti braccia.
     Si fece un Gufo, e anchor suo grido è tale,
     Ch’ovunque il fa sentir predice il male.

Non è chi sia nel mondo peggio visto
     D’un, che rapporta ciò, che sente, e vede,
     Ne più dannoso, e scelerato tristo,
     Senza amor, senza legge, e senza fede.
     Tal che s’ei fè di quelle penne acquisto,
     Conforme al merto ottenne la mercede,
     Cosa, che non avenne à le Sirene,
     Ch’in peggio si cangiar per oprar bene.

Che come è ver le virtuose, e belle
     Sirene in questa parte il bene opraro,
     Fur tre gratiosissime sorelle,
     Figlie al fiume Acheloo, che si trovaro
     Cogliendo i fior con molte altre donzelle,
     Quando l’eterne tenebre involaro
     La figlia di colei, ch’anchor commove
     Con pianto, e con parole il cielo, e Giove.

Ogni parte cercar, ch’ ingombra il mondo
     Queste afflitte sorelle per trovarla,
     Volean ne l’aria gir, nel mar profondo
     Fra i pesci, e fra gli augelli à ricercarla;
     Ma ritrovar che ’l lor terrestre pondo
     Impedia lor la via da seguitarla,
     E fatto à gli alti Dei di questo un voto,
     Benigni à lor donar le penne, e ’l nuoto.

Tosto questo, e quel piè si fan di pesce
     Due code atte à notar ne’ fusi sali.
     Ne l’una, e l’altra man la piuma cresce,
     E fansi ambe le braccia due grand’ali.
     Il viso sol del suo splendor non esce
     Per non privar del lor canto i mortali.
     Fur si felici, e nobili nel canto,
     C’havean per tutto il mondo il grido, e ’l vanto.

La cercar poi fra i pesci, e fra gli augelli,
     Volar per l’aria, e s’attuffar nel mare,
     Ne fra gli spirti apparse aerij, e snelli,
     Ne fra l’alme, che ’l mar suole informare.
     Perch’ella fra i demonij oscuri, e felli,
     La madre innanzi à Giove era à pregare,
     Che non facesse il suo santo decreto
     La sorella scontenta, e ’l frate lieto.

Dal Re del più felice alto soggiorno
     Le liti al fin fur giudicate, e rotte,
     Fra lei, ch’anchor piangea l’havuto scorno,
     E fra il rettor de le tartaree grotte,
     E fe, che stesse fuor sei mesi al giorno,
     Sei mesi dentro à la perpetua notte
     Proserpina, hor fra lor l’anno hà partito,
     E si gode hor la madre, hora il marito.

[p. 86r modifica]

Rallegraro à la Dea l’interna mente
     Le nozze, e la vittoria, e divenne aviso,
     L’occhio rasserenato, e risplendente,
     E la grata favella, e ’l dolce riso.
     Cosi tal’hor le nubi al più lucente
     Lume del ciel fan tristo, e oscuro il viso,
     Ma poi s’ei scaccia il nembo horrido, e folto,
     Mostra il cor vincitor nel lieto volto.

In terra vien dallo stellato monte
     Co’l rallegrato cor, co’l primo honore,
     E và lieta à trovar l’amica fonte,
     Che conoscer li fe l’involatore.
     Deh di novo Arethusa alza la fronte,
     E come ti stillasti in questo humore,
     Conta (la Dea le disse) e fammi note
     Le tue fortune, e le tue dolci note.

Restan di mormorar le lucid’onde,
     Et ella mostra fuor l’infusa faccia,
     La verde chioma poi, che ’l viso asconde,
     Di quà, di là fin’ à l’orecchie scaccia.
     Poi con gran maestà cosi risponde.
     De la Vergine Dea, ch’ama la caccia,
     Io fui già Ninfa, e ne l’Achivo lido
     Havea fra le più belle il vanto, e ’l grido.

Ninfa in Grecia non fu, che conoscesse
     Meglio le selve, i piani, i monti, e i passi;
     Neé che le reti meglio vi tendesse,
     Ne che movesse più veloci i passi.
     Le leggi nel mio cor di Delia impresse
     Non soffrian, ch’à fin rio l’alma io voltassi,
     Ma scacciato ogni fine infame, et empio,
     Sol cercava di lei seguir l’essempio.

E dove ogn’ altra Ninfa altera andava,
     S’altrui la sua beltà fea maraviglia:
     Io se la forma mia qualchun lodava,
     Per vergogna tenea basse le ciglia.
     E se talhor qualchun mi vagheggiava,
     La guancia à un tratto si facea vermiglia,
     E cosi rozza in questa parte fui,
     Che vitio mi parea piacere altrui.

Tornando lassa da la caccia un giorno
     Sola, che le compagne havea lasciate,
     Veggio di pioppi, e salci un fiume adorno
     Ambe le sponde, e d’ombre amene, e grate.
     Solo era il loco, e ’l Sol girando intorno
     Su ’l carro havea la perigliosa State,
     E ’l faticoso di cacciar diletto
     Di doppia state ardea lo stanco petto.

Quel fiume Alfeo si chiaro era, e si mondo,
     E senza mormorar gia cosi lento,
     Che si potea contar nel maggior fondo
     L’arena, ogni suo gran d’oro, e d’argento.
     Era infocato in ogni parte il mondo,
     Spirata era ne l’aria in tutto il vento.
     Tal, che mi mosse à diguazzarmi un poco
     L’ombra, l’acqua, il viaggio, il tempo, e ’l loco.

Sfibbio la vaga, e ben fregiata spoglia,
     Ch’à me fa il fianco adorno, altrui l’asconde.
     E dove veggio più folta la foglia,
     La poso, e lascio in su l’herbose sponde.
     Poi dal desio, ch’à rinfrescar m’ invoglia,
     Spinta fido il mio corpo à le fals’onde,
     C’havrian sommerso il mio terrestre peso,
     S’io non havessi al mio sostegno inteso.

Le braccia, e i piedi à tempo incurvo, e scuoto,
     Disteso hor tengo il corpo, hor più raccolto,
     Con le mani, e co i piè l’acqua percoto,
     E la discaccio co’l soffiar dal volto.
     Mi diletta dapoi di cangiar nuoto,
     E ’l volto, e’l petto, e ’l grembo al ciel rivolto,
     E tenendo à l’ insù drizzato il lume,
     Mi lascio alquanto in giù portar dal fiume.

Indi come và l’huom per terra in piede
     Mi drizzo, e su le braccia mi sostegno.
     Poi torno al primo nuoto, e ’l petto siede
     Steso tutto su l’acqua come un legno.
     Zappo poi l’onde, e, come una man fiede,
     S’ inalza l’altra, e di ferir fa segno,
     Et alternando nel zappar le braccia,
     Come hà percosso l’un, l’altro minaccia.

[p. 86v modifica]

Mentre fo mille scherzi in mezzo à l’acque,
     E fuggo il caldo Sol con mio diletto:
     Un roco mormorar ne l’onde nacque,
     Che m’empì di paura, e di sospetto.
     Quivi ad Alfeo la mia bellezza piacque,
     Che mi vide oltre al viso, il fianco, e ’l petto,
     E à pena gli occhi cupidi v’intese,
     Ch’ in mezzo à l’onde sue di me s’accese.

Habbi vergine bella, egli alza il grido
     Con caldo affetto, e parlar dolce, e roco,
     Mercè del nuovo amor, ch’ in me fa nido,
     Anzi del novo insopportabil foco.
     Tosto io vò fuor nel più propinquo lido,
     Per fuggir quel d’amor non casto gioco,
     Misera io salto ignuda fuor de l’onda,
     E le mie vesti son ne l’altra sponda.

Anch’ei salta su’l lito, e à me rivolto
     Con benigno parlar la lingua snoda.
     Io dono i piedi al corso, e non l’ascolto,
     Pur sento, che mi prega, e che mi loda.
     Ei d’ogni altro pensier libero, e sciolto,
     Mi segue intento à l’amorosa froda,
     Con quella fame misera, e infelice,
     Che fa l’altier terzuol l’humil pernice.

Come l’ingordo veltro ardito, e presto
     Suol ne’ campi cacciar timida Damma,
     Cosi cacciava ei me, dal poco honesto
     Spinto, e folle desio, che ’l cor gl’ infiamma.
     L’esser nuda arrossimmi, e forse questo
     Accendea l’amor suo di maggior fiamma.
     Io pur correa, non mi trovando altr’ arme
     Dove meglio credea poter salvarme.

Chiedea tutti in favor gli eterni numi,
     Chiamava il loro aiuto, e ’l lor consiglio,
     Che mi salvasser da gli accesi Fiumi,
     E cercasser di tormi à quel periglio.
     Per piani, e monti, e strani hispidi dumi
     Passo, e sempre al peggior camin m’appiglio.
     E saltai mille spine, e mille arbusti,
     Che mi sparser di sangue i piedi, e i busti.

Già corso insino al mar ver Pisa havea,
     E l’alma d’ogni forza era si sgombra,
     E si vicina havea la sete Alfea,
     Ch’ egli innanzi al mio piè facea già l’ombra:
     Ricorro come io soglio à la mia Dea,
     Per lo troppo timor, che ’l cor m’ingombra,
     Che ’l propinquo scoppiar sento del piede,
     E ’l troppo acceso spirto al crin mi fiede.

Salva Vergine santa la tua serva,
     Che perderai, s’aiuto non impetra,
     Colei pudica Dea Vergine serva,
     Che suol portarti l’arco, e la faretra.
     Costui, di te nemico, e di Minerva,
     Da l’amore, e dal corso ingiusto arretra,
     Costui, la cui lascivia, e mente insana
     Vuol darmi à Citerea, tormi à Diana.

Al giusto prego mio la Dea s’arrende,
     E vedendo, che ’l ciel di nubi abonda,
     Fà, ch’una, ove son’ io, tosto ne scende,
     La qual tutta mi copre, e mi circonda.
     Gli occhi l’acceso Fiume intorno intende,
     E cerca ov’io sia gita, ov’ io m’asconda.
     Due volte disse, oime dolce Aretusa,
     Oime dolce alma mia, dove sei chiusa.

S’aggira, e guarda in questa parte, e in quella
     D’ intorno al nembo il troppo ingordo lupo,
     E cerca questa sventurata agnella
     Per esca al suo appetito ingordo, e cupo.
     Co’l cor ritorno à la mia Dea, perch’ella
     M’ involi al crudo dente del suo strupo.
     E giaccio muta ne la tana mia,
     Perche non senta il lupo, ch’io vi sia.

Qual se trovar co’l fiuto il can procura
     La lepre fra cespugli, e pruni, e ciocchi,
     Et ella giace muta, c’ha paura
     Del can, che non la scopra, e non l’ imbocchi;
     Tal egli intorno à quella nebbia oscura
     Il mio misero piè cerca con gli occhi,
     Et io mi giaccio muta entro à quel nembo,
     Perch’egli non mi senta, e toglia in grembo.

[p. 87r modifica]

Ei cerca, e non si parte, perche vede,
     Che più lunge il mio piè stampa non forma.
     Et io fra la fatica, che mi diede
     Il formar si veloce in terra l’orma;
     E fra ’l timor, che mi tormenta, e fiede,
     Veggio, che in humor freddo si trasforma
     La carne, il sangue, e l’ossa, e l’auree chiome,
     E non mi resta salvo altro, che ’l nome.

Come son le mie membra in acqua sparse,
     Conosce l’onde amate il caldo Dio,
     E la forma, c’havea quando m’apparse
     De l’huom pensa cangiar nel proprio rio,
     Per poter meco alcun diletto darse,
     E mescer l’acque sue nel fonte mio.
     E secondo il pensier si cangia, e fonde,
     Novella noia à le mie vergini onde.

Percote con un dardo allhor la terra
     Diana, e fà, che s’apre, e che m’invola,
     E mi conduce piu del mar sotterra
     Per una cupa, e tenebrosa gola:
     Non senza del condotto, che mi serra
     Timor, che non mi lasci venir sola,
     Ch’egli non apra à Dori il seno avaro,
     E ’l dolce fonte mio non renda amaro.

E poi, ch’un lungo tratto hebbi trascorso
     Per quel condotto periglioso, e strano,
     Qui venni al giorno, e qui concessi il sorso
     De le mie linfe al popolo Sicano.
     Qui diè fine Aretusa al suo discorso,
     E rinchiuse in se stessa il volto humano,
     Il verde crin, la cristallina fronte
     Attuffò come pria nel proprio fonte.

La lieta Dea di novo il carro ascende,
     E poggia in aria, e lascia il fonte solo,
     E verso l’oriente il camin prende,
     Fra ’l cancro, e ’l cerchio del più noto polo.
     Già sopra la Morea ne l’aria pende,
     Vede, e passa Corinto, e ferma il volo
     Ne le parti honorate, eccelse, e dive,
     Dove Palla piantò le prime olive.

E, perche far sopra ogni cosa brama
     Del seme suo tutto il terren fecondo
     Trittolemo un suo alunno allegra chiama,
     Gli dice poi. D’un’ honorato pondo
     Gravar ti vò per darti eterna fama,
     Che cerchi su’l mio carro tutto ’l mondo,
     Per le parti di mezzo, e per l’estreme,
     E che le sparghi tutte del mio seme.

Fà su’l carro montar l’alunno altero,
     Poi gli da un vaso d’or non molto grande,
     Pien del suo seme più lodato, e vero,
     E ’l vaso è sempre pien, se ben si spande.
     Leva egli il drago à vol presto, e leggiero,
     E dona al mondo le miglior vivande:
     E dopo haverne sparsi tutti i siti,
     Pervenne à Linco, al gran Re de gli Sciti.

Non lungi al regio albergo entra in un bosco
     Per non dar ne terror, ne maraviglia
     À la città de’ draghi, e del lor tosco,
     Là dove il morso à lor toglie, e la briglia:
     Quivi gli alberga, insin che l’aer fosco
     Scacci l’Aurora candida, e vermiglia;
     Poi và co’l vaso al Re, ch’empie il terreno
     Del seme de la Dea, ne vien mai meno.

Quell’humiltà, ch’à tanta monarchia
     Conviensi innanzi à Linco il Greco osserva,
     Poi dice; alto Signor la patria mia
     È la città prudente di Minerva.
     Trittolemo è il mio nome, e qui m’invia
     La Dea, che ne nutrisce, e ne conserva,
     Acciò ch’empia il tuo regno di quel grano,
     Ch’è proprio nutrimento al corpo humano.

E per empire il mondo in ogni parte
     Del nobil gran, che Cerere possiede,
     Non hò varcato il mar con remi, ò sarte,
     Ne per la terra m’hà condotto il piede:
     D’andar su’l carro suo m’insegnò l’arte
     La Dea, che per ben publico mi diede.
     E, perche alcun non tema de lor toschi,
     Legati ho i draghi suoi ne’ vicin boschi.

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Di quà dal monte Imavo hoggi per tutto
     Ho la tua terra ingravidata, e sparsa,
     Onde del più lodato, e nobil frutto
     Al grande imperio tuo non fia mia scarsa:
     E, perche m’ hà la notte qui condutto,
     Fin, che la nova luce sia comparsa,
     Ti chiedo albergo, e lieti farò poi
     Diman di la dal monte i Regni tuoi.

E questo vaso d’or per farti accorto,
     Che ’l il mio parlar maraviglioso, e vero,
     Ch’è detto Pirodoro, e meco porto
     Darà del mio parlar giuditio intero.
     Ch’ in questa loggia, ov’ hora è il tuo diporto,
     Voglio, che ’l ciglio tuo grave, e severo
     Conosca, che più biada egli hà nel fondo,
     Che non fà di bisogno à tutto ’l mondo.

Tosto rivolta il vaso, e versa l’esca,
     Ch’elesse l’huom dopo le prime ghiande,
     La pioggia allhor del gran più ogn’ hor rinfresca,
     Tanto n’acquista l’or, quanto ne spande.
     Tal, che forza è, che ’l monte in terra cresca,
     E che per ogni via venga più grande.
     Poi disse al Re, conosci al gran, ch’aspergo,
     Che sol per lo tuo ben ti chiedo albergo.

L’Imperador come insensato resta,
     Quando vede cader la ricca pioggia,
     E che ’l vaso di piover non s’arresta,
     Anzi, c’hà piena già mezza la loggia:
     Abbraccia il Greco, e fagli honore, e festa,
     E seco à mensa il pon, seco l’alloggia,
     E spesso dice, tutto il mio thesoro
     Non potria mai pagar quel Pirodoro.

Io la tua Dea ringratio, e te non manco;
     Che si grato qui fai meco soggiorno,
     Ma tu dei di ragione esser già stanco,
     Essendo homai per tutto andato intorno:
     Và dunque, e posa il travagliato fianco,
     Fin, che l’Aurora apporta il novo giorno.
     Cosi andò ’l Greco à ritrovar le piume,
     E à pena entro vi fu, che chiuse il lume.

Vide l’Imperador, mentre fè parte
     Il vaso d’oro à lui di tanto seme,
     Che fe stupido ogn’un, che in quella parte
     Era, e de grani in lui fondò la speme.
     Hor teme, come sian le voci sparte,
     Che i principi, e la plebe uniti insieme
     No’l chiamino lor Dio d’accordo uniti,
     E non gli dian l’imperio de gli Sciti.

Et oltre, che si fe questo sospetto
     Signor del suo discorso empio, e profano,
     Troppo avaro pensier gl’ ingombrò ’l petto
     D’haver quel vaso d’or, che rende il grano.
     Come ode, che ciascun possiede il letto,
     Le ricche piume sue lascia pian piano.
     E d’or s’ammanta i ben tessuti stami
     Tutti di soli adorni, e di ricami.

Questo superbo, e glorioso Scita
     Eletto per impresa il Sole havea,
     Et ogni spoglia sua ricca, e gradita,
     Di richi Soli, e varij risplendea.
     Non havea voce alla sua impresa unita,
     Ma troppo chiaramente si vedea,
     Che volea dir, che ne la terra mole
     Fra gli altri lumi regij egli era il Sole.

In man quel corto, e aguzzo ferro prende,
     Che suol cinto portar dal destro lato,
     E per torsi il sospetto, che l’offende,
     E per haver quel vaso si pregiato,
     Sicuro và, che ’l Greco non l’ intende,
     À l’ocioso sonno in preda dato,
     E à l’innocente acciar muto minaccia,
     Che ’l cor gli passi, e l’homicidio faccia.

Trittolemo non sol d’amore accese
     Gli huomini per la sua fertile pioggia,
     Ma ogn’ arme, e sasso, e legno, che l’intese,
     E vide il ben promesso in quella loggia.
     Hor quel pugnal, ch’in honorate imprese
     Solea servire il Re, che ’l Greco alloggia,
     Amando quel Signor cortese, e saggio
     S’astien per quanto ei può di fargli oltraggio.

[p. 88r modifica]

Stà duro il ferro à l’empia, e ingiusta mente,
     E non vuol obedir, se non lo sforza,
     Alza egli il braccio infame, et impudente
     Perche ’l misero acciar fera per forza:
     Ma l’alma alunna sua santa, e clemente
     Al Re crudel cangiò l’humana scorza,
     E ’n quel, che ’l Re lasciò del Re l’aspetto,
     Lasciò il pugno il pugnal cader su’l letto.

Cadde il pugnale, e ’l suo ferir fu vano,
     Ch’oprò la Dea, ch’à lui soccorso diede,
     Che tutti i diti à l’homicida mano
     Fur tolti in un momento, e si fer piede.
     Il volto, che fu già fero, et humano,
     La figura di pria più non possiede.
     Fugge l’human da lui, rimane il fero,
     E si fa l’animal detto Cervero.

La vaga altera, et ben fregiata vesta
     Da tanti soli illuminata, et arsa,
     Tutta dal capo al piè s’ incarna, e inesta
     In quella forma novamente apparsa,
     E secondo di raggi era contesta,
     Ne riman tutta anchor fregiata, e sparsa,
     E anchor lo Scita, e Barbaro costume
     Mostra l’andar superbo, e ’l fiero lume.

Come la fertil Dea l’hà fatto belva
     Fà, che l’alunno suo quindi diloggia,
     E ratto và ne la vicina selva,
     E dona à i draghi il volo, e in aria poggia.
     Lascia Linco i suoi commodi, e s’inselva,
     Vive al Sole, à la neve, et à la pioggia.
     À gli animai, che puote, anchor fa danno,
     E vive di rapina, e da tiranno.

Quì fe Callioppe punto al dotto canto,
     E con giudicio ben pensato, e saggio
     Dier le Ninfe à le Dee del monte santo
     E d’arte, e d’armonia lode, e vantaggio.
     Di questo si sdegnar le vinte tanto,
     Ch’à l’uno, e à l’altro choro onta, et oltraggio
     Disser, via più che mai crude, et acerbe,
     De la lor vanagloria anchor superbe.

E sì moltiplicar nel loro orgoglio,
     Che dopo haverle sopportate assai,
     lo fui sforzata à far quel, che non soglio,
     E dir, se non restavan mute homai
     In si misero stato, in tal cordoglio
     lo le farei cader, che più già mai
     Scior non potriano à la lor lingua il nodo,
     Per farsi honor con si orgoglioso modo.

Esse con folle, et impudente volto
     Ridon del grido mio, ch’altier minaccia,
     Poi con pensier più scelerato, e stolto
     Per volerne ferire alzan le braccia.
     Cade il braccio à l’ingiù libero, e sciolto,
     Ma non però, ch’à noi danno alcun faccia.
     Vede una, mentre anchora alza le pugna,
     Uscir le penne fra la carne, e l’ugna.

Ritrova come meglio vi rimira,
     Che per tutta la man la piuma cresce,
     E quanto il dito in dentro si ritira,
     Tanto la penna in fuor s’allunga, et esce,
     E per tutto, ove gli occhi intende, e gira
     L’aereo acquista, e ’l terreo ogni hor discresce,
     E quel, che più le par c’habbia del mostro,
     È, che vede le labbra esser già rostro.

Color ceruleo à tutte il corpo impiuma,
     Color dipinto, e vario il braccio impenna:
     La coscia, e il petto hà la più debil piuma,
     Il braccio, e l’ala hà la più forte penna.
     Mentre ogn’una s’affligge, e si consuma,
     E ferir con la mano il seno accenna,
     Il petto con la man più non offende,
     Ma per le scosse braccia in aria pende.

La penna inespugnabil lor nemica
     Sotto un corpo l’asconde aereo, e poco,
     Tanto, ch’entra ciascuna in una Pica,
     Orgoglio anchor d’ogni silvestre loco:
     Favella hor più, che mai, se ben s’intrica,
     E gloria ha del suo dir garrulo, e roco;
     Et anchor vana, insipida, e loquace,
     D’imitar l’huom si studia, e si compiace.

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ANNOTATIONI DEL QUINTO LIBRO.

La zuffa di Fineo con Perseo è mera historia, però non vi si può raccorre altra Allegoria, che quella che si scopre nella descrittione de ’l fatto, nondimeno si potrà bene andar raccogliendo qualche artificiosa descrittione dell’Anguillara, che sia sparsa per l’opera, essendone egli abondantissimo, come sarebbe questa de ’l tirare dell’arco di Licuba, che è molto vaga, e propria; che incomincia nella stanza, E ben mostrò l’Amor non esser finto come è bella ancora, e raccolta in pochi versi la descrittione de quelli che fanno le forze di Hercole in quei Monta sopra una statua, e veder parmi. Fineo e quelli che rimasero cangiati in falsi poi, possiamo dire che sono quelli che malignamente e pieni d’invidia vanno ad assalire la Virtù, la quale non più presto, è scoperta da gli animi bassi, e vili, che a viva forza si vedono assimiglianza di pietre rimanere freddi, e duri di maniera che non sono piu atti, a poter esequire piu alcuna di quelle malignità, alle quali erano spinti, da ’l caldo desiderio di offenderla; Trasforma la vertù medesimamente in Arbori quelli che non le danno fede, come non dava Polidete a quella di Perseo, però per suo castigo fu trasformato in una selce.

Che Minerva habbia sempre accompagnato Perseo nell’ Impresa di Medusa, ci dà ad intendere che la Prudentia non si scompagna giamai da ’l valore, nelle grandi imprese, che ella salisse poi al monte Parnaso per vedere il fonte di Aganipe, e le nove sorelle, ci fa medesimamente conoscere, che la sapientia, ama di trattenerse, con la Gloria, che è la Musa Clio; co ’l piacere che si trahe dall’ honesto; come significa, Euterpe; ama di essere ancora in compagnia lieta, e che ritrovi, ogn’ hora vaghi concetti e nuovi come fa Thalia. Ama ancora la soavità dell’ harmonia che è Melpomene; come è ancora Terpsicore la delettatione, ch’ ella si piglia del sapere, & Erato l’Amore ch’ ella ha sempre alle vere scientie; e Polimnia quel soavissimo canto che rende i poeti immortali; & Urania, quella celeste felicità ch’ ella gode, fra gli alti suoi concetti e divini. Come ancora è Caliope la bellezza inestimabile della scientia si trattiene molto Minerva con queste nove sorelle, come che non può quasi stare senza esse, ne esse possono essere senza Minerva; sono le Muse ancora tenute per la musica harmoniosa delle Otto sphere del Cielo, e la nona è quell’harmonia generale che formano tutte insieme. Contendono le Nove figliuole di Pierio, con le Muse co ’l Canto, e sono trasformate in Gaze le quali imitano la voce ma non però l’ingegno dell’huomo, a simiglianza delle figliuole di Pierio, sono alcuni ignoranti che spinti da un soverchio desiderio di divenir Poeti si danno a fare versi, scioccamente; e pensano cosi se compiacciono di se stessi, di esser tenuti perfettissimi compositori ancora da gli altri, ma quando poi vengono al paragone de i veri Poeti subito diventano Gaze che non fanno altro che imitare la voce altrui. Non sono molto differenti da questi, poi quelli che simigliano Pireneo, che tenea di rinchiudere & isforzare le Muse nel suo Palazzo; quando tentano con belle librerie, e con apparenze di dotti, dar’ a credere che posseggono bene le muse, che non sono altro che le scienze, e non le hanno però altramente che ne i libri; perche non hanno bevuto, come doverebbero, volendo esser tali, quali amano di essere tenuti, al Fonte Cutalio. Vagha descrittione del suono della Cethera, o del iuto è quella della stanza, Percote, hor solo un nervo, hor molti insieme come è ancora vaga quest’ altra descritta in de ’l tirare dell’arco; nella stanza, Lo stral nel nervo incocca, e insieme acorda.

L’alegoria del rubamento fatto da Plutone, di Proserpina figliuola di Cerere; è che le ricchezze, delle quali Plutone è Dio, vengono da i frutti della terra, e specialmente da ’l formento; ruba Plutone Proserpina e la conduce all’inferno e questo, è quando si vien a far il raccolto; e che si ripone il formento, nelle fosse sotterra, come s’ accostuma in Sicilia dove fu rubata Proserpina figliuola di Cerere che non è altro che l’ abondanza; essendo il Paese di Sicilia abondantissimo di formento; e guardiano dell’ inferno casa di Plutone Cerbero che è un cane fierissimo da tre teste, il quale non ci figura altro che l’ Avaro diligentissimo guardiano delle cose riposte, le tre teste sue, sono le tre sue conditioni, l’una quando desidera l’oro con ogni maniera di sceleragine; l’altra, è quando con grandissime fatiche e sudori, mette le ricchezze insieme; e le tiene rinchiuse guardandole con ogni diligentia, e non se ne serve gia mai per suo beneficio, ne meno a beneficio d’ altri, la terza è poi quando ha per heredità de suoi maggiori le ricchezze, e non ha ardire di toccarle; ma le tiene sempre nascose, e sotterrate senza alcun comodo suo; [p. 89r modifica]o d’ altri. Hà Cerbero alcuni serpenti intorno il collo; e l’ Avaro hà alcuni continui pensieri venenosi e mordaci dell’Avaritia, che non lo lasciano mai. Le ruote del Carro di Plutone, co ’l quale ruba Proserpina, non sono altro poi che i continui giri di quelli che desiderano aricchire; sono tre, perche significano la fatica, il pericolo, e la instabilità della fortuna, intorno l’arricchire, e impoverire. Ha Proserpina per sentenza di Giove da star sei mesi nel centro della terra co ’l marito, & sei mesi di sopra con la madre; perche il formento seminato stà sei mesi sotto terra prima che incominci a mostrare la spica; & sta sei altri mesi con la madre sopra la terra, prima che ritorni sotterra, seminato da i lavoratori. e se tal’ hora non nasce per esser soverchiamente affaticato il terreno, e di modo che ’l sia vuoto dell’humore che ha virtu di produrre; Cerere all’ hora spezza gli instromenti rusticali, conoscendo che sono stati adoperati in vano; per questa cagione è poi persuasa da Giove a mangiare il papavero, che ha vertù di far dormire, che è, che fa bisogno all’hora lasciare riposare il terreno fino che ripigli vigore dandose al riposo del dormire.

Narrano alcuni che ’l Rubamento di Proserpina non è favola, ma historia antichissima; e fra gli altri Theodontio dicendo che Cerere fu figliuola di Saturno, e mogliera de ’l Re Sicano, e fu Donna di grande ingegno, perche vedendo i popoli dell’Isola di Sicilia andar vagabondi per le selve per le valli: e per i monti, & che vivevano solamente di ghiande, e di pomi selvatici senza alcuna legge; fu la prima che ritrovasse l’ Agricoltura in quell’ Isola, e giongesse i buoi sotto l’aratro, e incominciasse a sparger il seme in terra, e ricogliesse i frutti; Onde gli huomini poi si diedero a partire i terreni, ad habitar insieme, & a vivere piu humanamente. come servir Vergilio: Con l’aratro, da Cerere, la terra; Fu pria solcata, e sparsi in essa; i semi. ricolti i frutti; e date leggi a chi erra; Tutti son doni suoi, tutti suoi premi. Hebbe la Reina Cerere Proserpina sua figliuola Giovane bellissima; la quale fu per la sua singolare belleza rubata da Orco Rè de i Molossi; che la prese poi per mogliera.

La favola di Stelle, trasformato in uno stellione, ci da essempio che non dobbiamo farse scherno delle cose celesti, come hanno ardire di fare alcuni spiriti maligni, & heretici che non havendo rispetto ne a Dio, ne alla Religione, mettono ogn’hora le loro boche in Cielo, biasimando i Santissimi riti della Chiesa Catholica.

La trasformatione di Ascalapho figliuolo di Acheronte in un Barbagianni, per haver’ accusata Proserpina, di havere mangiati tre grani di pomo granato; onde per legge, de i Fati, non poteva piu liberarse dall’inferno ci da essempio quanto dobbiamo fuggire l’occasione di haver ad accusare alcuno, per esser questo ufficio di huomo maligno, & odiato; per non divenire quell’infelice Barbagianni apportatore in ogni luogo di tristissimo augurio, come figliuolo di Padre che è privo di ogni Allegrezza; e si come questo questo uccello sotto un gran Mantello di piume rinchiude un picciolo corpo; cosi gli accusatori maligni sotto lunghi giri di parole vane, il piu delle volte chiudono poche cose vere, sode, e probevoli. come quelli che non fanno che stridere, come stride questo animale, e si come stride, e si come questo ama di far il suo tardo, e picciolo volo per le sepolture, de morti cosi gli accusatori, con i loro falsi riporti, e maligne accuse, non solamente offendono i vivi ma ancora, tendono a roinare le facoltà de i morti, facendo ogni opra di far rompere testamenti, e contratti, di quelli che sono passati all’altra vita per privar i veri heredi della loro propria heredità. Si vede in questa favola la bellissima sententia morale propria dell’Anguillara, dove dice: Non è chi sia nel mondo peggio visto.

Le sirene poi che sono tre secondo alcuni Parthenopea, Leucosia e Ligia; trasformate in mostri marini, sono secondo Palefatto le meretrici, le quali per la loro infame abitudine, si possono dire veramente mostri; e i nomi loro ci danno lume delle loro arti, perche Partheno voce greca, significa vergine, onde le meretrici che fanno l’ humore della maggior parte de gli huomini, che sono piu inclinati ad amare, la Virginità, o la Castità, o almeno l’ honestà che non sono, una dishonestà, e sfacciata lascivia; si fingono, per coglierli pure dongelle, overo femine Caste con tenire gli occhi bassi, arrossire, a ogni parola, meno che honestà che si dica loro; e non si lasciando toccare cosi di prima gionta lascivamente; usano queste & altre simile arti per coglierli nelle loro rethi, e farse maggiormente amare, e desiderare. L’ altra si chiama Leucosia, che vuol dire bianco figurato per la purità dell’ animo, finta accortamente dalle Meretrici per coprire l’ arte, laqual’ è odiata generalmente da ogn’ uno. La terza & detta Ligia, che s’interpreta giro, e viene a significare i lacci, le Reti, e le pregioni nelle quali tengono avilupati gli infelici inamorati; habitano a i lidi de ’l mare, perche le parti Maritime sono piu date alla lascivia, che quelle [p. 89v modifica]che sono fra terra; per questa cagione hanno finto i Poeti Venere, essere nata de la piuma del mare: hanno voci, e canti soavissimi che adormentano i miseri che passano per là, e adormentati gli affogano, privando de i tutti i beni quelli che danno nelle loro mani. Vanno le Sirene cercando Proserpina, che significa l’abondanza; perche le Meretrici non s’ hanno giamai metter freno alle loro dishonestissime voglie, anzi le vogliono contentare abondevolmente, solo Ulisse fugge le loro insidie; perche la sola prudenza fa spregiare le dannose arti delle meretrici, chiudendo l’orecchie a i canti loro.

Dopo che Cerere rimasse contenta di goder la figliuola, per sententia di Giove, sei mesi dell’anno, per pigliare qualche riposo dopo havere scorso tutto il mondo cercandola; si fa narrare ad Arethusa la sua trasformatione in fonte, essendo seguitata da Alpheo fiume che era inamorato di lei, che ci dà altro questa trasformatione, se non che la Castità fuggendo la lascivia, e conosciuta chiara, e limpida, come l’acque chiare di un fonte dove nella descrittione dell’Amore, d’Alpheo, e della fuga di Arethusa, si vede quanto felicemente habbi descritta, l’Anguillara l’arte d’ el nuotare; nella stanza Le braccia, e i piedi a tempo incurva, e scuote, e nella seguente come ancora ha propriamente la comparatione del Cane nella stanza Come l’ ingordo Veltro ardito, e presto.

La favola di Trittolemo secondo Philocoro è mera historia; essendo stato Trittolemo antichissimo Re di Athene e diede occasione di fingere questa favola, perche nel tempo di una grandissima carestia gli fu dal popolo amazzato suo Padre che vedendo morire tutte le genti di fame; dava egli solo abondantissimamente da mangiare al figliuolo, Onde egli fuggendo sopra una nave, che haveva per insegna un serpe, & essendo capitato in paesi lontani, e molto abondanti, ritornò lieto nella patria carico di formento, e sollevò il popolo da quella estrema Carestia; e ne caccio Linceo che haveva occupato quel paese, ripigliando esso l’ Imperio di quello stato al quale mostrò ancora l’uso di coltivare la terra e di far i sacrificij a Cerere, la quale relegò Linceo ne i Boschi, come indegno di vivere, e dominare fra le genti, havendo voluto far morire quei popoli dalla Fame, e dapoi far morire ancora, l’apportatore della salute di quel Regno.