Le Metamorfosi/Libro Quinto

Libro Quinto

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Publio Ovidio Nasone - Le Metamorfosi (2 a.C. - 8 d.C.)
Traduzione dal latino di Giovanni Andrea dell'Anguillara (1561)
Libro Quinto
Libro Quarto Libro Sesto

 
Mentre à più degni Heroi de l’Ethiopia
L’illustre cavalier Greco ragiona;
Un gran romor d’huomini, e gridi in copia
Sorge ne l’aere, et ogni orecchia introna.
Tanto che lascia ogn’un la sede propia,
E pronta à l’armi acconcia la persona,
Che non è suon di dolci voci, ò carmi
Per rallegrar; ma d’alti gridi, e d’armi.

La regia sala è lunga, e larga tanto,
Ch’à gran pena maggior far si potria:
E ’l Re, che Perseo, il qual gli tolse il pianto,
Volle honorar d’ogni alta cortesia,
V’havea invitato il regno tutto quanto,
E v’era il fior de la sua Monarchia.
Tal, che la sala anchor confusa, e varia,
Empie di doppio suon l’orecchia, e l’aria.

Come talhor, se ’l mar si gode in pace
L’ampio suo letto placido, e contento,
E mentre tutto humil senz’onda giace,
Freme ne l’aria un tempestoso vento,
L’onda alza, e rompe, e mormorar la face,
Tanto, ch’assorda il ciel doppio lamento:
Cosi il lieto convito al novo insulto
Multiplicò tumulto con tumulto.

Fineo fratel di Cefeo era l’autore
Del romor, che promesso il Re gli havea
D’Andromeda il connubio, e co’l favore
Quasi di tutto il Regno hor la volea.
E quei, ch’eran più degni, e di più core
Nel palazzo Real condotti havea,
Da picche in fuor, con arme d’ogni sorte,
Proprie per quella sala, e quella corte.

Gli Ethiopi tutti havean non poco à sdegno,
Anchor che fosse il Greco un gran guerriero,
Che la figlia del Re con tutto il regno
S’havesse à dare in preda à un forestiero.
Però il fratel del Re fece disegno
(Seco havendo il favor del popol nero)
D’uccider Perseo, e torsi ogni sospetto,
Pria, che ’l facesse sposo ella nel letto.

Manda à veder con degnità turbato
Chi fà il romore il Re canuto, e bianco.
Il fido scudo il Greco hà già trovato
Col capo ascoso di Medusa al fianco.
Lo stocco, che Mercurio gli havea dato,
Nel fodro anchor pendea dal lato manco,
Che la Real presentia ivi richiede,
Ch’ei non debbia sfodrar, s’altro non vede.

I Principi, che fur di quel convito,
Stavano come quei, ch’altro non sanno,
Del ricco ornato, e splendido vestito,
Pronti per imbracciar la seta, e ’l panno,
E chiedean, chi superbo, e chi smarrito,
Chi son quei, che da basso il romor fanno,
Chi può, da i balcon guarda in sù la strada,
E ogn’un la man sù l’elso hà de la spada.

La guardia del Signor, che sù l’entrata
Stava ordinaria à l’ improviso colta,
Dopo qualche contrasto fu sforzata,
Tutta disfatta fu non senza molta
Strage, ch’alcuni havean l’arma abbassata,
E la difesa de la porta tolta.
Ma fur tanto assaltati à l’ improviso,
Ch’un dopo l’altro al fin ciascun fu ucciso.

Come Fineo compare in sala, e grida
Con arme hastate, e spade, archi, e rotelle,
E Perseo, e tutti i suoi minaccia, e sfida;
La sposa, et altre assai donne, e donzelle,
Alzano sbigottite al ciel le strida,
Ne il Moro udir si può quel, che favelle.
Ma tosto un prende de le Donne cura,
E tutte in altra stanza l’assicura.

Hor si vedrà, se sei figliuol di Giove
Fineo à gridar comincia da la lunga,
Ch’ei non farà, che tutto intende, e move,
Che ’l core hoggi quest’ hasta non ti punga.
L’ali del tuo destrier si rare, e nove
Non potran sì volar, ch’ io non ti giunga.
Tutto il ciel non farà, ch’ io non ti spoglie
De la vita in un punto, e de la moglie.

Vede ei, mentre l’ ingiuria, e d’ ira freme,
Che in sala ignuda ogn’un la spada afferra,
E però pensa i suoi stringere insieme,
Et in battaglia poi far lor la guerra.
Che se non và come conviensi, teme
Ch’ à suoi non tocchi insanguinar la terra,
E però aspetta gli altri ne la sala,
Li quai di man in man montan la scala.

Il Re al fratello accenna con la mano,
E corre con senile, e debil piede,
E gli dice sdegnato di lontano.
Questa del merto dunque è la mercede?
S’ei salvò lei dal mostro horrendo, e strano,
Come poss’ io mancar de la mia fede?
Perseo à te non hà tolta la consorte,
Ben l’hà involata al mostro, et à la morte.

Legata la vedesti al duro scoglio,
Dove dal mostro esser dovea inghiottita:
E tu suo sposo, e zio di lei cordoglio
Non però havesti, e non le desti aita.
Fineo tutto ripien d’ira, e d’orgoglio
Tolta al Re in un momento havria la vita,
Ma perche sposar vuol la figlia, l’ira
Sfoga contra il rivale, e un dardo tira.

Perseo, che attento stava à riguardallo
Quello al ferro nemico oppose scudo,
Ch’è fuor d’acciaio, e dentro di cristallo,
E fe lo stral restar d’effetto ignudo.
Ma il Greco già lanciar no’l volle in fallo,
Ma, che contra Fineo fera più crudo,
Manda l’istesso dardo à la vendetta,
Ma Fineo spicca un salto, e non l’aspetta.

Il dardo fende l’aria, e in fronte giunge
D’un, che dietro era à Fineo detto Reto,
E tanto indentro in quella parte il punge,
Che ’l fa senz’alma riversare indrieto.
Il vecchio Re da quel furor và lunge,
E protesta a gli Dei, ne ’l dice cheto,
Ch’al forte peregrin, cortese, e saggio
Contra la mente sua fan quello oltraggio.

Perseo intanto gli Heroi di quella mensa
(Per proveder se può di qualche scampo)
In filo con grand’ordine dispensa,
E tutto prende per traverso il campo,
Squadra gli huomini, e l’arme, e mentre pensa
Come meglio ordinar puote il suo campo,
Giunge una freccia ingiuriosa, e presta,
E fora à lui le falde de la vesta.

Fin da l’estremo Gange era venuto
Ati, un paggio di Fineo illustre, e bello,
E forse un simil mai non fu veduto
Da la natura fatto, ò dal pennello,
Da ch’egli nacque havea il Montone havuto
Dal Sol sedici volte onato il vello,
E solea ornar si vago aspetto, e divo
D’un vestir non men ricco, che lascivo.

Vada pur dove vuol, da tutti gli occhi
D’huomini, e donne à se tira lo sguardo.
Altri non è, che meglio un segno tocchi,
Quando egli lancia un pal di ferro, ò un dardo,
Nel far, che giusto al punto un telo scocchi,
Nel mostrarsi à caval destro, e gagliardo.
E ’n tutto quel, che fà, mostra tal gratia,
Che vista mai di lui non resta satia.

Trovossi Perseo appresso al ricco altare,
Dove fer sacrificio ad Himeneo,
E vedendo un gran legno anchor fumare,
Il prese, e l’aventò contra Fineo.
Hor mentre il vuol d’un salto egli schivare,
Colse contra la mente di Perseo
Nel vago viso, e d’ogni gratia adorno,
Mentre egli à l’arco anchor tendeva il corno.

Fra la fronte, e la tempia fu percosso
Il misero garzon dal lato manco,
E non bastò al carbon far nero, e rosso
Di sangue il volto suo splendido, e bianco;
Ma gli ruppe la fronte insino à l’osso,
E batter fe in terra il petto, e ’l fianco,
E dopo un rispirar penoso, e corto
Il misero restò del tutto morto.

Quando il vede cader Licaba, un Siro,
Il qual l’amava assai più che se stesso,
Fà con un doloroso alto sospiro
Conoscere à ciascun, che gli è da presso,
Ch’egli hà di quel morir maggior martiro,
Che se fosse il morir toccato ad esso,
À piangerlo l’ invita il duol; ma l’ ira
À la vendetta, et à la morte il tira.

E ben mostrò l’amor non esser finto,
Che ’l nervo, che quel misero havea teso,
A punto in quel momento, che fu estinto,
Prese di rabbia, e di furor acceso,
Lo strale incocca, e poi, che l’arco ha spinto
Co’l braccio manco più, che può disteso,
Tira il cordon co’l destro, e pria, che scocchi,
Drizza à l’istesso segno il dardo, e gli occhi.

Scocca la freccia, e batte in aria l’ale,
Lo guarda il mesto Siro, e grida forte,
Tutto ’l ciel non farà, che questo strale
Non vendichi la sua con la tua morte.
E quando l’arco suo non sia mortale,
T’ucciderò con arme d’altra sorte,
C’hai scolorato un viso il più giocondo,
Che fosse mai veduto in tutto ’l mondo.

Schiva egli il colpo, e quel, che trasse, vede,
Che di novo minaccia, e l’arco tende,
Lascia le squadre unite, e giunge, e fiede
Il Siro, e d’un mandritto il capo fende.
Quel gira, e và, ne può tenersi in piede,
E in tanto nel garzon le luci intende,
Gli cade appresso, e se felice chiama,
Che muore à canto à quel, che cotanto ama.

Dal Greco a pena il Siro fu percosso,
Che Fineo, e mille suoi tutti in un punto
Se gli aventaro con mille arme addosso,
Ma à tempo ei ritirossi, e non fu punto.
Hor l’uno, e l’altro essercito s’è mosso,
E quel del Moro, e quel del Greco è giunto.
L’un Duca addosso à l’altro altier si serra,
E sono i primi à cominciar la guerra.

Mostra la punta de la spada, e ’l volto
L’uno, e l’altro rivale audace, e forte,
E cerca via, che sia il nemico colto
In parte tal, che lui conduca à morte.
Ma il braccio hanno ambedue si fermo, e sciolto,
E voglia tal di vincer la consorte,
Ch’ogni lor colpo ingiurioso, e crudo
Hor la spada ripara, et hor lo scudo.

Mostrano i due Signor nel mezzo il viso,
E questi, e quei ne l’uno, e l’altro corno.
Se ben quei, che fur colti à l’improviso,
Non han tante haste, e tanto ferro intorno,
Ma sanno star talmente in sù l’aviso,
Che da gli altri non han danno, ne scorno,
Pur qualche targa, e qualche spiedo v’hanno,
Che ritrovar dove hor le Donne stanno.

Il Greco, e ’l Moro cerca ogni vantaggio,
Onde il nemico suo di vita spoglie,
E fere questi, e quei con gran coraggio,
Ne men l’honor combatte, che la moglie.
È ver, che ’l Moro hà già disavantaggio,
Ne la persona no, ma ne le spoglie,
Che la spada celeste è di tal prova,
Che manda tutto in pezzi ciò, che trova.

Hor ecco quei, che son dal destro lato
Di Perseo tutti in fuga, e molti morti,
Che i Cefeni han molt’haste, e ogn’uno è armato,
Non, che de gli altri sian più fieri, e accorti.
Perseo, che l’alma, e la sposa, e lo stato
Perde, se gli aversarij son più forti,
I suoi soccorre, e Libi al collo arriva,
E del suo caro peso il busto priva.

Sdegnato contra lui con una scure
Per vendicar l’amico Erito venne,
Ma le tempre del ciel fendenti, e dure
Li fan cader la mano, e la bipenne.
À Forba rende poi le luci oscure,
Che la celata il colpo non sostenne.
Il colpo, ch’ à la sua terrestre salma
Tolse con un fendente il giorno, e l’alma.

Mill’arme, e cavalier à un tratto à fronte
Gli sono, et ei più invitto ogni hor contende,
Ne men che invitto il core, hà le man pronte,
E ribatte, e percuote, e fora, e fende,
E fà di sangue un mar, di morti un monte.
Bellona è seco, e ’l cor più ogni hor gli accende.
Visto quei, che fuggir si gran valore,
Ripigliaro in un punto, e l’alme, e ’l core.

Fra i morti in terra eran molt’haste sparte,
Onde quei, che fuggir, meglio s’armaro,
E si strinser di novo al fiero Marte,
E co’l Greco Signor s’accompagnaro,
E si pronti investir, che in quella parte
Gli aversi cavalier si ritiraro,
E ben di lor si vendicar, ma in tanto
I Persi rotti fur da l’altro canto.

L’ ira, e ’l valor di Fineo, il core, e ’l senno,
Il vantaggio de l’arme, e de guerrieri
La rotta à i Persi in quella parte denno,
Se ben furo un gran tempo arditi, e fieri.
Un, ch’era appresso à Perseo, gli fe cenno,
E fe, che vide i morti cavalieri.
Non sà l’ardito Greco ove s’ investa,
Se salva quella parte, perde questa.

Come Tigre crudel, ch’arrota i denti,
Da fame stimulata, anzi da rabbia,
Se muggir sente due diversi armenti,
In due diverse valli, più s’arrabia,
Gli orecchi hà in questa parte, e in quella intenti,
E non sa dove prima à investir s’habbia,
Al fin dove è più cibo, e più muggito,
Corre à sfogar l’ingordo suo appetito.

Tal’ ei, che di ferire ardea di voglia
Varij nemici in varij luochi sparsi,
Mentre à questi, et à quei l’ardor l’ invoglia,
Riguarda questi, e quei, ne sà, che farsi.
S’ investe questi pria, di quei si spoglia,
Corre alfin dove i cibi son men scarsi,
E procaccia esca al ferro ingordo, e fido,
Dov’è maggior romore, e maggior grido.

In prima Molfo, e dopo uccide Enone,
E Clito, e Flegia il cavalier esterno,
E di ciascun, ch’al suo furor s’oppone,
L’alma in un colpo, ò due manda à l’inferno.
Seguon lui due fratei Brotea, et Ammone,
E Odite, che del Regno havea il governo,
E con animo invitto, e saggio aviso
Fecer di nuovo à lor mostrare il viso.

Ma i Mori, che restar da l’altro lato,
Vedendo guerreggiar nel corno manco,
E’l destro restar tutto abbandonato,
Strinsersi insieme, e à Persi dier per fianco.
Come vide con pochi esser serrato
Da tanti, e tanti neri il guerrier bianco,
Si tirò in un canton, che ’l fea sicuro
Quinci un superbo armario, e quindi il muro.

E à quei, che seco lì si ritiraro,
Disse, armar ne convien d’invitto core,
Se voi mi fate tanto di riparo,
Ch’io possa trar di questo sacco fuore
L’empia Medusa, costerà lor caro
L’oltraggio, che n’ han fatto, e ’l dishonore.
Vi trarrò tutti à un tratto di periglio,
Ma al primo motto mio chiudete il ciglio.

I seguaci di Fineo, freschi, e molti
Fieri combatton contra pochi, e stanchi;
Ma i Persi con gran cor mostrano i volti
Dapoi, che s’hanno assicurati i fianchi.
Di quei, che fuor di quel canton fur colti.
Molti ne mandar giù pallidi, e bianchi.
Molti, che fur più fieri, e meglio accorti,
In un’ altro canton si fecer forti.

Fra i quali Odite fu, che ’l primo grado
Levato quel del Re nel regno havea,
Fineo l’odiava à morte, ch’à mal grado
Di quei del sangue regio egli il tenea,
E perche vien l’occasion di rado,
Vedendo, che con pochi ei difendea
La fronte d’un canton ristretto, e forte,
Andò per dargli di sua man la morte.

L’odio, che porta à Odite, e la paura,
Che n’hà per quel, ch’ei può co’l suo fratello,
Fà, che de l’odio antico hà maggior cura,
E s’oblia per allhor l’odio novello.
Perseo intanto à colei, che l’huomo indura,
Havea scoperto il viperin capello,
E gli amici avisati, e ’l tempo tolto,
Alzò in fronte al nemico il crudo volto.

Tessalo alza la man per trarre un dardo,
E dice armati pur di più fort’armi,
Ch’io farò te col tuo mostro bugiardo,
Se d’altro contra il mio ferir non t’armi;
Volle snodare il braccio, ma fu tardo,
Che tutti i membri suoi si fecer marmi,
Co’l braccio destro alzato, che s’arretra,
E co’l piè manco innanzi ei si fe pietra.

Neleo nel tempo istesso il Greco vede,
Che con altr’arme à la vittoria aspira,
E che mostra quel capo, e che si crede,
Che debbia marmo far ciascun, che ’l mira;
Vuol per girlo à ferire alzare il piede,
E trova, che ’l gran peso abbasso il tira,
E anchor l’ immarmorite, e stupid’ossa
Mostran, che correr voglia, e che non possa.

Erice, ch’à quei due, c’havean la scorza
Di marmo era vicino, e combattea
Co’ soldati di Perseo, che per forza
Con molti altri in quel canto entrar volea,
Mentre, che chiama aiuto, e entrar si sforza,
Vede stupidi i due, ch’appresso havea,
Gli guarda, e vuol con man la prova farne,
E in somma son di sasso, e non di carne.

Si tira à dietro, e al ciel le mani alzando,
Gli guarda, e dice. oh Dio, che cosa è questa?
Ne vuoi far sassi, come fummo quando
Deucalion ne fe la mortal vesta ?
Et in quell’atto attonito parlando,
Un marmo con le labra aperte resta,
Con tese braccia, e stupefatte ciglia
Guarda quei sassi, e se ne maraviglia.

Ma quei puniti fur meritamente,
Che fer torto al cortese cavaliero,
Ma Aconto, che di questo era innocente,
E combattea per Perseo ardito, e fiero,
Tosto, ch’ incauto al mostro pose mente,
La carne trasformò, perdè il pensiero.
Astiage si credea, che vivo fosse,
E d’un man dritto in testa empio il percosse.

La spada lampeggiando il capo fiede,
E spicca un sasso, e in su balza, e s’arretra,
Maravigliato, il colpo ei guarda, e vede
Una ferita essangue in sù la pietra.
Hor mentre vuol toccarlo, e che no’l crede,
E stà tutto confuso, anch’ei s’impetra.
Dove anchor guarda attonito, e stordito,
E la ferita sua tocca col dito.

Ognun restò ne l’atto, ov’era intento,
Quando il capo crudel venne à mostrarsi,
Ma saria troppo à dirne, e cento, e cento,
Che per tutta la sala erano sparsi,
Per Perseo, e contra Perseo, e in un momento
Fur visti tutti quanti trasformarsi.
Perseo insaccar pensa il suo mostro, e intanto
Combatter sente anchor ne l’altro canto.

Fineo disposto uccider il nemico
Con Climeno, e molti altri à questo intende,
Et ei con più d’un forte, e fido amico
Valoroso in quel canto si difende.
Il volto, che nel tempio fu impudico,
Anchora in parte stà, che non gli offende.
Il Greco andar vi vuole, e stà confuso,
Che d’ogn’intorno l’han le statue chiuso.

Secondo, ch’era intorno assediato,
Non molto pria da gli huomini, e da l’armi,
Cosi poi, che ciascun fu trasformato.
Restò chiuso in quel canto da quei marmi,
Non si trovando allhora il piede alato,
Monta sopra una statua, e veder parmi
Quei, ch’Ercole imitar sanno co’l salto,
Quando l’huom sopra l’huom sormonta in alto.

Climeno intanto, e Fineo haveano morti
Odite, e gli altri, e s’erano inviati
Là dove i Persi s’eran fatti forti:
Ma quando vider tanti sassi armati,
Stupidi in atti star di mille sorti,
Restar com’ essi attoniti, e insensati,
E allhor si ricordar, che ’l cauto Greco
Il sassifico mostro havea ogni hor seco.

Mentre Fineo con lui si maraviglia,
E pensa seco andar verso la scala,
Vede, ch’egli non batte più le ciglia,
E che lo spirto il gozzo non essala.
Subito chiude gli occhi, e si consiglia
D’abbandonar la stupefatta sala.
Non sà dove si sia l’esterno Duce,
Ne per saperlo aprire osa la luce.

Dapoi, che ’l cavalier di Grecia scese
Da marmi, che gli havean serrato il passo,
Dritto ne và dove il contrasto intese,
Ne vi trova huom, che non sia morto, ò sasso.
Poi vede il disleale, e discortese
Fineo, che move brancolando il passo,
E le man stende innanzi, c’hà paura
Del volto fier, ch’altrui la carne indura.

Guardando stassi, e tien la risa à pena,
Che spesso in qualche statua urta la mano.
E perche i morti, onde la sala è piena,
Spesso il fanno intoppare, e gir più piano,
E più, che quel camino in luogo il mena
Dal desiderio suo molto lontano,
Ch’ei per fuggir vorria trovar le scale,
E quello il mena dritto al suo rivale.

Hor come di quel moto, e di quel riso
Fece l’attenta orecchia il Moro accorto,
Crebbe il timore, e prese un’ altro aviso,
Per non restare, ò simolacro, ò morto,
Di non aprir mai gli occhi al crudo viso,
Ma confessare al suo nemico il torto.
E fatta à timidi occhi un’altra chiusa
Con tutte due le man, cosi si scusa.

Deh Perseo contentatevi haver vinto,
Deh nascondete il venenoso mostro,
Perch’odio à prender l’armi non m’ hà spinto,
Ne desio di regnar nel clima nostro:
Ma bene un’ amor nobile, e non finto,
M’armò contra il maggior merito vostro,
Per quella, ch’à voi sposa il valor diede,
Et à me il padre, il regno, e la sua fede.

Di non l’haver ceduta à voi mi pento,
E in tutto à me dò torto, à voi ragione.
Deh non mi fate l’horrido spavento
Veder de la sassifica Gorgone.
Quest’anima, ond’io formo questo accento,
Lasciate anchor ne la carnal prigione,
Non fate questa vita un simulacro,
E tutta al vostro Nume io la consacro.

À quei si caldi preghi si commosse,
Il cortese, e magnanimo guerriero,
E discorse fra se, che ben non fosse
Di perder cosi nobil cavaliero.
Ma ne la mente un dubbio gli si mosse,
Che ’l fe sospeso alquanto nel pensiero,
Ch’ei sol potea, d’ogn’un più illustre, e degno
Porgli in dubbio ogni dì la sposa e ’l Regno.

Mentre dubbio pensiero ingombra il petto
À chi nacque di Danae, e pioggia d’oro:
E da l’un canto il domina il sospetto
Di non perder il doppio suo thesoro,
Da l’altro il move un virtuoso affetto
Di compiacere al supplicante Moro.
Che non è ben, ch’un vincitore offenda
Un, che si chiami vinto, e che s’arrenda.

Ode, che Fineo alza la voce, e dice
Oime, c’hò fatto, e in là la testa volta.
E mentre anchor pregar vuol l’infelice,
Sente, che più non hà la lingua sciolta.
E toccandogli il collo, e la cervice
Trova, che ’l sasso gli hà la carne tolta,
Anchor tien con le man gli occhi coperti,
È ver, che v’à due diti alquanto aperti.

Ó che fosse la voglia di scoprire
Chi sia colui, ch’à perdonargli essorta,
Ó pur perch’havea voglia di fuggire,
Ma non sapea dove trovar la porta,
Come volle la luce alquanto aprire,
Vide del Re del mar l’amica morta,
E fattosi da se del tutto cieco,
Ogni sospetto tolse al dubbio Greco.

Perseo vittorioso il zaino prende,
E vi ripon la testa infame, e truce,
E lieto à suoi consorti il giorno rende,
Che chiusa insino allhor tenner la luce.
Poi l’amor de la patria si l’accende,
Che seco la consorte vi conduce.
Non và su’l Pegaseo, che s’era sciolto,
Ne sapea dove il vol s’havesse volto.

Seppe per via, che Preto, empio suo zio
D’Argo, e del regno havea tolto il governo
À quel, che più d’ogni altro iniquo e rio
Con la madre il die in preda al mare, e al verno.
Ma l’atto empio, e mortal posto in oblio
De l’avo immeritevole materno,
D’armarsi contra il zio fece disegno,
E l’avo ingiusto suo ripor nel regno.

L’arme non gli giovar, ne la gran forza,
Ch’Argo contra Perseo gia non difese,
Che ’l miser fe di marmo un’ altra scorza,
Come ne l’empio crin le luci intese.
Poi nel mare alternò la poggia, e l’orza,
E ver l’iniquo alunno il camin prese,
Il qual con empio fin gli die consiglio,
Che s’esponesse à cosi gran periglio.

Non fu raccolto Perseo con quel viso,
Che gli parea, che richiedesse il merto,
Anzi quando egli disse, fu deriso
D’haver quel mostro seco, ma coperto.
Diss’ei creder non vuoi, ch’io l’habbia ucciso,
Ma te ne voglio dar pegno più certo,
Subito afferra in man l’horribil’ angue,
E fallo dura selce senza sangue.

Dal dì, che da quest’ isola si tolse
Perseo, per gire à si dubbiosa impresa,
Abbandonar non mai Minerva il volse,
Ma si trovò per tutto in sua difesa.
Come poi ne la patria ei si raccolse,
Havendo ella la mente altrove intesa,
Lascia il fratello, e verso il santo monte
De le figlie di Giove alza la fronte.

Com’ella giunge à l’elevato tetto
Di gemme adorno, e d’artificio, e d’oro,
E vede insieme il bel numero eletto
Del sacro, dotto, e venerabil choro,
Con quella dignitate il suo concetto
Apre à le Dee, che à lei conviensi, e à loro,
E con parole saggie, e grato modo
Cosi disciolse à la sua lingua il nodo.

Di voi talmente in ogni parte suona
La fama prudentissime sorelle,
Ch’à celebrare il monte di Elicona
Tirato havete tutte le favelle.
Ma più d’ogni altra cosa si ragiona
De le nov’acque cristalline, e belle,
Ch’à quell’augello qui far sorger piacque,
Che di Medusa, e del suo sangue nacque.

Del sangue di Medusa egli formosse
In un batter di ciglio, e ’l vidi anch’io.
E poi ch’ in Ethiopia egli involosse
Nascosamente à un fratel vostro, e mio,
La fama m’apportò, che qui voltosse,
E co’l piè zappò in terra, e nacque un rio,
Il più chiaro, il più puro, e ’l più giocondo,
Che fosse mai veduto in tutto il mondo.

Ond’io, che più d’ogni altra veder bramo
Le vostre maraviglie, i pregi nostri,
Che la virtù, che v’orna, ammiro, et amo,
Venuta sono à i dotti ornati chiostri.
E per quel padre, che comune habbiamo,
Vi prego in cortesia, che mi si mostri
La nova fonte, e più d’ogni altra chiara,
E s’altra cosa in questo monte è rara.

Fer le cortesi Dee con lieto volto
Palese à la pudica, e saggia Dea,
Che ’l virginal collegio ivi raccolto
Pronto era à tutto quel, ch’ella chiedea.
E verso Urania ogn’una il ciglio volto,
Che nel Senato allhor tal grado havea,
Tutte con gran rispetto atteser, ch’ella
Fosse la prima à scioglier la favella.

Qual si sia la cagion, ch’al monte nostro
Lieta (le disse Urania) hoggi vi rende
L’acqua, gli antri, le selve, i prati, e ’l chiostro
Quanto il nostro dominio si distende,
Tutto saggia Tritonia, il monte è vostro,
Nulla al vostro desio qui si contende,
Pur dianzi il Pegaseo qui battè l’ale,
E ’l fonte fe, c’hor di veder vi cale.

Nume ne l’alto regno io non conosco,
Che ne potesse ritrovar più pronte.
E s’havrete piacer di venir nosco,
Non sol vi mostrerem la nova fonte,
Ma il tempio, i libri, le ghirlande, e ’l bosco,
Et ogni altro thesor, ch’eterna il monte.
E in un tempo per man la prese, e tacque,
E con l’altre n’andar verso quell’acque.

Sorger la Dea d’un vivo sasso vede
Quel fonte vivo, cristallino, e bello.
Che nacque lì zappando con un piede
Il novo Meduseo veloce augello.
Loda il vaso capace, ù surge, e siede,
Loda il lascivo, e lucido ruscello.
Loda gli antri, le selve, i prati, e i fiori,
E tutti gli altri lor pregi, et honori.

Felice monte, ella soggiunse poi,
Che si dotte sorelle ascolti, e chiudi,
Che fan, che gl’infiniti pregi tuoi
Non restan come gli altri inculti, e rudi.
Degne ben sete Dee del loco voi,
E degno è ’l loco de bei vostri studi.
Voi culto, illustre, e celebre il rendete,
Et ei vi dà il diporto, che vedete.

Ó Dei (rispose allhora una di quelle)
Ben saremmo felici, e in pregio havute,
S’ad opre più magnanime, e più belle
La vostra non v’ergesse alta virtute,
E fra le vostre timide sorelle
Fossero le vostre arme conosciute,
Si che le menti nostre, e caste, e pure
Da l’insolentie altrui fosser sicure.

Il tempio, il fonte, il sito, e l’aere è grato,
Lo studio alto, e divin del nostro carme.
E sarebbe felice il nostro stato
Se voi foste fra noi con le vostr’arme.
Non è mai dì, che qualche scelerato
Contra la nostra castità non s’arme,
Che vedendoci imbelli hà ogn’un coraggio
Di machinarci insidie, e farci oltraggio.

Di Tracia venne in Focide un tiranno
Il maggior non fu mal sopra la terra,
E prese con la forza, e con l’ inganno
Daulia, una populata, e ricca terra.
Non credo, che regnato havesse un’ anno,
Che mosse à le tue suore un’ altra guerra,
E batter le costrinse in aria i vanni,
Per via fuggir da suoi troppo empi inganni.

Andando noi verso Parnaso un giorno
Per porger voto al suo famoso tempio,
N’ingombra tutto il ciel di nubi intorno
Un’ austro, che si leva oscure et empio.
N’invita intanto à far seco soggiorno
Per far di tutte un vergognoso essempio
Questo crudel, che Pirenio nomosse,
Fin, che la pioggia, e ’l giel passato fosse.

Noi, che veggiam d’oscuri nembi il cielo,
E di grandine, e pioggia esser coperto,
Mosse dal minacciato horrore, e gielo,
E da l’invito in quel bisogno offerto,
Tanto, che quell’oscuro, e horribil velo
Havesse à l’atra pioggia il grembo aperto,
Ó volto al nostro cielo havesse il tergo,
Crediam noi stesse al suo non fido albergo.

N’invita intanto il suo pensier malvagio,
Ch’appar nel volto amabile, e modesto
À veder de l’ ignoto à noi palagio
Lo stupendo artificio, ond’è contesto.
E havendo da quel tempo horrido ogni agio
Con parole cortesi, e modo honesto
Seppe far si, ch’à rimirar la pioggia
N’andammo ne la sua più alta loggia.

Ma poi che l’Aquilon chiaro, et altero
Comparse in giostra con il torbido Austro,
E ’l fece con quel nembo oscuro, e nero
Nasconder sotto ’l mar nel noto claustro,
E tutto rallegrò questo hemispero
Lo scoperto del Sol lucido plaustro,
Lui ringratiammo col migliore aviso,
Che san le nostre lingue, e ’l nostro viso.

Ben che ’l Barbaro rio noi conoscesse.
E Clio, Calliope, e me chiamasse Dea;
Non però vidi, ch’ei riguardo havesse
Al divin, che n’eterna, e che ne bea.
Un van desio di noi l’alma gli oppresse,
E perche chiuse già le porte havea,
Cercò di farne forza, e ne convenne
Se volemmo fuggir, vestir le penne.

Battiam veloci, e snelle in aria l’ale,
E lasciam l’empio hostel, cerchiamo il pio.
Lo sciocco allhora, e misero mortale
Non s’accorgendo, ch’ei non era un Dio,
Ne prevedendo il suo propinquo male,
Mosso dal troppo ardente empio desio,
Saltò fuor de la loggia al volo intento,
E fidò ’l corpo suo più grave al vento.

Con la parte celeste al cielo aspira
Per seguir noi l’amante iniquo, e stolto,
Ma la terrea virtù, ch’in terra il tira,
Fà, ch’à l’antica madre ei batte il volto.
Da lui lo spirto in poco tempo spira,
E ver l’inferno và libero, e sciolto,
Del sangue ingiusto havendo il terren tinto
Il corpo, pria che fosse in tutto estinto.

Mentre l’accorta Musa anchor ragiona
De la caduta del crudel tiranno,
À tutte un gran romor l’orecchie introna
Di molti augei, ch’al ciel le penne danno.
Corron per tutto il bel monte Helicona,
Poi volan sopra un faggio, e lì si stanno.
E senza mai tener la lingua muta
Guarda ogni augel Minerva, e la saluta.

Prima, che gli vedesse, ella pensosse,
Ch’un’ huom da l’arbor ragionasse seco,
Quando il saluto pio, che ’l ciel percosse,
Fe l’ idioma suo conoscer Greco.
Minerva ver le Muse il parlar mosse,
Non so se quegli augei ragionin meco,
Che se ’l sapessi, io non rifiuterei
D’aggradir lor d’altri saluti miei.

Guarda d’accordo allhor disser le Muse,
Fà, ch’ad uso miglior la lingua serbe,
Non ascoltar le lor querele, e scuse,
Che non fur donne mai tanto superbe.
Del volto human restar pur dianzi escluse
Essendo anchor d’eta molli, et accerbe
Dal nostro allhor troppo oltraggiato choro
Per l’arrogantia, e per la gloria loro.

Dentro del Macedonico sentiero
Peonia una provincia il volgo appella,
Vi nacque Evippe moglie di Piero,
Ricco, e degno huom de la città di Pella.
Di questa donna, e questo cavaliero
Nacque quell’animal, c’hor ti favella,
Che come io dissi, à ritrovar ne venne
Per arricchire il ciel di nove penne.

Non credo mai, che de la madre alcuna
Più prospera nascesse, e più feconda,
C’havesse nel figliar miglior fortuna,
Che trovasse Lucina più seconda.
Fece una figlia ad ogni nona Luna
Più bella una dell’ altra, e più gioconda,
Tal, che in men di novanta Lune nove
Con gran felicità n’acquistò nove.

Crebbero, e si trovar queste donzelle
Cresciute un canto haver tanto soave,
Che sopra tutte l’altre essendo belle,
E’l lor verso ammirando ogni huom piu grave,
Essendo come noi nove sorelle
La lingua di parole armar sì prave,
Che per tutto d’haver si davan vanto
Di noi maggior dottrina, e miglior canto.

E un dì lasciato à bel studio il patrio tetto,
Venner con grande audacia al sacro monte,
E innanzi il nostro virginal cospetto
Disser con folle, e temeraria fronte.
Trovate altro diporto, altro ricetto,
Che terrem cura noi di questa fonte,
Ch’essendo nel cantar miglior di voi
L’officio vostro hor s’appertiene à noi.

E se tal confidentia in voi si trova,
Che ’l vostro canto sia di voce, e d’arte,
Più soave del nostro, e che più mova,
Ritiriamoci à cantare in qualche parte,
Che vi farem veder per chiara prova,
Che siam migliori in voci, e ’n vive carte,
E siam contente, che le Ninfe unite
Debbian d’accordo terminar tal lite.

Ma con patto però, che se in tal gioco
À l’Amadriadi addolcirem più l’alma,
Che voi n’habbiate à ceder questo loco,
Questa fontana gloriosa, et alma.
Ma quando il nostro canto sia più fioco,
E tocchi à voi di riportar la palma,
L’Emathie selve de la madre Evippe
Contraponiamo al fonte d’Aganippe.

Se bene opra ne par di Dee non degna
Venir contra mortali à tal contesa,
Di gran lunga ne par cosa più indegna,
Che si possan vantar di tanta offesa.
De le Ninfe troviam l’illustre insegna,
Le quai poi, ch’accettata hebber l’impresa,
Per lo stagno giurar fatale, e nero
Dar la sententia lor, secondo il vero.

In un bell’antro un sasso vivo, e forte
D’intorno fa molti honorati seggi,
I primi à premer van le Ninfe accorte,
Come del giudicar voglion le leggi,
L’altre senza servar legge, ne sorte,
Come alcuna in virtù non le pareggi,
Fecer di tutte noi si poca stima.
Ch’occupar la man destra, e cantar prima.

Dà lor l’eletta à cominciar lor canti
Al suon d’un non colpevole istrumento,
In dispregio de Numi eterni, e santi
Die fuora il primo suo profano accento.
Cantò gli horrendi, e perfidi giganti,
E ’l periglio del cielo, e lo spavento.
Tutta contra gli Dei l’horribil guerra
De figli di Titano, e de la terra.

L’empia suo verso ogni sovrano honore
À giganti rendea, tutto in dispregio
Del padre nostro altissimo motore,
E de l’eterno suo divin collegio.
E d’haver dato al ciel maggior terrore
Dava à Tifeo fra gli altri il sommo pregio,
Perch’ei fu, ch’agli Dei tal terror diede,
Che la salute lor fidaro al piede.

E che ogni Dio dal troppo corso afflitto
Perduta nel fuggir tutta la lena,
Raccolto fu dal Nilo, e da l’Egitto,
Che per dar refrigerio à si gran pena,
D’ogni vivanda più prestante al vitto
Apparecchiaro una superba cena,
E come v’ invitaro ogni huom più degno,
Ogni più bella donna del lor regno.

Ma che goder non la poter, che quando
Erano per mangiar, sentir Tifeo,
Che per l’Egitto già gli Dei cercando,
Per dargli al suo flagello ingiusto, e reo.
E che come il sentir, l’un l’altro urtando,
Volle ogni Dio fuggir, ma non poteo:
Ch’essendo già vicin fu à tutti forza
Per salvarsi da lui cangiar la scorza.

Ch’à pena con Tifeo s’udì dir ecco,
Che per l’incomparabil lor paura,
Si fe Giove un montone, e Bacco un becco,
E gir con l’altre bestie à la pastura.
Ch’Apollo anch’ei fe de la bocca un becco,
E tutto si vestì di piuma oscura.
E fatto un corvo lui, Mercurio un Ibi
Volar con le cornacchie, e con gli nibi.

Che visto ciò Giunon temendo anch’ella,
Una cornuta vacca si fe dopo:
La cacciatrice Dea del Sol sorella
Si fe il folle animal, che caccia il topo:
Che l’impudica Dea, non disse bella,
L’onde, che fur sua madre, hebbe per scopo;
E udito l’huom, che de la terra nacque,
Entrò in un pesce, e s’attuffò ne l’ acque.

Ogni calunnia, che trovò maggiore,
Osò dir de gli Dei sommi immortali,
Ne disse pure un verso in lor favore,
Ne come fur dapoi gli Egitij tali,
Che con sommo del ciel pregio, et honore
Ne’ lor tempij adorar molti animali;
Ne come sotto il vello d’un montone
Venerar ne la Libia Giove Ammone.

Ma ogn’un, che la risposta havesse intesa,
E di Calliope la dottrina, e l’arte,
E come hebbe l’honor di questa impresa,
E la pena, che n’hebbe l’altra parte,
Sapria, che chi con noi prende contesa
Nel canto, con honor non se ne parte.
Ma forse non hai tempo d’ascoltarmi,
Ch’io farò udirti i suoi più dotti carmi.

Anzi te’n vò pregar (la Dea rispose)
Ch’io bramo un tempo far con voi soggiorno,
E goder queste belle selve ombrose,
Fin che passi il calor del mezzo giorno.
E fia ben, che sù l’erba si ripose
Ciascuna à guisa, di theatro intorno,
Ch’io spero di goder con questo aviso
D’una il dotto parlar, di tutte il viso.

Poste à seder nel bosco ombroso, e santo,
Cosi la Musa il suo parlar riprese
Poi che Calliope hebbe da noi co’l canto
Cura di terminar le liti prese;
Tolse la dotta cetra, e tirò alquanto
Hor questa, hor quella corda, insin ch’intese
Da più d’un lamentevol lor ricordo,
Che tutte le sorelle eran d’accordo.

Percote hor solo un nervo, hor molti insieme
La destra, e molto hor fa veloce, hor lento,
E ’l nervo hor sol se ne risente, e geme,
Hor fa con gli altri il suo dolce lamento.
La manca trova à tempo i tasti, e preme,
E con l’acuto accorda il grave accento.
Et ella al suon, ch’ in aria ripercote,
Concorda anchor le sue divine note.

Prima Cerere à l’huom la norma diede,
Onde co’l curvo aratro aprì la terra.
Prima gli fe conoscer la mercede
Del seme, se con arte il pon sotterra.
Prima le leggi die d’amore, e fede
Da viver senza lite, e senza guerra.
Prima die à l’huom la più lodata spica,
À l’alimento suo si dolce amica.

Questa cantare intendo, e piaccia à Dio
Di dare il canto à me si pronto, e certo,
Ch’agguagli di prontezza il gran desio,
De la Dea di certezza agguagli il merto.
Che se sarà si chiaro il canto mio,
Che quel, c’hò dentro al cor, mostri scoperto,
Farò veder, che fra gli eterni Dei
Tocca del sommo honor gran parte à lei.

Poi che dal divin folgore percosso
Tifeo cadde anchor vivo in terra steso,
Giove, perch’ ei da troppo orgoglio mosso,
Il Cielo havea di mille ingiurie offeso,
Gli pose la Sicilia tutta adosso,
Perche gravato dal soverchio peso,
Stesse in eterno in quel sepolcro oscuro,
Per fare il Ciel dal suo terror sicuro.

La destra ver l’ Italia del gigante
Stà sotto al promontorio di Peloro.
La manca, ch’è rivolta in ver Levante,
Pachino aggrava un’ altro promontoro.
Sostengon Lilibeo l’ immense piante
Che guarda fra Ponente, e ’l popol Moro.
Etna gli preme il volto, et è quel loco,
Onde anchor resupino essala il foco.

L’altier gigante, che gravar si sente
Dal peso, che sostien la carne, e l’ossa,
Con ogni suo poter se ne risente,
E dà talhor si smisurata scossa,
Che ’l terremoto la terra innocente
Apre, e fa si profonda, e larga fossa,
Ch’ inghiotte dentro à regni infami, e neri
I palazzi, le terre, e i monti interi.

Vede una volta il Re de le mort’ombra
Tutto intorno tremar ciò, ch’è sotterra,
E che per tema ogni empia Erinni, ogn’ ombra
Cerca fuggir del cerchio, che la serra.
Subito tal paura il cor gl’ingombra,
Che teme, che la troppo aperta Terra
Non inghiotta l’inferno, e chi v’è dentro
Più basso s’esser può, che non e ’l centro.

Dapoi, che ’l terremoto venne meno
Lo sbigottito anchor Re dell’lnferno
Fà porre à neri suoi cavalli il freno,
Monta su’l carro, e lascia il lago averno,
E subito, che scorge il ciel sereno,
Splender vede in Sicilia un foco eterno,
Ei tien, che ’l terremoto habbia per certo
Fin dentro il regno suo quel monte aperto.

Vavvi, et ode, che ’l foco, ch’ ivi splende,
È ’l fiato d’ ira acceso di Tifeo.
Onde intorno à veder l’isola intende,
Per saper s’altro mal quel moto feo.
E quando danno alcun non vi comprende,
Tornar pensa ov’ei crucia il popol reo;
Ma nel girar ch’ei fe, cosa gli avenne,
Che ’l suo camino alquanto gli ritenne.

Ne la Sicilia un monte Erice è detto,
Dove è sacrato un tempio à Citherea,
Quivi la bella Dea stando à diletto,
Co’l suo dolce figliuol, ch’in braccio havea,
Vede il Signor del tenebroso tetto
Guardar, se la gran machina Tifea
Fatt’hà qualche voragine in quel sito,
Che torni in danno al regno di Cocito.

Venere, c’havea ogni hor la mente accesa
Di crescere à se nome, imperio al figlio,
Proserpina vedendo essere intesa
À corre, e à inghirlandar la rosa, e ’l giglio,
Le cadde in mente un’honorata impresa,
E volse ver Cupido il lieto ciglio,
Et accennando in questa parte, e ’n quella,
Gli fe veder Plutone, e la Donzella.

Era anchor una tenera fanciulla
Colei figlia di Cerere, e di Giove,
Hor mentre coglie i fiori, e si trastulla,
Cosi il parlar la Dea verso Amor move.
La tua potentia ogni potentia annulla
Nel cielo, e ne la terra, eccetto dove
Regna colui, c’hor qui ti vedi à fronte,
Il quale è Re del regno d’Acheronte.

Già tre parti si fer di tutto il mondo.
Costui per Re la terza parte osserva.
Tu acquisti il Re del regno più profondo,
Se fai lui tuo soggetto, e lei tua serva.
Tu vedi ne l’ imperio alto, e giocondo
La guerra, che ci fa Delia, e Minerva.
Tal, che s’habbiam nel ciel perduto in parte,
È ben, che ci allarghiamo in altra parte.

Prendi dolce amor mio, quell’alme prendi,
(Non ci perdiam si aventurosa sorte)
Onde et huomini, e Dei sovente accendi,
E fai soggetti à la tua altera corte.
Stendi à l’ inferno anchor l’ imperio, stendi,
E fa del zio Proserpina consorte.
Fatti soggetti anchor gl’inferni Dei,
Tu vedi qui Pluton, lì vedi lei.

L’ale il lascivo Amor subito stende,
E trova l’arco, e la faretra, e guarda,
E fra mille saette una ne prende,
Più giusta, più sicura, e più gagliarda.
E che talmente il volo, e l’arco intende,
Ch’ogni sorella sua fà parer tarda,
Et aguzzato il ferro à un duro sasso,
Ferma co’l piè sinistro innanzi il passo.

Lo stral nel nervo incocca, e insieme accorda
E la cocca, e la punta, e l’occhio à un segno:
Poi con la destra tira à se la corda,
E con la manca spinge innanzi il legno.
La destra allenta poi, lo stral si scorda,
E contra il Re del tenebroso regno
Fendendo l’aria, e sibilando giunge,
E dove accenna l’occhio il coglie, e punge.

Stà non lontan dal monte, ond’esce il foco
Di prati un lago cinto d’ogn’intorno,
Con fiori di color di minio, e croco,
D’ogni splendor, che far può un prato adorno.
Ma quei, che fan più vago il nobil loco,
I boschi son, che dal calor del giorno
Difendon quei bei prati d’ogni banda,
E fanno intorno al lago una ghirlanda.

Hà di Pergusa il nome il lago, dove
Con altre vaghe, e tenere donzelle
La vergine di Cerere, e di Giove
Tessea le vaghe sue ghirlande, e belle.
Quivi cercò come havea fatto altrove
Quel, che dà legge à l’ombre oscure, e felle,
Per veder se Tifeo fatto ivi havesse
Danno, ch’al Regno suo nocer potesse.

E poi, che danno alcun non vi comprese,
Pensò tornare al suo scuro ricetto,
Ma nel girar del carro i lumi intese
In quel leggiadro, anzi divino aspetto.
In tanto contra Amor l’arco gli tese,
E come io dissi, il colse in mezzo al petto,
E passò il colpo si dentro à la scorza,
Che ei senza altro pensar venne à la forza.

La tenera fanciulla, et innocente
Tutta lieta cogliea questo, et quel fiore,
E quinci, e quindi havea le luci intente,
Correndo à quei, c’havean più bel colore.
Quest’era il maggior fin de la sua mente,
D’haver fra le compagne il primo honore.
In tanto il novo amante, ch’io vi narro,
L’afferrò un braccio, e la tirò su’l carro.

Ella, che tutto havea volto il pensiero
À le ghirlande, e à fior, come si vede
Prender da quel cosi affumato, e nero,
Stridendo à le compagne aiuto chiede.
Plutone intanto al suo infernal impero
Gl’infiammati cavalli instiga, e fiede.
Chiama la mesta Vergine in quel corso
Più d’ogni altra la madre in suo soccorso.

E volendo appigliarsi per tenersi
À un legno con le man, vede, che cade
Il lembo de la veste, e i fior diversi
Tutte adornar le polverose strade:
E in tal semplicità lasciò cadersi
L’affetto de la sua tenera etade,
Che de caduti fior non men si dolse,
Che del ladron, ch’à forza indi la tolse.

Inteso il Re de l’Orco al suo contento
Poi, che su’l carro tien l’amate some,
Fa sovente scoppiar la sferza al vento,
E questo, e quel caval chiama per nome.
E grida, e fa lor’ animo, e spavento,
E scuote lor le redine, e le chiome.
Strid’ella, e volge à le compagne il viso,
Che corrano à la madre à darne aviso.

Ma strider ben potea, che si discosto
Da l’altre il Re infernal trovolla, e prese,
Et elle havean tanto il pensier disposto
À fiori, e tanto in lor le luci intese,
Et ei fe il carro suo sparir si tosto,
Che di tutte una non la vide, ò intese,
E già calava il Sol verso la sera
Quando tutte s’accorser, che non v’era.

Passa Pluton sul suo carro veloce
Vicino à gli alti di Palico stagni,
Dove l’odor solfureo à l’aria noce,
Ch’essala fuor di quei ferventi bagni,
Ne si cura di lei, ch’alza la voce,
Ma lascia, che si doglia, e che si lagni,
Giunge poi dove appresso à Siracusa
Sorge il famoso fonte d’Aretusa.

Da quel sorge non un’altra fonte,
V’è chi dal nome suo Ciane l’appella,
Ninfa, che l’hà in custodia à piè del monte,
Che preme di Tifeo la manca ascella.
Costei tenendo allhora alta la fronte
Fuor di quell’acqua cristallina, e bella,
Vide portar con violentia altrove
Colei, ch’uscì di Cerere, e di Giove.

E de la madre amica, e de l’honesto
Al Re de l’Orco attraversò la strada,
E disse con un volto acro, e molesto,
Non passerai per questa mia contrada,
Che pria non lasci il furto manifesto.
E se pur questa vergine t’aggrada,
Dei Cerere pregar, che te la dia,
E non torla per forza, e fuggir via.

Farsi genero alcun mai non dovrebbe,
Se ’l socero à restar n’havesse offeso,
E s’uno à le gran cose agguagliar debbe
Le picciole, anche Anapo restò preso
Di me, qual tu mi vedi, e sposa m’hebbe,
Ma ben con modo honestamente inteso.
Cosi dicendo stende ambe le braccia,
Et à cavalli suoi grida, e minaccia.

Temendo il Re del tenebroso inferno,
Che l’Amadriade, e i Fauni, e le Napee,
E quelle, che del mare hanno il governo,
Et altre assai de le dolci acque Dee
Non concorrano à fargli danno, e scherno
Prima, che torni à l’ombre ingiuste, e ree,
Batte la Terra, e le comanda poi,
Che s’apra fin’ al centro, e che l’ingoi.

Obedisce la Terra al suo tiranno,
E la strada apre, ch’ à l’inferno il mena,
Et ei sferza i cavalli, e quei vi vanno
À roder lieti l’infernale avena.
Con dolor, con angoscia, e con affanno
Resta, colei ne l’oltraggiata arena,
E può l’ira, e ’l dolor nel suo cor tanto,
Che più, che v’ha il pensier, più cresce il pianto.

Stillar fa in acqua l’uno, e l’altro lume
La grand’ira, e ’l dolor ch’ange la mente,
E ne l’onde medesme, ond’era nume,
À poco, à poco liquefar si sente,
Tal, che fà di se stessa un picciol fiume,
Il piede è già tutt’acqua e solamente
Si tien anchora un poco il nervo, e l’osso,
Se ben non è si duro, ne si grosso.

Piegato havreste qual tenera verga
L’ossa, che non ster molto à liquefarsi,
Ne membro v’ha, che l’acqua no’l disperga,
Ogni poco, che dentro osa attuffarsi,
Di questa, e quella man, ch’entro v’alberga,
I diti son nel fonte in fonte sparsi,
Visibil restav’ ancho il volto, e ’l petto,
Ma assai trasfigurato ne l’aspetto.

Perche fur prime le sue chiome bionde
À la fontana à far più colmo l’alvo,
Che cadder di ruggiada in mezzo à l’onde,
E le lasciaro il capo ignudo, e calvo,
Al fine il petto, e ’l volto anch’ei si fonde
In acqua, e membro in lei non resta salvo,
E dove pria fu de le linfe Ninfa,
Si fece poi de l’altre Ninfe linfa.

Quando tornar la madre non la vede
La sera in compagnia de le donzelle,
La qual con tutte ne ragiona, e chiede,
E non è, chi ne sappia dir novelle,
Move per tutto il doloroso piede,
Cercandola hor co’l Sole, hor con le stelle,
Fà poi con alte, e dolorose strida
Palese il gran dolor, che in lei s’annida.

L’Aurora già di ruggiadoso humore
Sparsa l’arida terra havea due volte,
Et altrettanto il Sol co’l suo splendore
Havea tutte à i mortai le stelle tolte.
Due volte anchor nel tenebroso horrore
L’alme città la notte havea sepolte
Co’l manto suo caliginoso, e nero,
Del nostro, e de l’Antartico Hemispero.

Quando per tutta la Trinacria havendo
Cercato, senza haverla mai trovata,
E fuor del suo costume non essendo
À l’infelice albergo mai tornata;
Congiunse i draghi horribili piangendo
Al carro, in tutto afflitta, e disperata.
Ma due gran Pini pria nel monte Etneo
Accese ne le fiamme di Tifeo.

Dapoi, c’hebbe la Dea le faci accese,
Montò su’l carro, e diede i draghi al volo,
E vide ( in tanto ciel le penne stese )
L’Hibero, il Gange, e l’uno, e l’altro Polo.
Benche più, che cerconne, men n’intese;
Le mancò la speranza, e crebbe il duolo;
E ’n boschi, antri, palazzi, e ’n ogni loco
Entrò quando co’l Sol, quando co’l foco.

Al fin da la stanchezza, e da la sete
Vinta, co’l carro in una selva scende,
Lega gli stanchi draghi ad uno abete,
E l’occhio, e ’l piè verso un tugurio intende.
E d’acqua desiosa, e di quiete,
Co’l piè la bassa porta alquanto offende.
Una vecchia vien fuor, ch’ode picchiarla,
E la Sicana Dea cosi le parla.

Se chi può, quelle spighe faccia d’oro,
Che concede la terra à la tua sorte,
E renda gli anni tuoi, come già foro
Lieti, e robusti, e te vivace, e forte;
Dà con un poco d’acqua alcun ristoro
À queste membra stanche, afflitte, e morte:
Ristora quell’humor, che ’l Sol m’ ha tolto,
E fatto nel camin piover dal volto.

Non havea anchor la Dea fermato il detto,
Che la cortese vecchia, benche lenta,
Mossa da la pietà, dal santo aspetto,
Cercò farla restar di se contenta.
E del vin, che nel suo povero tetto
Teneva, e d’una rustica polenta,
C’havea per uso suo fatta pur dianzi,
Con fede, e con amor le pose innanzi.

Il palato la Dea sente si asciutto,
Et ha di ristorar sete si grande
L’afflitto corpo da l’ardor distrutto,
Che poco havendo à cor l’altre vivande,
Dal vaso terreo il vin si beve tutto,
E poi de l’altro vin da se vi spande.
Poi getta dentro al vin le spighe cotte,
E ’l vino, e l’orzo ingordamente inghiotte.

Un fanciullo era lì soverchio ardito,
Anzi secondo il suo stato impudente,
Ne visto havendo mai si bel vestito,
Ne fronte si divina, e risplendente,
Stava à mirarla attonito, e stordito,
Vistola poi mangiar si ingordamente,
Rise, e guardò la vecchia, et additolla,
E troppo ingorda, et avida chiamolla.

E seguitando il suo dispregio, e riso,
Fu forza, che la Dea si risentisse,
E quella zuppa gli aventò nel viso,
E con grand’ira, e gran disdegno disse.
Perche non sia da te più alcun deriso,
Io vo, che porti eternamente affisse
Queste vivande, onde mi spregi tanto,
Per nota del tuo ardir sopra il tuo manto.

Tutto gli macchia il vino, e ’l grano il volto,
E in un momento tutto il corpo abbraccia:
Si fan d’un’ animal breve, e raccolto
Due gambe picciolissime le braccia.
Non dal Ramarro differente ha molto
Il corpo, i piedi, e la coda, e la faccia.
È più picciolo assai, di stelle pieno,
Et ha, ma non mortal qualche veneno.

Vien detto Stellion da molte stelle,
Che ’l manto cosi vario gli han composto,
E che gl’impresser sopra de la pelle
Per uno sdegno la polenta, e ’l mosto.
Piange l’afflitta vecchia, e guarda quelle
Membra fatte si picciole, e si tosto:
Vorria toccarlo, e teme, e non sà donde
Debbia afferrarlo, et ei fugge, e s’asconde.

La Dea ritorna à draghi, e in aria poggia
Sotto il torrido cerchio, e sotto il gielo:
Vede ove il Sol si leva, e dove alloggia,
L’huom di quanti colori hà il mortal velo.
Non teme Sol, ne grandine, ne pioggia,
Ne il troppo freddo, o ’l troppo ardente cielo.
E tanto in giro andò di tondo, in tondo,
Che per troppo cercar le mancò il mondo.

Al fin torna in Sicania, e guarda dove
Stava cogliendo i fior con le compagne.
Quivi non la ritrova, e cerca altrove,
E tutti scorre i boschi, e le campagne.
Al fin verso quel fonte il passo move,
Che ’l torto di Pluton continuo piagne:
L’havria ben Ciane allhora il tutto detto,
Ma le mancava il suon, la lingua, e ’l petto.

E non potendo più con quelle note,
Onde à Pluton gridò, scoprir la mente:
Dà quegli inditij à lei, che dar le puote,
Come la nova sorte le consente.
Mentre spinse Pluton l’avare rote,
Co’ fior cadde à la vergine innocente
Una cintura, dove il fonte nacque,
E questa Ciane le mostrò sù l’acque.

Come la madre sconsolata vede
La pretiosa fascia, e in man la piglia,
Come le faccia indubitata fede,
Che cadde nel fuggir, che fe la figlia,
Il tristo, et innocente petto fiede,
E l’inornate chiome si scapiglia:
E stride, e fa sentire i suoi lamenti
Con questi afflitti, e dolorosi accenti.

Malvagia terra, e di quei frutti indegna,
Ond’ho fatti i tuoi campi alteri, e lieti.
Onde ridotta t’ ho fertile, e pregna
Da le nobili biade, che tu mieti.
Ahi quanta ingratitudine in te regna,
Dapoi, che non t’opponi, e che non vieti
À chi danno, et ingiuria mi procaccia
Con ogni tuo poter, ch’egli no’l faccia.

Io cerco di giovarti più, ch’io posso,
D’ornarti d’ogni pregio, e d’ogni honore;
Per porti un ricco, e vago manto adosso,
Varia l’herba ti dò, la spiga, e ’l fiore:
Tu poi vedi un contra il mio sangue mosso,
Che la mia figlia toglie, anzi il mio core,
E beneficio tal posto in oblio,
Tu ’l soffri, e non ti cal del danno mio.

Ne mi puoi dir di non l’haver veduta,
Ch’ecco la sua cintura, ecco qui il pegno,
Ch’ in questa parte è nel fuggir caduta
Quando rapita fu da questo regno.
Che non mi dici almen, perche stai muta,
Dov’ha l’involator drizzato il legno?
Come ha passato il mare, et à che volta,
Come ha nome il ladron, che me l’ha tolta?

Sicania più d’ogni altra empia contrada,
Ingrata, e degna, d’ogni gran supplicio
Terra non v’è, per cui la miglior biada
Facesse mai più liberale ufficio:
E tu soffristi, che per questa strada,
Scordata di si raro beneficio,
Fosse condotta misera, e infelice,
La figlia de la tua benefattrice.

E per farmi maggior l’onta, e l’offesa,
Al desiderio mio muta ti stai,
Non vuoi dir dove sia, chi l’habbia presa,
Anchor, che certa io sia, che ’l tutto sai.
Già mai maggiore ingiuria non fu intesa
Di quella, che m’hai fatta, e che mi fai.
Ma di quella mercè sarai pregiata,
Che si conviene à la tua mente ingrata.

I curvi aratri, e i vomeri lucenti,
I rastri, e gl’istrumenti d’ogni sorte,
Tutti rompe, e distrugge, e gl’innocenti
Huomini, et animai condanna à morte.
Comanda poi, che sterile diventi
Il fertil campo, e frutto non apporte
À chi il seme in deposito gli crede,
E manchi de l’usura, e de la fede.

La Sicilia le biade alte, e superbe
Non rende più, che Cerere non vole,
Le secca, se talhor crescono acerbe
Hor troppo lunga pioggia, hor troppo Sole.
Vedi il seme marcir, seccarsi l’herbe,
E restar le campagne ignude, e sole.
Vi corron, s’altrui sparge in terra il seme
Tutti gli augei del mondo uniti insieme.

La terra, non più matre, anzi matrigna,
Ogni herbaggio nutrisce infame, e strano,
E fà, che ’l seme buon manca, e traligna,
E diventa di nobile villano.
Fà, che l’inespugnabile gramigna,
E che ’l loglio, e la vecchia affoghi il grano.
Se la pioggia il corrompe, il Sole il coce,
La terra, il foco, e l’acqua, e ’l ciel li noce.

La fonte allhor, che fu prima Aretusa,
Che sà chi tien la figlia, e dove, e come,
Alza da l’onde Elee la testa infusa,
Dal volto allarga poi l’humide chiome.
E come meglio sà, la terra scusa,
Per lei sgravar da si dannose some,
E stando fuor de l’acqua insino al petto,
Cerca mover la Dea con questo affetto.

Ó de le biade santa genitrice,
E di quel viso angelico, e giocondo,
Che del mar ricercando ogni pendice,
Trovata anchor non hai, ne in tutto ’l mondo;
Rendi à la terra misera, e infelice
Il manto, come havea lieto, e fecondo,
Ch’al furto de la figlia, che t’addoglia,
Aperse il tristo sen contra sua voglia.

Non da l’amor de la mia patria spinta
Ti prego, essorto, e supplico per lei,
Ch’io nacqui in quella Grecia, che vien cinta
Da Corinto, e dal mar ne’ campi Eliei;
Ma ben dal giusto, e da l’honesto vinta
Ti ricordo, che fai quel, che non dei.
Che togli à questa terra i pregi sui,
E la vieni à punir del fallo altrui.

Non per la patria, ò mio proprio interesse,
Ti cerco far ver la Sicilia humana,
Ch’anchor, ch’ io irrighi la Trinacria messe,
Io son qui forestiera, e non Sicana.
Che fur le membra mie da prima impresse
Ne’ campi Elei, dov’io nacqui Pisana,
Benche quest’isola ami à quella guisa,
Ch’ amai la patria Elea vivendo in Pisa.

E s’io scorgessi in te più lieta fronte,
E tu havessi diletto d’ascoltarme,
Ti conterei, come io mi sparsi in fonte,
E come venni in queste parti à starme.
Basta per hor, che la ragion ti conte,
Ch’ in favor de la terra ha fatto armarme.
E s’io troverò in te l’usata pieta,
Tu la tua patria, et io farò te lieta.

Sappi, che queste fresche, e limpid’onde,
Che surgon qui nel tuo Sicanio lito,
Non nascon ne le tue fertili sponde,
Ma ben nel primo mio materno sito.
Quivi il terren m’inghiotte, e mi nasconde,
E mena per lo regno di Cocito,
Là dove lascio l’ombre oscure, e felle,
E qui risorgo à riveder le stelle.

Hor mentre sotto il mar per molte miglia
L’onde nascoste mie conduco meco,
Io veggio tutta l’infernal famiglia,
E ciò, che fan nel piu profondo speco.
E fra gli altri ho veduta la tua figlia,
Ma Regina del regno opaco, e cieco,
Ma, che comanda à l’ infernal magione,
Ma Dea de l’Orco, e moglie di Plutone.

Si che non sol non dei pianger si forte,
D’haver per maggior ben perduta lei,
Ma, ch’ella habbia acquistato un tal consorte
Mi par, che molto rallegrar ti dei.
Hor qual potea maggior ritrovar sorte?
Qual maggior nobiltà fra gli alti Dei?
S’ella chiama marito il Re notturno,
Giunon cognata, e socero Saturno?

Come la madre addolorata sente
Di Proserpina sua l’inferno honore,
Resta si stupefatta de la mente,
Dal novo sopragiunto dolore.
Ch’assembra un marmo, e come si risente,
Da l’ira stimulata, e dal furore,
Verso i superbi draghi il camin tenne,
E dritto al ciel fe lor batter le penne.

E co’l crin scapigliato, hirto, et incolto
Si fermò innanzi al tribunal di Giove.
E di lagrime sparso havendo il volto,
Che ’l continuo dolor distilla, e piove;
Poi che lo spirto alquanto have raccolto,
Cosi la voce articolata move.
Giove de gli alti Dei Signore, e padre,
Ascolta questa addolorata madre.

Io vengo al tuo sublime tribunale,
Ó de gli eterni Dei superno Dio,
Non già per accusar, ne per far male
Altrui, per odio, ò vendice desio.
Non, perche ’l tuo giudicio universale
Punisca l’offensor del sangue mio,
Non per dir, c’hoggi ogn’uno empio, e profano
Osa nel sangue tuo stender la mano.

Di questo io lascerò cura à colui,
Che debbe provedere al comun danno,
Ch’io non porto odio, e inimicitia altrui,
Se bene in me la forza usa, e l’inganno.
Tu sai pur quale io son, qual sempre fui,
E quanto m’affatichi tutto l’anno,
Per provedere i frutti più pregiati
Tanto à gli honesti, e pij, quanto à gl’ingrati.

Non ho la mente si malvagia, e ria,
Che m’apporti contento l’altrui doglia,
Ma cerco, che ragion fatta mi sia,
Che dal tuo tribunal non mi si toglia,
Che donna io sia de la fortuna mia,
Poi che v’è chi per forza me ne spoglia,
Rendasi à me quel, che mi s’appartiene,
E ’l ladro, e ’l malfattore habbia ogni bene.

La mia figlia infelice, ch’io perdei,
Anzi la tua da me cercata tanto,
La figlia, che di te già concepei,
Che fu creata dal tuo Nume santo;
Fra gli spirti hor si stà dannati, e rei,
Nel regno de le tenebre, e del pianto,
Trovata l’ho ne l’infernal deserto,
Se trovar si può dir, perder più certo.

Se trovar si può dir saper dov’ella
Per forza stà, senza poterla havere.
Pluton rapì la misera donzella,
Fuor del rispetto tuo, fuor del devere.
Hor non ti dimando altro, che d’havella,
Come prima l’havea nel mio potere.
Che starà tanto meglio al mio governo,
Quanto è più ben nel ciel, che ne l’inferno.

Sol questo à te nel tuo santo collegio
Chiedo, non men per me, che per te stesso,
E se ’l mio sangue non t’ è punto in pregio,
Movati il sangue, ond’hai quel parto impresso.
Non disprezzar del cielo il germe regio,
Anchor che fosse il mio vile, e dimesso;
Deh se mover no’l può l’afflitta madre,
Mova la figlia almen l’offeso padre.

Fà dunque come Dio giusto, e clemente,
Ch’un prego honesto, e pio non sia schernito,
Che ’l celeste giudicio non consente,
Ch’alcun debbia goder d’un ben rapito.
E la pietà non vuol, ch’una innocente
Figlia uno involator chiami marito.
Se tal ragione ogni giudicio move,
Ben mover dè per la sua figlia Giove.

L’imperador del sempiterno regno
Con dolce occhio guardò la dolce amica.
E d’havere in memoria le fè segno
La grata lor benevolentia antica.
Comune è questa ingiuria, e questo pegno,
Comune è la vendetta, e la fatica,
Rispose poi, comune è il suo cordoglio;
Ma dà l’orecchie à quel, che dir ti voglio.

Se noi vogliam considerare il vero,
Può dirsi allhora ingiurioso oltraggio,
Che l’ ingiuria è nel fatto, e nel pensiero,
E qui bisogna haver l’occhio al coraggio.
S’un tragge in alto un sasso, e un cavaliero
Percote giunto à caso in quel viaggio,
S’ in mente il trahitor non ha l’ inganno,
Ingiuria non gli fa, ma gli fa danno.

D’oltraggio io non saprei dannar Plutone,
Di danno si nel pegno amato, e fido,
Ch’ei non v’andò con questa intentione,
E lo sforzò la face di Cupido.
Anzi io sarei di ferma opinione
Di dar Regina al sotterraneo lido,
E consorte à colui la nostra prole,
Che ’l terzo tien de l’universa mole.

Io ’l ciel, Nettuno il mar, quel regno hav’ello,
Che de gli altri è più immobile, e più forte,
Ne sdegnar ci dobbiam genero havello,
Poi che nel mondo ci tien la terza corte,
Et è mio, come sai, minor fratello,
Ne d’altro cede à me, che de la sorte,
E questo furto, s’un vi pon ben cura,
Non è danno, ne ingiuria, ma ventura.

Ma se pure il desio, che ti conduce,
Cerca disfar questo connubio à fatto,
Ritornerà Proserpina à la luce
Per sententia del ciel con questo patto;
Se nel paese de l’infernal duce
Non ha del cibo al gusto satisfatto:
Ma non se i frutti Stigij ha già gustati,
Che cosi voglion de le Parche i fati.

Era l’irata Dea disposta in tutto,
Di dar la figlia al ciel, torla à l’inferno,
Ma non vollero i fati, che già un frutto
Gustato havea contra il decreto eterno,
L’havea il sudor tanto il palato asciutto,
Che ritrovando nel giardino Averno
Molti pomi granati, ne prese uno,
E ruppe prima il pomo, e poi il digiuno.

Orfne già piacque al torbido Acheronte,
La qual Naiade fu de le mort’acque,
Ninfa la giù di non ignobil fronte,
E ’n quei scuri antri al fin con lei si giacque.
Di questa donna Stigia, e questo Fonte
Ascalafo nomato un figlio nacque,
Costui mangiar la vide, e al Re notturno
Accusò la nipote di Saturno.

Non pensò allhora Ascalafo all’errore,
Che ’l corvo fe, ne à quel, che gl’intervenne,
E perch’ei fu cagion, ch’à lo splendore
Del più lodato regno ella non venne,
Sdegnò la Dea del tenebroso horrore,
E tutto il fe vestir di smorte penne,
E gli fe, in quel, che l’ammantar le piume
Più picciolo ogni membro eccetto il lume.

Fece del molle labro un duro rostro,
Curvo, e d’augel, che viva de la caccia,
Fa, che fra gli altri augei rassembra un mostro
La grande, altera, e stupefatta faccia.
Non move avezzo ne l’ infernal chiostro
Di giorno à volo mai l’ inerti braccia.
Si fece un Gufo, e anchor suo grido è tale,
Ch’ovunque il fa sentir predice il male.

Non è chi sia nel mondo peggio visto
D’un, che rapporta ciò, che sente, e vede,
Ne più dannoso, e scelerato tristo,
Senza amor, senza legge, e senza fede.
Tal che s’ei fè di quelle penne acquisto,
Conforme al merto ottenne la mercede,
Cosa, che non avenne à le Sirene,
Ch’in peggio si cangiar per oprar bene.

Che come è ver le virtuose, e belle
Sirene in questa parte il bene opraro,
Fur tre gratiosissime sorelle,
Figlie al fiume Acheloo, che si trovaro
Cogliendo i fior con molte altre donzelle,
Quando l’eterne tenebre involaro
La figlia di colei, ch’anchor commove
Con pianto, e con parole il cielo, e Giove.

Ogni parte cercar, ch’ ingombra il mondo
Queste afflitte sorelle per trovarla,
Volean ne l’aria gir, nel mar profondo
Fra i pesci, e fra gli augelli à ricercarla;
Ma ritrovar che ’l lor terrestre pondo
Impedia lor la via da seguitarla,
E fatto à gli alti Dei di questo un voto,
Benigni à lor donar le penne, e ’l nuoto.

Tosto questo, e quel piè si fan di pesce
Due code atte à notar ne’ fusi sali.
Ne l’una, e l’altra man la piuma cresce,
E fansi ambe le braccia due grand’ali.
Il viso sol del suo splendor non esce
Per non privar del lor canto i mortali.
Fur si felici, e nobili nel canto,
C’havean per tutto il mondo il grido, e ’l vanto.

La cercar poi fra i pesci, e fra gli augelli,
Volar per l’aria, e s’attuffar nel mare,
Ne fra gli spirti apparse aerij, e snelli,
Ne fra l’alme, che ’l mar suole informare.
Perch’ella fra i demonij oscuri, e felli,
La madre innanzi à Giove era à pregare,
Che non facesse il suo santo decreto
La sorella scontenta, e ’l frate lieto.

Dal Re del più felice alto soggiorno
Le liti al fin fur giudicate, e rotte,
Fra lei, ch’anchor piangea l’havuto scorno,
E fra il rettor de le tartaree grotte,
E fe, che stesse fuor sei mesi al giorno,
Sei mesi dentro à la perpetua notte
Proserpina, hor fra lor l’anno hà partito,
E si gode hor la madre, hora il marito.

Rallegraro à la Dea l’interna mente
Le nozze, e la vittoria, e divenne aviso,
L’occhio rasserenato, e risplendente,
E la grata favella, e ’l dolce riso.
Cosi tal’hor le nubi al più lucente
Lume del ciel fan tristo, e oscuro il viso,
Ma poi s’ei scaccia il nembo horrido, e folto,
Mostra il cor vincitor nel lieto volto.

In terra vien dallo stellato monte
Co’l rallegrato cor, co’l primo honore,
E và lieta à trovar l’amica fonte,
Che conoscer li fe l’involatore.
Deh di novo Arethusa alza la fronte,
E come ti stillasti in questo humore,
Conta (la Dea le disse) e fammi note
Le tue fortune, e le tue dolci note.

Restan di mormorar le lucid’onde,
Et ella mostra fuor l’infusa faccia,
La verde chioma poi, che ’l viso asconde,
Di quà, di là fin’ à l’orecchie scaccia.
Poi con gran maestà cosi risponde.
De la Vergine Dea, ch’ama la caccia,
Io fui già Ninfa, e ne l’Achivo lido
Havea fra le più belle il vanto, e ’l grido.

Ninfa in Grecia non fu, che conoscesse
Meglio le selve, i piani, i monti, e i passi;
Neé che le reti meglio vi tendesse,
Ne che movesse più veloci i passi.
Le leggi nel mio cor di Delia impresse
Non soffrian, ch’à fin rio l’alma io voltassi,
Ma scacciato ogni fine infame, et empio,
Sol cercava di lei seguir l’essempio.

E dove ogn’ altra Ninfa altera andava,
S’altrui la sua beltà fea maraviglia:
Io se la forma mia qualchun lodava,
Per vergogna tenea basse le ciglia.
E se talhor qualchun mi vagheggiava,
La guancia à un tratto si facea vermiglia,
E cosi rozza in questa parte fui,
Che vitio mi parea piacere altrui.

Tornando lassa da la caccia un giorno
Sola, che le compagne havea lasciate,
Veggio di pioppi, e salci un fiume adorno
Ambe le sponde, e d’ombre amene, e grate.
Solo era il loco, e ’l Sol girando intorno
Su ’l carro havea la perigliosa State,
E ’l faticoso di cacciar diletto
Di doppia state ardea lo stanco petto.

Quel fiume Alfeo si chiaro era, e si mondo,
E senza mormorar gia cosi lento,
Che si potea contar nel maggior fondo
L’arena, ogni suo gran d’oro, e d’argento.
Era infocato in ogni parte il mondo,
Spirata era ne l’aria in tutto il vento.
Tal, che mi mosse à diguazzarmi un poco
L’ombra, l’acqua, il viaggio, il tempo, e ’l loco.

Sfibbio la vaga, e ben fregiata spoglia,
Ch’à me fa il fianco adorno, altrui l’asconde.
E dove veggio più folta la foglia,
La poso, e lascio in su l’herbose sponde.
Poi dal desio, ch’à rinfrescar m’ invoglia,
Spinta fido il mio corpo à le fals’onde,
C’havrian sommerso il mio terrestre peso,
S’io non havessi al mio sostegno inteso.

Le braccia, e i piedi à tempo incurvo, e scuoto,
Disteso hor tengo il corpo, hor più raccolto,
Con le mani, e co i piè l’acqua percoto,
E la discaccio co’l soffiar dal volto.
Mi diletta dapoi di cangiar nuoto,
E ’l volto, e’l petto, e ’l grembo al ciel rivolto,
E tenendo à l’ insù drizzato il lume,
Mi lascio alquanto in giù portar dal fiume.

Indi come và l’huom per terra in piede
Mi drizzo, e su le braccia mi sostegno.
Poi torno al primo nuoto, e ’l petto siede
Steso tutto su l’acqua come un legno.
Zappo poi l’onde, e, come una man fiede,
S’ inalza l’altra, e di ferir fa segno,
Et alternando nel zappar le braccia,
Come hà percosso l’un, l’altro minaccia.

Mentre fo mille scherzi in mezzo à l’acque,
E fuggo il caldo Sol con mio diletto:
Un roco mormorar ne l’onde nacque,
Che m’empì di paura, e di sospetto.
Quivi ad Alfeo la mia bellezza piacque,
Che mi vide oltre al viso, il fianco, e ’l petto,
E à pena gli occhi cupidi v’intese,
Ch’ in mezzo à l’onde sue di me s’accese.

Habbi vergine bella, egli alza il grido
Con caldo affetto, e parlar dolce, e roco,
Mercè del nuovo amor, ch’ in me fa nido,
Anzi del novo insopportabil foco.
Tosto io vò fuor nel più propinquo lido,
Per fuggir quel d’amor non casto gioco,
Misera io salto ignuda fuor de l’onda,
E le mie vesti son ne l’altra sponda.

Anch’ei salta su’l lito, e à me rivolto
Con benigno parlar la lingua snoda.
Io dono i piedi al corso, e non l’ascolto,
Pur sento, che mi prega, e che mi loda.
Ei d’ogni altro pensier libero, e sciolto,
Mi segue intento à l’amorosa froda,
Con quella fame misera, e infelice,
Che fa l’altier terzuol l’humil pernice.

Come l’ingordo veltro ardito, e presto
Suol ne’ campi cacciar timida Damma,
Cosi cacciava ei me, dal poco honesto
Spinto, e folle desio, che ’l cor gl’ infiamma.
L’esser nuda arrossimmi, e forse questo
Accendea l’amor suo di maggior fiamma.
Io pur correa, non mi trovando altr’ arme
Dove meglio credea poter salvarme.

Chiedea tutti in favor gli eterni numi,
Chiamava il loro aiuto, e ’l lor consiglio,
Che mi salvasser da gli accesi Fiumi,
E cercasser di tormi à quel periglio.
Per piani, e monti, e strani hispidi dumi
Passo, e sempre al peggior camin m’appiglio.
E saltai mille spine, e mille arbusti,
Che mi sparser di sangue i piedi, e i busti.

Già corso insino al mar ver Pisa havea,
E l’alma d’ogni forza era si sgombra,
E si vicina havea la sete Alfea,
Ch’ egli innanzi al mio piè facea già l’ombra:
Ricorro come io soglio à la mia Dea,
Per lo troppo timor, che ’l cor m’ingombra,
Che ’l propinquo scoppiar sento del piede,
E ’l troppo acceso spirto al crin mi fiede.

Salva Vergine santa la tua serva,
Che perderai, s’aiuto non impetra,
Colei pudica Dea Vergine serva,
Che suol portarti l’arco, e la faretra.
Costui, di te nemico, e di Minerva,
Da l’amore, e dal corso ingiusto arretra,
Costui, la cui lascivia, e mente insana
Vuol darmi à Citerea, tormi à Diana.

Al giusto prego mio la Dea s’arrende,
E vedendo, che ’l ciel di nubi abonda,
Fà, ch’una, ove son’ io, tosto ne scende,
La qual tutta mi copre, e mi circonda.
Gli occhi l’acceso Fiume intorno intende,
E cerca ov’io sia gita, ov’ io m’asconda.
Due volte disse, oime dolce Aretusa,
Oime dolce alma mia, dove sei chiusa.

S’aggira, e guarda in questa parte, e in quella
D’ intorno al nembo il troppo ingordo lupo,
E cerca questa sventurata agnella
Per esca al suo appetito ingordo, e cupo.
Co’l cor ritorno à la mia Dea, perch’ella
M’ involi al crudo dente del suo strupo.
E giaccio muta ne la tana mia,
Perche non senta il lupo, ch’io vi sia.

Qual se trovar co’l fiuto il can procura
La lepre fra cespugli, e pruni, e ciocchi,
Et ella giace muta, c’ha paura
Del can, che non la scopra, e non l’ imbocchi;
Tal egli intorno à quella nebbia oscura
Il mio misero piè cerca con gli occhi,
Et io mi giaccio muta entro à quel nembo,
Perch’egli non mi senta, e toglia in grembo.

Ei cerca, e non si parte, perche vede,
Che più lunge il mio piè stampa non forma.
Et io fra la fatica, che mi diede
Il formar si veloce in terra l’orma;
E fra ’l timor, che mi tormenta, e fiede,
Veggio, che in humor freddo si trasforma
La carne, il sangue, e l’ossa, e l’auree chiome,
E non mi resta salvo altro, che ’l nome.

Come son le mie membra in acqua sparse,
Conosce l’onde amate il caldo Dio,
E la forma, c’havea quando m’apparse
De l’huom pensa cangiar nel proprio rio,
Per poter meco alcun diletto darse,
E mescer l’acque sue nel fonte mio.
E secondo il pensier si cangia, e fonde,
Novella noia à le mie vergini onde.

Percote con un dardo allhor la terra
Diana, e fà, che s’apre, e che m’invola,
E mi conduce piu del mar sotterra
Per una cupa, e tenebrosa gola:
Non senza del condotto, che mi serra
Timor, che non mi lasci venir sola,
Ch’egli non apra à Dori il seno avaro,
E ’l dolce fonte mio non renda amaro.

E poi, ch’un lungo tratto hebbi trascorso
Per quel condotto periglioso, e strano,
Qui venni al giorno, e qui concessi il sorso
De le mie linfe al popolo Sicano.
Qui diè fine Aretusa al suo discorso,
E rinchiuse in se stessa il volto humano,
Il verde crin, la cristallina fronte
Attuffò come pria nel proprio fonte.

La lieta Dea di novo il carro ascende,
E poggia in aria, e lascia il fonte solo,
E verso l’oriente il camin prende,
Fra ’l cancro, e ’l cerchio del più noto polo.
Già sopra la Morea ne l’aria pende,
Vede, e passa Corinto, e ferma il volo
Ne le parti honorate, eccelse, e dive,
Dove Palla piantò le prime olive.

E, perche far sopra ogni cosa brama
Del seme suo tutto il terren fecondo
Trittolemo un suo alunno allegra chiama,
Gli dice poi. D’un’ honorato pondo
Gravar ti vò per darti eterna fama,
Che cerchi su’l mio carro tutto ’l mondo,
Per le parti di mezzo, e per l’estreme,
E che le sparghi tutte del mio seme.

Fà su’l carro montar l’alunno altero,
Poi gli da un vaso d’or non molto grande,
Pien del suo seme più lodato, e vero,
E ’l vaso è sempre pien, se ben si spande.
Leva egli il drago à vol presto, e leggiero,
E dona al mondo le miglior vivande:
E dopo haverne sparsi tutti i siti,
Pervenne à Linco, al gran Re de gli Sciti.

Non lungi al regio albergo entra in un bosco
Per non dar ne terror, ne maraviglia
À la città de’ draghi, e del lor tosco,
Là dove il morso à lor toglie, e la briglia:
Quivi gli alberga, insin che l’aer fosco
Scacci l’Aurora candida, e vermiglia;
Poi và co’l vaso al Re, ch’empie il terreno
Del seme de la Dea, ne vien mai meno.

Quell’humiltà, ch’à tanta monarchia
Conviensi innanzi à Linco il Greco osserva,
Poi dice; alto Signor la patria mia
È la città prudente di Minerva.
Trittolemo è il mio nome, e qui m’invia
La Dea, che ne nutrisce, e ne conserva,
Acciò ch’empia il tuo regno di quel grano,
Ch’è proprio nutrimento al corpo humano.

E per empire il mondo in ogni parte
Del nobil gran, che Cerere possiede,
Non hò varcato il mar con remi, ò sarte,
Ne per la terra m’hà condotto il piede:
D’andar su’l carro suo m’insegnò l’arte
La Dea, che per ben publico mi diede.
E, perche alcun non tema de lor toschi,
Legati ho i draghi suoi ne’ vicin boschi.

Di quà dal monte Imavo hoggi per tutto
Ho la tua terra ingravidata, e sparsa,
Onde del più lodato, e nobil frutto
Al grande imperio tuo non fia mia scarsa:
E, perche m’ hà la notte qui condutto,
Fin, che la nova luce sia comparsa,
Ti chiedo albergo, e lieti farò poi
Diman di la dal monte i Regni tuoi.

E questo vaso d’or per farti accorto,
Che ’l il mio parlar maraviglioso, e vero,
Ch’è detto Pirodoro, e meco porto
Darà del mio parlar giuditio intero.
Ch’ in questa loggia, ov’ hora è il tuo diporto,
Voglio, che ’l ciglio tuo grave, e severo
Conosca, che più biada egli hà nel fondo,
Che non fà di bisogno à tutto ’l mondo.

Tosto rivolta il vaso, e versa l’esca,
Ch’elesse l’huom dopo le prime ghiande,
La pioggia allhor del gran più ogn’ hor rinfresca,
Tanto n’acquista l’or, quanto ne spande.
Tal, che forza è, che ’l monte in terra cresca,
E che per ogni via venga più grande.
Poi disse al Re, conosci al gran, ch’aspergo,
Che sol per lo tuo ben ti chiedo albergo.

L’Imperador come insensato resta,
Quando vede cader la ricca pioggia,
E che ’l vaso di piover non s’arresta,
Anzi, c’hà piena già mezza la loggia:
Abbraccia il Greco, e fagli honore, e festa,
E seco à mensa il pon, seco l’alloggia,
E spesso dice, tutto il mio thesoro
Non potria mai pagar quel Pirodoro.

Io la tua Dea ringratio, e te non manco;
Che si grato qui fai meco soggiorno,
Ma tu dei di ragione esser già stanco,
Essendo homai per tutto andato intorno:
Và dunque, e posa il travagliato fianco,
Fin, che l’Aurora apporta il novo giorno.
Cosi andò ’l Greco à ritrovar le piume,
E à pena entro vi fu, che chiuse il lume.

Vide l’Imperador, mentre fè parte
Il vaso d’oro à lui di tanto seme,
Che fe stupido ogn’un, che in quella parte
Era, e de grani in lui fondò la speme.
Hor teme, come sian le voci sparte,
Che i principi, e la plebe uniti insieme
No’l chiamino lor Dio d’accordo uniti,
E non gli dian l’imperio de gli Sciti.

Et oltre, che si fe questo sospetto
Signor del suo discorso empio, e profano,
Troppo avaro pensier gl’ ingombrò ’l petto
D’haver quel vaso d’or, che rende il grano.
Come ode, che ciascun possiede il letto,
Le ricche piume sue lascia pian piano.
E d’or s’ammanta i ben tessuti stami
Tutti di soli adorni, e di ricami.

Questo superbo, e glorioso Scita
Eletto per impresa il Sole havea,
Et ogni spoglia sua ricca, e gradita,
Di richi Soli, e varij risplendea.
Non havea voce alla sua impresa unita,
Ma troppo chiaramente si vedea,
Che volea dir, che ne la terra mole
Fra gli altri lumi regij egli era il Sole.

In man quel corto, e aguzzo ferro prende,
Che suol cinto portar dal destro lato,
E per torsi il sospetto, che l’offende,
E per haver quel vaso si pregiato,
Sicuro và, che ’l Greco non l’ intende,
À l’ocioso sonno in preda dato,
E à l’innocente acciar muto minaccia,
Che ’l cor gli passi, e l’homicidio faccia.

Trittolemo non sol d’amore accese
Gli huomini per la sua fertile pioggia,
Ma ogn’ arme, e sasso, e legno, che l’intese,
E vide il ben promesso in quella loggia.
Hor quel pugnal, ch’in honorate imprese
Solea servire il Re, che ’l Greco alloggia,
Amando quel Signor cortese, e saggio
S’astien per quanto ei può di fargli oltraggio.

Stà duro il ferro à l’empia, e ingiusta mente,
E non vuol obedir, se non lo sforza,
Alza egli il braccio infame, et impudente
Perche ’l misero acciar fera per forza:
Ma l’alma alunna sua santa, e clemente
Al Re crudel cangiò l’humana scorza,
E ’n quel, che ’l Re lasciò del Re l’aspetto,
Lasciò il pugno il pugnal cader su’l letto.

Cadde il pugnale, e ’l suo ferir fu vano,
Ch’oprò la Dea, ch’à lui soccorso diede,
Che tutti i diti à l’homicida mano
Fur tolti in un momento, e si fer piede.
Il volto, che fu già fero, et humano,
La figura di pria più non possiede.
Fugge l’human da lui, rimane il fero,
E si fa l’animal detto Cervero.

La vaga altera, et ben fregiata vesta
Da tanti soli illuminata, et arsa,
Tutta dal capo al piè s’ incarna, e inesta
In quella forma novamente apparsa,
E secondo di raggi era contesta,
Ne riman tutta anchor fregiata, e sparsa,
E anchor lo Scita, e Barbaro costume
Mostra l’andar superbo, e ’l fiero lume.

Come la fertil Dea l’hà fatto belva
Fà, che l’alunno suo quindi diloggia,
E ratto và ne la vicina selva,
E dona à i draghi il volo, e in aria poggia.
Lascia Linco i suoi commodi, e s’inselva,
Vive al Sole, à la neve, et à la pioggia.
À gli animai, che puote, anchor fa danno,
E vive di rapina, e da tiranno.

Quì fe Callioppe punto al dotto canto,
E con giudicio ben pensato, e saggio
Dier le Ninfe à le Dee del monte santo
E d’arte, e d’armonia lode, e vantaggio.
Di questo si sdegnar le vinte tanto,
Ch’à l’uno, e à l’altro choro onta, et oltraggio
Disser, via più che mai crude, et acerbe,
De la lor vanagloria anchor superbe.

E sì moltiplicar nel loro orgoglio,
Che dopo haverle sopportate assai,
lo fui sforzata à far quel, che non soglio,
E dir, se non restavan mute homai
In si misero stato, in tal cordoglio
lo le farei cader, che più già mai
Scior non potriano à la lor lingua il nodo,
Per farsi honor con si orgoglioso modo.

Esse con folle, et impudente volto
Ridon del grido mio, ch’altier minaccia,
Poi con pensier più scelerato, e stolto
Per volerne ferire alzan le braccia.
Cade il braccio à l’ingiù libero, e sciolto,
Ma non però, ch’à noi danno alcun faccia.
Vede una, mentre anchora alza le pugna,
Uscir le penne fra la carne, e l’ugna.

Ritrova come meglio vi rimira,
Che per tutta la man la piuma cresce,
E quanto il dito in dentro si ritira,
Tanto la penna in fuor s’allunga, et esce,
E per tutto, ove gli occhi intende, e gira
L’aereo acquista, e ’l terreo ogni hor discresce,
E quel, che più le par c’habbia del mostro,
È, che vede le labbra esser già rostro.

Color ceruleo à tutte il corpo impiuma,
Color dipinto, e vario il braccio impenna:
La coscia, e il petto hà la più debil piuma,
Il braccio, e l’ala hà la più forte penna.
Mentre ogn’una s’affligge, e si consuma,
E ferir con la mano il seno accenna,
Il petto con la man più non offende,
Ma per le scosse braccia in aria pende.

La penna inespugnabil lor nemica
Sotto un corpo l’asconde aereo, e poco,
Tanto, ch’entra ciascuna in una Pica,
Orgoglio anchor d’ogni silvestre loco:
Favella hor più, che mai, se ben s’intrica,
E gloria ha del suo dir garrulo, e roco;
Et anchor vana, insipida, e loquace,
D’imitar l’huom si studia, e si compiace.