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Malvagia terra, e di quei frutti indegna,
     Ond’ho fatti i tuoi campi alteri, e lieti.
     Onde ridotta t’ ho fertile, e pregna
     Da le nobili biade, che tu mieti.
     Ahi quanta ingratitudine in te regna,
     Dapoi, che non t’opponi, e che non vieti
     À chi danno, et ingiuria mi procaccia
     Con ogni tuo poter, ch’egli no’l faccia.

Io cerco di giovarti più, ch’io posso,
     D’ornarti d’ogni pregio, e d’ogni honore;
     Per porti un ricco, e vago manto adosso,
     Varia l’herba ti dò, la spiga, e ’l fiore:
     Tu poi vedi un contra il mio sangue mosso,
     Che la mia figlia toglie, anzi il mio core,
     E beneficio tal posto in oblio,
     Tu ’l soffri, e non ti cal del danno mio.

Ne mi puoi dir di non l’haver veduta,
     Ch’ecco la sua cintura, ecco qui il pegno,
     Ch’ in questa parte è nel fuggir caduta
     Quando rapita fu da questo regno.
     Che non mi dici almen, perche stai muta,
     Dov’ha l’involator drizzato il legno?
     Come ha passato il mare, et à che volta,
     Come ha nome il ladron, che me l’ha tolta?

Sicania più d’ogni altra empia contrada,
     Ingrata, e degna, d’ogni gran supplicio
     Terra non v’è, per cui la miglior biada
     Facesse mai più liberale ufficio:
     E tu soffristi, che per questa strada,
     Scordata di si raro beneficio,
     Fosse condotta misera, e infelice,
     La figlia de la tua benefattrice.

E per farmi maggior l’onta, e l’offesa,
     Al desiderio mio muta ti stai,
     Non vuoi dir dove sia, chi l’habbia presa,
     Anchor, che certa io sia, che ’l tutto sai.
     Già mai maggiore ingiuria non fu intesa
     Di quella, che m’hai fatta, e che mi fai.
     Ma di quella mercè sarai pregiata,
     Che si conviene à la tua mente ingrata.

I curvi aratri, e i vomeri lucenti,
     I rastri, e gl’istrumenti d’ogni sorte,
     Tutti rompe, e distrugge, e gl’innocenti
     Huomini, et animai condanna à morte.
     Comanda poi, che sterile diventi
     Il fertil campo, e frutto non apporte
     À chi il seme in deposito gli crede,
     E manchi de l’usura, e de la fede.

La Sicilia le biade alte, e superbe
     Non rende più, che Cerere non vole,
     Le secca, se talhor crescono acerbe
     Hor troppo lunga pioggia, hor troppo Sole.
     Vedi il seme marcir, seccarsi l’herbe,
     E restar le campagne ignude, e sole.
     Vi corron, s’altrui sparge in terra il seme
     Tutti gli augei del mondo uniti insieme.

La terra, non più matre, anzi matrigna,
     Ogni herbaggio nutrisce infame, e strano,
     E fà, che ’l seme buon manca, e traligna,
     E diventa di nobile villano.
     Fà, che l’inespugnabile gramigna,
     E che ’l loglio, e la vecchia affoghi il grano.
     Se la pioggia il corrompe, il Sole il coce,
     La terra, il foco, e l’acqua, e ’l ciel li noce.

La fonte allhor, che fu prima Aretusa,
     Che sà chi tien la figlia, e dove, e come,
     Alza da l’onde Elee la testa infusa,
     Dal volto allarga poi l’humide chiome.
     E come meglio sà, la terra scusa,
     Per lei sgravar da si dannose some,
     E stando fuor de l’acqua insino al petto,
     Cerca mover la Dea con questo affetto.

Ó de le biade santa genitrice,
     E di quel viso angelico, e giocondo,
     Che del mar ricercando ogni pendice,
     Trovata anchor non hai, ne in tutto ’l mondo;
     Rendi à la terra misera, e infelice
     Il manto, come havea lieto, e fecondo,
     Ch’al furto de la figlia, che t’addoglia,
     Aperse il tristo sen contra sua voglia.