Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/180

Non da l’amor de la mia patria spinta
     Ti prego, essorto, e supplico per lei,
     Ch’io nacqui in quella Grecia, che vien cinta
     Da Corinto, e dal mar ne’ campi Eliei;
     Ma ben dal giusto, e da l’honesto vinta
     Ti ricordo, che fai quel, che non dei.
     Che togli à questa terra i pregi sui,
     E la vieni à punir del fallo altrui.

Non per la patria, ò mio proprio interesse,
     Ti cerco far ver la Sicilia humana,
     Ch’anchor, ch’ io irrighi la Trinacria messe,
     Io son qui forestiera, e non Sicana.
     Che fur le membra mie da prima impresse
     Ne’ campi Elei, dov’io nacqui Pisana,
     Benche quest’isola ami à quella guisa,
     Ch’ amai la patria Elea vivendo in Pisa.

E s’io scorgessi in te più lieta fronte,
     E tu havessi diletto d’ascoltarme,
     Ti conterei, come io mi sparsi in fonte,
     E come venni in queste parti à starme.
     Basta per hor, che la ragion ti conte,
     Ch’ in favor de la terra ha fatto armarme.
     E s’io troverò in te l’usata pieta,
     Tu la tua patria, et io farò te lieta.

Sappi, che queste fresche, e limpid’onde,
     Che surgon qui nel tuo Sicanio lito,
     Non nascon ne le tue fertili sponde,
     Ma ben nel primo mio materno sito.
     Quivi il terren m’inghiotte, e mi nasconde,
     E mena per lo regno di Cocito,
     Là dove lascio l’ombre oscure, e felle,
     E qui risorgo à riveder le stelle.

Hor mentre sotto il mar per molte miglia
     L’onde nascoste mie conduco meco,
     Io veggio tutta l’infernal famiglia,
     E ciò, che fan nel piu profondo speco.
     E fra gli altri ho veduta la tua figlia,
     Ma Regina del regno opaco, e cieco,
     Ma, che comanda à l’ infernal magione,
     Ma Dea de l’Orco, e moglie di Plutone.

Si che non sol non dei pianger si forte,
     D’haver per maggior ben perduta lei,
     Ma, ch’ella habbia acquistato un tal consorte
     Mi par, che molto rallegrar ti dei.
     Hor qual potea maggior ritrovar sorte?
     Qual maggior nobiltà fra gli alti Dei?
     S’ella chiama marito il Re notturno,
     Giunon cognata, e socero Saturno?

Come la madre addolorata sente
     Di Proserpina sua l’inferno honore,
     Resta si stupefatta de la mente,
     Dal novo sopragiunto dolore.
     Ch’assembra un marmo, e come si risente,
     Da l’ira stimulata, e dal furore,
     Verso i superbi draghi il camin tenne,
     E dritto al ciel fe lor batter le penne.

E co’l crin scapigliato, hirto, et incolto
     Si fermò innanzi al tribunal di Giove.
     E di lagrime sparso havendo il volto,
     Che ’l continuo dolor distilla, e piove;
     Poi che lo spirto alquanto have raccolto,
     Cosi la voce articolata move.
     Giove de gli alti Dei Signore, e padre,
     Ascolta questa addolorata madre.

Io vengo al tuo sublime tribunale,
     Ó de gli eterni Dei superno Dio,
     Non già per accusar, ne per far male
     Altrui, per odio, ò vendice desio.
     Non, perche ’l tuo giudicio universale
     Punisca l’offensor del sangue mio,
     Non per dir, c’hoggi ogn’uno empio, e profano
     Osa nel sangue tuo stender la mano.

Di questo io lascerò cura à colui,
     Che debbe provedere al comun danno,
     Ch’io non porto odio, e inimicitia altrui,
     Se bene in me la forza usa, e l’inganno.
     Tu sai pur quale io son, qual sempre fui,
     E quanto m’affatichi tutto l’anno,
     Per provedere i frutti più pregiati
     Tanto à gli honesti, e pij, quanto à gl’ingrati.