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Non ho la mente si malvagia, e ria,
     Che m’apporti contento l’altrui doglia,
     Ma cerco, che ragion fatta mi sia,
     Che dal tuo tribunal non mi si toglia,
     Che donna io sia de la fortuna mia,
     Poi che v’è chi per forza me ne spoglia,
     Rendasi à me quel, che mi s’appartiene,
     E ’l ladro, e ’l malfattore habbia ogni bene.

La mia figlia infelice, ch’io perdei,
     Anzi la tua da me cercata tanto,
     La figlia, che di te già concepei,
     Che fu creata dal tuo Nume santo;
     Fra gli spirti hor si stà dannati, e rei,
     Nel regno de le tenebre, e del pianto,
     Trovata l’ho ne l’infernal deserto,
     Se trovar si può dir, perder più certo.

Se trovar si può dir saper dov’ella
     Per forza stà, senza poterla havere.
     Pluton rapì la misera donzella,
     Fuor del rispetto tuo, fuor del devere.
     Hor non ti dimando altro, che d’havella,
     Come prima l’havea nel mio potere.
     Che starà tanto meglio al mio governo,
     Quanto è più ben nel ciel, che ne l’inferno.

Sol questo à te nel tuo santo collegio
     Chiedo, non men per me, che per te stesso,
     E se ’l mio sangue non t’ è punto in pregio,
     Movati il sangue, ond’hai quel parto impresso.
     Non disprezzar del cielo il germe regio,
     Anchor che fosse il mio vile, e dimesso;
     Deh se mover no’l può l’afflitta madre,
     Mova la figlia almen l’offeso padre.

Fà dunque come Dio giusto, e clemente,
     Ch’un prego honesto, e pio non sia schernito,
     Che ’l celeste giudicio non consente,
     Ch’alcun debbia goder d’un ben rapito.
     E la pietà non vuol, ch’una innocente
     Figlia uno involator chiami marito.
     Se tal ragione ogni giudicio move,
     Ben mover dè per la sua figlia Giove.

L’imperador del sempiterno regno
     Con dolce occhio guardò la dolce amica.
     E d’havere in memoria le fè segno
     La grata lor benevolentia antica.
     Comune è questa ingiuria, e questo pegno,
     Comune è la vendetta, e la fatica,
     Rispose poi, comune è il suo cordoglio;
     Ma dà l’orecchie à quel, che dir ti voglio.

Se noi vogliam considerare il vero,
     Può dirsi allhora ingiurioso oltraggio,
     Che l’ ingiuria è nel fatto, e nel pensiero,
     E qui bisogna haver l’occhio al coraggio.
     S’un tragge in alto un sasso, e un cavaliero
     Percote giunto à caso in quel viaggio,
     S’ in mente il trahitor non ha l’ inganno,
     Ingiuria non gli fa, ma gli fa danno.

D’oltraggio io non saprei dannar Plutone,
     Di danno si nel pegno amato, e fido,
     Ch’ei non v’andò con questa intentione,
     E lo sforzò la face di Cupido.
     Anzi io sarei di ferma opinione
     Di dar Regina al sotterraneo lido,
     E consorte à colui la nostra prole,
     Che ’l terzo tien de l’universa mole.

Io ’l ciel, Nettuno il mar, quel regno hav’ello,
     Che de gli altri è più immobile, e più forte,
     Ne sdegnar ci dobbiam genero havello,
     Poi che nel mondo ci tien la terza corte,
     Et è mio, come sai, minor fratello,
     Ne d’altro cede à me, che de la sorte,
     E questo furto, s’un vi pon ben cura,
     Non è danno, ne ingiuria, ma ventura.

Ma se pure il desio, che ti conduce,
     Cerca disfar questo connubio à fatto,
     Ritornerà Proserpina à la luce
     Per sententia del ciel con questo patto;
     Se nel paese de l’infernal duce
     Non ha del cibo al gusto satisfatto:
     Ma non se i frutti Stigij ha già gustati,
     Che cosi voglion de le Parche i fati.