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Poste à seder nel bosco ombroso, e santo,
     Cosi la Musa il suo parlar riprese
     Poi che Calliope hebbe da noi co’l canto
     Cura di terminar le liti prese;
     Tolse la dotta cetra, e tirò alquanto
     Hor questa, hor quella corda, insin ch’intese
     Da più d’un lamentevol lor ricordo,
     Che tutte le sorelle eran d’accordo.

Percote hor solo un nervo, hor molti insieme
     La destra, e molto hor fa veloce, hor lento,
     E ’l nervo hor sol se ne risente, e geme,
     Hor fa con gli altri il suo dolce lamento.
     La manca trova à tempo i tasti, e preme,
     E con l’acuto accorda il grave accento.
     Et ella al suon, ch’ in aria ripercote,
     Concorda anchor le sue divine note.

Prima Cerere à l’huom la norma diede,
     Onde co’l curvo aratro aprì la terra.
     Prima gli fe conoscer la mercede
     Del seme, se con arte il pon sotterra.
     Prima le leggi die d’amore, e fede
     Da viver senza lite, e senza guerra.
     Prima die à l’huom la più lodata spica,
     À l’alimento suo si dolce amica.

Questa cantare intendo, e piaccia à Dio
     Di dare il canto à me si pronto, e certo,
     Ch’agguagli di prontezza il gran desio,
     De la Dea di certezza agguagli il merto.
     Che se sarà si chiaro il canto mio,
     Che quel, c’hò dentro al cor, mostri scoperto,
     Farò veder, che fra gli eterni Dei
     Tocca del sommo honor gran parte à lei.

Poi che dal divin folgore percosso
     Tifeo cadde anchor vivo in terra steso,
     Giove, perch’ ei da troppo orgoglio mosso,
     Il Cielo havea di mille ingiurie offeso,
     Gli pose la Sicilia tutta adosso,
     Perche gravato dal soverchio peso,
     Stesse in eterno in quel sepolcro oscuro,
     Per fare il Ciel dal suo terror sicuro.

La destra ver l’ Italia del gigante
     Stà sotto al promontorio di Peloro.
     La manca, ch’è rivolta in ver Levante,
     Pachino aggrava un’ altro promontoro.
     Sostengon Lilibeo l’ immense piante
     Che guarda fra Ponente, e ’l popol Moro.
     Etna gli preme il volto, et è quel loco,
     Onde anchor resupino essala il foco.

L’altier gigante, che gravar si sente
     Dal peso, che sostien la carne, e l’ossa,
     Con ogni suo poter se ne risente,
     E dà talhor si smisurata scossa,
     Che ’l terremoto la terra innocente
     Apre, e fa si profonda, e larga fossa,
     Ch’ inghiotte dentro à regni infami, e neri
     I palazzi, le terre, e i monti interi.

Vede una volta il Re de le mort’ombra
     Tutto intorno tremar ciò, ch’è sotterra,
     E che per tema ogni empia Erinni, ogn’ ombra
     Cerca fuggir del cerchio, che la serra.
     Subito tal paura il cor gl’ingombra,
     Che teme, che la troppo aperta Terra
     Non inghiotta l’inferno, e chi v’è dentro
     Più basso s’esser può, che non e ’l centro.

Dapoi, che ’l terremoto venne meno
     Lo sbigottito anchor Re dell’lnferno
     Fà porre à neri suoi cavalli il freno,
     Monta su’l carro, e lascia il lago averno,
     E subito, che scorge il ciel sereno,
     Splender vede in Sicilia un foco eterno,
     Ei tien, che ’l terremoto habbia per certo
     Fin dentro il regno suo quel monte aperto.

Vavvi, et ode, che ’l foco, ch’ ivi splende,
     È ’l fiato d’ ira acceso di Tifeo.
     Onde intorno à veder l’isola intende,
     Per saper s’altro mal quel moto feo.
     E quando danno alcun non vi comprende,
     Tornar pensa ov’ei crucia il popol reo;
     Ma nel girar ch’ei fe, cosa gli avenne,
     Che ’l suo camino alquanto gli ritenne.