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quinto. 81

In un bell’antro un sasso vivo, e forte
     D’intorno fa molti honorati seggi,
     I primi à premer van le Ninfe accorte,
     Come del giudicar voglion le leggi,
     L’altre senza servar legge, ne sorte,
     Come alcuna in virtù non le pareggi,
     Fecer di tutte noi si poca stima.
     Ch’occupar la man destra, e cantar prima.

Dà lor l’eletta à cominciar lor canti
     Al suon d’un non colpevole istrumento,
     In dispregio de Numi eterni, e santi
     Die fuora il primo suo profano accento.
     Cantò gli horrendi, e perfidi giganti,
     E ’l periglio del cielo, e lo spavento.
     Tutta contra gli Dei l’horribil guerra
     De figli di Titano, e de la terra.

L’empia suo verso ogni sovrano honore
     A giganti rendea, tutto in dispregio
     Del padre nostro altissimo motore,
     E de l’eterno suo divin collegio.
     E d’haver dato al ciel maggior terrore
     Dava à Tifeo fra gli altri il sommo pregio,
     Perch’ei fu, ch’agli Dei tal terror diede,
     Che la salute lor fidaro al piede.

E che ogni Dio dal troppo corso afflitto
     Perduta nel fuggir tutta la lena,
     Raccolto fu dal Nilo, e da l’Egitto,
     Che per dar refrigerio à si gran pena,
     D’ogni vivanda più prestante al vitto
     Apparecchiaro una superba cena,
     E come v’invitaro ogni huom più degno,
     Ogni più bella donna del lor regno.

Ma che goder non la poter, che quando
     Erano per mangiar, sentir Tifeo,
     Che per l’Egitto già gli Dei cercando,
     Per dargli al suo flagello ingiusto, e reo.
     E che come il sentir, l’un l’altro urtando,
     Volle ogni Dio fuggir, ma non poteo:
     Ch’essendo già vicin fu à tutti forza
     Per salvarsi da lui cangiar la scorza.

Ch’à pena con Tifeo s’udì dir ecco,
     Che per l’incomparabil lor paura,
     Si fe Giove un montone, e Bacco un becco,
     E gir con l’altre bestie à la pastura.
     Ch’Apollo anch’ei fe de la bocca un becco,
     E tutto si vestì di piuma oscura.
     E fatto un corvo lui, Mercurio un Ibi
     Volar con le cornacchie, e con gli nibi.

Che visto ciò Giunon temendo anch’ella,
     Una cornuta vacca si fe dopo:
     La cacciatrice Dea del Sol sorella
     Si fe il folle animal, che caccia il topo:
     Che l’impudica Dea, non disse bella,
     L’onde, che fur sua madre, hebbe per scopo;
     E udito l’huom, che de la terra nacque,
     Entrò in un pesce, e s’attuffò ne l’acque.

Ogni calunnia, che trovò maggiore,
     Osò dir de gli Dei sommi immortali,
     Ne disse pure un verso in lor favore,
     Ne come fur dapoi gli Egitij tali,
     Che con sommo del ciel pregio, et honore
     Ne’ lor tempij adorar molti animali;
     Ne come sotto il vello d’un montone
     Venerar ne la Libia Giove Ammone.

Ma ogn’un, che la risposta havesse intesa,
     E di Calliope la dottrina, e l’arte,
     E come hebbe l’honor di questa impresa,
     E la pena, che n’hebbe l’altra parte,
     Sapria, che chi con noi prende contesa
     Nel canto, con honor non se ne parte.
     Ma forse non hai tempo d’ascoltarmi,
     Ch’io farò udirti i suoi più dotti carmi.

Anzi te’n vò pregar (la Dea rispose)
     Ch’io bramo un tempo far con voi soggiorno,
     E goder queste belle selve ombrose,
     Fin che passi il calor del mezzo giorno.
     E fia ben, che sù l’erba si ripose
     Ciascuna à guisa, di theatro intorno,
     Ch’io spero di goder con questo aviso
     D’una il dotto parlar, di tutte il viso.