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Mentre fo mille scherzi in mezzo à l’acque,
     E fuggo il caldo Sol con mio diletto:
     Un roco mormorar ne l’onde nacque,
     Che m’empì di paura, e di sospetto.
     Quivi ad Alfeo la mia bellezza piacque,
     Che mi vide oltre al viso, il fianco, e ’l petto,
     E à pena gli occhi cupidi v’intese,
     Ch’ in mezzo à l’onde sue di me s’accese.

Habbi vergine bella, egli alza il grido
     Con caldo affetto, e parlar dolce, e roco,
     Mercè del nuovo amor, ch’ in me fa nido,
     Anzi del novo insopportabil foco.
     Tosto io vò fuor nel più propinquo lido,
     Per fuggir quel d’amor non casto gioco,
     Misera io salto ignuda fuor de l’onda,
     E le mie vesti son ne l’altra sponda.

Anch’ei salta su’l lito, e à me rivolto
     Con benigno parlar la lingua snoda.
     Io dono i piedi al corso, e non l’ascolto,
     Pur sento, che mi prega, e che mi loda.
     Ei d’ogni altro pensier libero, e sciolto,
     Mi segue intento à l’amorosa froda,
     Con quella fame misera, e infelice,
     Che fa l’altier terzuol l’humil pernice.

Come l’ingordo veltro ardito, e presto
     Suol ne’ campi cacciar timida Damma,
     Cosi cacciava ei me, dal poco honesto
     Spinto, e folle desio, che ’l cor gl’ infiamma.
     L’esser nuda arrossimmi, e forse questo
     Accendea l’amor suo di maggior fiamma.
     Io pur correa, non mi trovando altr’ arme
     Dove meglio credea poter salvarme.

Chiedea tutti in favor gli eterni numi,
     Chiamava il loro aiuto, e ’l lor consiglio,
     Che mi salvasser da gli accesi Fiumi,
     E cercasser di tormi à quel periglio.
     Per piani, e monti, e strani hispidi dumi
     Passo, e sempre al peggior camin m’appiglio.
     E saltai mille spine, e mille arbusti,
     Che mi sparser di sangue i piedi, e i busti.

Già corso insino al mar ver Pisa havea,
     E l’alma d’ogni forza era si sgombra,
     E si vicina havea la sete Alfea,
     Ch’ egli innanzi al mio piè facea già l’ombra:
     Ricorro come io soglio à la mia Dea,
     Per lo troppo timor, che ’l cor m’ingombra,
     Che ’l propinquo scoppiar sento del piede,
     E ’l troppo acceso spirto al crin mi fiede.

Salva Vergine santa la tua serva,
     Che perderai, s’aiuto non impetra,
     Colei pudica Dea Vergine serva,
     Che suol portarti l’arco, e la faretra.
     Costui, di te nemico, e di Minerva,
     Da l’amore, e dal corso ingiusto arretra,
     Costui, la cui lascivia, e mente insana
     Vuol darmi à Citerea, tormi à Diana.

Al giusto prego mio la Dea s’arrende,
     E vedendo, che ’l ciel di nubi abonda,
     Fà, ch’una, ove son’ io, tosto ne scende,
     La qual tutta mi copre, e mi circonda.
     Gli occhi l’acceso Fiume intorno intende,
     E cerca ov’io sia gita, ov’ io m’asconda.
     Due volte disse, oime dolce Aretusa,
     Oime dolce alma mia, dove sei chiusa.

S’aggira, e guarda in questa parte, e in quella
     D’ intorno al nembo il troppo ingordo lupo,
     E cerca questa sventurata agnella
     Per esca al suo appetito ingordo, e cupo.
     Co’l cor ritorno à la mia Dea, perch’ella
     M’ involi al crudo dente del suo strupo.
     E giaccio muta ne la tana mia,
     Perche non senta il lupo, ch’io vi sia.

Qual se trovar co’l fiuto il can procura
     La lepre fra cespugli, e pruni, e ciocchi,
     Et ella giace muta, c’ha paura
     Del can, che non la scopra, e non l’ imbocchi;
     Tal egli intorno à quella nebbia oscura
     Il mio misero piè cerca con gli occhi,
     Et io mi giaccio muta entro à quel nembo,
     Perch’egli non mi senta, e toglia in grembo.