Le Grazie (1856)/Inno primo
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INNO PRIMO
VENERE1
Cantando, o Grazie, degli eterei pregi
Di che il cielo v’adorna, e della gioja
Che, vereconde, voi date alla terra,2
Belle vergini! a voi chieggio l’arcana
5Armonïosa melodia pittrice
Della vostra beltà, si che all’Italia
Afflitta di regali ire straniere
Voli improvviso, a rallegrarla, il carme.3
Nella convalle fra gli aerei poggi
10Di Bellosguardo4, ov’io, cinta d’un fonte
Limpido, fra le queto ombre di mille
Giovinetti cipressi, alle tre Dive
L’ara innalzo (e un fatidico laureto,
In cui men verde serpeggia la vite,
15La protegge di tempio), al vago rito
Vieni, o Canova, e agl’Inni. Al cor men fece
Dono la bella Dea che tu sacrasti5
Qui sull’Arno alle belle Arti custode;
Ed ella d’immortal lume e d’ambrosia
20La santa imago sua tutta precinse.
Forse (o ch’io spero!) artefice di Numi,
Nuovo meco darai spirto alle Grazie
Ch’or di tua mano escon del marmo.6 Anch’io
Pingo e spiro a’ fantasmi anima eterna:7
25Sdegno il verso che suona e che non crea;
Perchè Febo mi disse: Io, Fidia,8 primo,
Ed Apelle guidai colla mia lira.9
Eran l’Olimpo e il Fulminante e il Fato,
E del tridente enosigéo tremava
30La genitrice Terra:10 Amor dagli astri
Pluto fería; nè ancora eran le Grazie.
Una Diva scorrea lungo il creato11
A fecondarlo, e di Natura avea
L’austero nome: fra’ Celesti or gode
35Di cento troni; e con più nomi ed are
Le dan rito i mortali,12 e più le giova
L’Inno che bella Citerea la invoca.
Perchè, clemente a noi che mirò afflitti
Travagliarci e adirati, un di la santa
40Diva, all’uscir de’ flutti ove s’immerse
A ravvivar le gregge di Neréo
Apparì colle Grazie; e le raccolse
L’onda jonia primiera, onda che, amica
Del lito ameno e dell’ospite musco,
45Da Citera13 ogni dì vien desïosa
A’ materni miei colli. — Ivi fanciullo
La deità di Venere adorai.
Salve, Zacinto! All’antenoree prode,
De’ santi Lari idei ultimo albergo
50E de’ miei padri, darò i carmi e l’ossa,14
E a te i pensier; chè pïamente a queste
Dee non favella chi la Patria oblia.
Sacra città è Zacinto! Eran suoi templi,
Era ne’ colli suoi l’ombra de’ boschi
55Sacri al tripudio di Dïana e al coro,
Nè ancor Nettuno al reo Laomedonte
Muniva Ilio di torri inclite in guerra.15
Bella è Zacinto! A lei versan tesori
L’angliche navi; a lei dall’alto manda
60I più vitali rai l’eterno Sole;
Limpide nubi a lei Giove concede,
E selve ampie d’ulivi, e liberali
I colli di Lieo:16 rosea salute
Spirano l’aure, del felice arancio
65Tutte odorate, e de’ perpetui cedri.
Tacea splendido il mar, poi che sostenne,
Sulla conchiglia assise e vezzeggiate
Dalla Diva, le Grazie: e a sommo il flutto,17
Quante alla prima prima aura di Zeffiro
70Le frotte delle vaghe api prorompono,
E più e più succedenti invide ronzano
A far lunghi di sè aerei grappoli;
Vanno aliando su’ nettarei calici,
E del mèle futuro in cor s’allegrano;
75Tante à fior dell’immensa onda raggiante
Ardian mostrarsi a mezzo il petto ignude
Le amorose Nereidi oceanine;
E a drappelli agilissime seguendo
La Gioja alata, degli Dei foriera,
80Gittavan perle, delle ingenue Grazie
Il bacio le Nereidi sospirando.
Poi, come l’orme della Diva e il riso
Delle vergini sue fer di Citera
Sacro il lito, un’ignota violetta
85Spuntò al piè de’ cipressi; e d’improvviso
Molte purpuree rose amabilmente
Si conversero in candide. - Fu quindi
Religione di libar col latte
Cinto di bianche rose, e cantar gl’inni
90Sotto a’ cipressi, ed offerire all’ara
Le perle e il fiore messagger d’Aprile.18
Ma chi de’ Numi esercitava impero
Sugli uomini ferini, e quai ministri
Aveva in terra, il primo dì che al mondo
95Le belle Dive Citerea concesse?
Alta ed orrenda n’è la storia; e noi
Quaggiù fra le terrene ombre vaganti,
Dalla Fama n’udiam timido avviso.
Abbellitela or voi, Grazie, che a tutto
100Siete presenti e, Dee, tutto sapete.
Quando i pianeti dispensò a’ Celesti
Giove padre, il più splendido ei s’elesse,
E toccò in sorte a Citerea ’l più bello,
E l’altissimo a Pallade; e le genti
105Di que’ mondi beate abitatrici
Sentir l’imperio del lor proprio Nume.
Ma da’ Celesti rimanea negletto
Il picciol globo della Terra; e, nati
Alie prede i suoi figli ed alla guerra,
110E dopo breve di sacri alla morte,
Vagavan tutti colle belve all’ombra
Della gran selva della terra: e gli antri
Eran tetto, e i sepolcri erano altari;
E col sangue di vergini innocenti
115Placavan l’aspre Deità d’Averno,
Alie menti atterrite unico Nume. —
Non prieghi d’inni o danze d’imenei,
Ma di veltri perpetuo ululato
Tutta l’isola udia, quindi; e di dardi
120Correa dagli archi un suon lungo sull’aure,
E il provocate fremito di belve
Minaccianti, e degli uomini la pugna
Sulle membra del vinto orso rissosi,
E de’ piagati cacciatori il grido.19
125Cerere invan donato avea l’aratro
A que’ feroci: invan d’oltre l’Eufrate
Chiamó un di Bassarèo giovine Dio
A ingentilir di pampini le balze.
Il pio strumento irrugginia su’ brevi
130Solchi, deserto; divorata, innanzi
Che i grappoli novelli imporporasse
A’ rai d’autunno, era la vite.20 E quando
Ripassò col suo coro il giovin Dio,
Il fremir delie tigri, all’immortale
135Cocchio ministre, que’ feroci a nuova
Rabbia di guerra concitava.21 Solo
Quando apparian le Grazie, i cacciatori,
E le donne, e le vergini, e i fanciulli
L’arco e ’l terror deponeano, ammirando.
140L’una tosto alla madre col gemmato
Pettine asterge mollemente e intreccia
Le chiome di marina onda stillanti;
L’altra sorella a’ Zeffiri consegna,
A rifiorirle i prati a primavera,
145L’ambrosio umore ond’è irrorato il seno
Della figlia di Giove; vereconda
La terza ancella ricompone il peplo
Sulle membra divine, e le contende
Di que’ Selvaggi attoniti al desio.
150Con mezze in mar le rote erá frattanto
La conchiglia sul lito, ove, tendendo
Alte le braccia, la spingean le belle
Nettunine. Spontanee s’aggiogarono
Alla biga gentil due delle cerve,
155Che ne’ boschi dittei, prive di nozze,
Cinzia a’ freni educava; e poi che dome
Aveale a’ cocchi suoi, pasceano immuni
Da mortale saetta. Ivi per sorte,
Vagolando ribelli, eran venute,
160Le avventurose; e corsero ministre
Al viaggio di Venere.22 Improvvisa
Iri,23 che segue i Zefiri col volo,
S’assise auriga, e drizzò ’l corso all’istmo24
Del laconio paese. Ancor disgiunta
165Dal continente l’isola non era,
Nė tutta sola di quel golfo intorno
Sedea regina: e dove oggi da lunge
L’agricoltor lacone ardere i fochi
Mira, se al pescator buia è la notte,
170Pendea negra una selva. Esiliato
N’era ogni Dio da’ figli della terra
Duellanti a predarsi; i vincitori
D’umane carni s’imbandian le cene.
Videro il cocchio e misero un ruggtto,
175Palleggiando la clava. Al petto strinse
Sotto il suo manto accolte le gementi
Sue giovinette, e: O selva, ti sommergi!
Venere disse; e fu sommersa — Ah, tali
Forse eran tutti i primi avi dell’uomo!25
180Quindi in noi serpe, miseri! un natio
Delirar di battaglie; e se pietose
Nol placano le Dee, truce riarde
A coprir di cadaveri la terra.2627
Ch’io non li veggia almeno, or che insepolti
185Per le campagne tue giacciono, o Italia!
A noi, Dee, rifuggite; a noi fra queste
Ombre accolti, e a quest’ara; e serenate
L’asilo vostro, finchè forse un giorno
In più splendida reggia, e con solenni
190Riti la Patria mia possa adorarvi.
Lieta allor fia, pari alla Grecia, innanzi
Che onnipossente il Fato ogni felice
Vostro favor le invidïasse. — Or mentre
Procedeano le Grazie, il doloroso
195Premio de’ lor vicini arti più miti
Persuase a’ Laconi. E dove in prima
Di burroni infecondo e di fumanti
Spelonche aperte da Vulcano,28 e ignoto
Per lo mare intentato era quel regno,
200Al venir delle Dee fu pieno d’are29
Ospitali, e di cólti, e di beate
Città: vide le pompe, e le amorose
Gare, e i regj conviti; e d’ogni parte
Correan d’Asia i guerrieri e i prenci argivi
205Alla reggia di Leda. — Ah, non ti fossi
Irato, Amore!30 e ben di te sovente
Io mi dorrò, dacchè le Grazie affliggi.
Per te, all’arti eleganti, ed a’ felici
Ozj, lascivie sottentraro, e molli
210Ozj, e spergiuri a’ Greci: indi la dura
Vita, e nude a sudar nella palestra
Le maschili fanciulle, onde salvarsi,
Amor, da te. Ma quando eri peranco
Alle Grazie non invido fratello,
215Non a più lieta, il Sol, nè a più gentile
Terra splendeva.31 Qui di Fare32 il golfo
Riscintillante placido alla Luna,
Cinto d’armonïosi antri a’ delfini:
Qui Sparta e le fluenti dell’Eurota33
220Gradite a’ cigni; e Mêssa34 offria securi
Ne’ suoi boschetti alle tortore i nidi:
Qui d’Augía35 ’l pelaghetto, invïolato
Al pescator, dacchè di mirti ombroso
Era lavacro al bel corpo di Leda,
225E della sua figlia divina. Amicla,36
Terra di fiori, non bastava ai serti
Delle vergini spose: d’ogn’intorno
Venian cantando i giovani alle nozze.
Non dei destrieri nitidi l’amore
230Li rattenne; non Laa37 che, fra tre monti,
Ama le cacce e i riti di Dïana,
Nè la ricca di pesci elóa38 marina:
E non lungi è Briséa, donde il propinquo
Taigeto udiva strepitar l’arcano
235Tripudio, e i riti onde il femineo coro
Placò Lieo, e intercedean le Grazie.39
Scendean pur lietamente inghirlandati
Da Daulide i Focesi, e da Pitone
Sacra a veder sulle parnasie rupi;40
240E chi mirò imperterrito i torrenti
Di Panopéa versare onde e macigni,41
E udi in Anemorea Borea fremente;
E chi abitò Jampoli antica,42 e quanti
Lunghesso i bei meandri del Cefiso
245Pascolavan gli armenti, o da Lilea
Nascer vedean del divin fiume i gorghi.43
Ma dove, o caste Dee, ditemi dove
La prima ara vi piacque, onde, se invano
Or la chieggio alla terra, almen l’antiqua
250Religïone del bel loco io senta.
D’Iride al cenno d’una rosea nebbia
Tutte velate, procedendo all’alto
Dorio44 che di lontan gli Arcadi vede,
Le Dive mie vennero a Trio. L’Alfeo
255Arretrò l’onda, e diè a’ lor passi il guado
Che anch’oggi il pellegrin varca ed adora.45
Fe manifesta quel portento a’ Greci
La deïtà; sentirono da lunge
Odorosa spirar l’aura celeste.
260De’ Beóti al confin siede Aspledóne,
Città che l’aureo Sol veste di luce
Quando riede all’occaso;46 e non lontano
Sta sulla immensa minïea pianura
La beata Orcoméno: ivi più caro
265Ebber l’altare, quando allora il primo,
Da fanciulle alternato e da garzoni,
Cantico sacro udirono le Grazie.47
E pria l’intese dalle Dee la bionda
Ifïanéa, che stava alle pendici
270Adorando. Ne poi quella fanciulla
Destò corde di lira, o all’aure sciolse
L’amabil canto a raccontar suoi guai
E i beneficj delle Dee, che a tutti
Che ad udirla accorrean non provocasse
275Soavissimi gemiti dal core.
Sventurata! piangetela donzelle;
Vergine sventurata! Arcade ell’era,
E di Tessalo amante; e l’amò pria
Che sì bello e gentile il conoscesse:
280E spesso al canto ei l’invitava, e spesso
Su’ labbri il canto le rompea co’ baci.
Già vicina alle sue nozze, beata
Le ghirlande apprestava; e le fu spento.
Senza lacrime a terra muta cadde;
285Ma le Grazie l’accolsero morente
Nelle pietose braccia, ed una nuova
Aura di vita le spirâr. La mesta
Non sciolse il cinto; e, finchè lei sotterra
Non chiamò Cloto48 a riveder l’amante,
290All’altar delle Dee consolatrici
Sacrò gl’inni e il dolor, vergine ancella.
Udì Cipria que’ Cori, e disvelossi;
E quanti allor garzoni e giovinette
Vider la Deità, furon beati;
295E di Driadi col nome e di Silvani
Fur compagni di Febo. Infra le Muse
Scherzar ne’ fonti suoi vedeali Imetto,49
E ne’ suoi colli il Tebro.50 Oggi, le umane
Orme temendo, e de’ poeti il vulgo,
300Che con lira straniera, evocatrice
Di fantastiche larve, a sè li chiama,
Invisibili e muti nelle selve
Celansi: come quando esce un’Erinni
A gioir delle terre arse dal verno,
305Maligna, e lava le sue membra a’ fonti
Dell’Islanda esecrati, ove più occulte
Fuman sulfuree l’acque; e a putreolenti
Laghi, lambiti da cerulee vampe,
La teda alluma, e al ciel sublime aspira.51
310Finge, perfida, in pria roseo splendore,
E lei delusi appellano col vago
Nome di boreale Alba i mortali.
Quella freme, e le nuvole in Chimere
Orrende, e in imminenti armi converte,
315Fiammeggianti; e calare odi per l’aere
Dal muto nembo l’aquile agitate,
Che veggion nel lor regno angui, e sedenti
Leoni, ed ululanti ombre di lupi.
Inondate di sangue errano al guardo
320Delle genti le stelle, e van gittando
Squallidi raggi per letereo caos.
Tutta d’incendio la celeste volta
S’infiamma, e sotto a quella infausta luce
Rosseggia immensa l’iperborea terra.
325Quindi l’invida Dea gl’inseminati
Campi mira, e l’Oceano conteso
Tutto a’ nocchier dal gelo: ed oggi forse
Per la Scizia calpesta armi e vessilli,52
E d’itali guerrier corpi incompianti!
330Poscia che, colle figlie, ebbe la Diva
Tutte del nume suo fatte più miti
Le contrade di Grecia, alla sdegnosa
Diana, Iride, il cocchio e mansuete
Le cerve addusse, amabil dono, in Creta:
335E Cinzia sempre fu alle Grazie amica,
ognor con esse fu tutela al core
Delle ingenue fanciulle, ed agl’infanti.53
Quattro volte l’Aurora era salita
Sull’orïente a riveder le Grazie
340Dacchè nacquero al mondo; e Giano antico,
Padre d’Ausonia, e l’itala Anfitrite
Inviavan lor doni, e un drappelletto
Di Najadi e fanciulle eridanine;
E quante i pomi d’Anïene, e i fondi
345Godean d’Arno e di Tebro, e quante Ninfe
Avea ’l mar d’Aretusa;54 e le guidavi
Tu più che giglio nivea Galatea.55
Ma, non che ornar di canto, e chi può mai
Ridir l’opre de’ Numi? Impazïente
350Il vagante Inno mio fugge ove incontri
Grazïose le genti ad ascoltarlo:
Pur non so dirvi, o belle Suore, addio;
E mi detta più alteri inni il pensiero.
Ma dove or io vi seguirò, se il Fato,
355Ah! da gran tempo omai profughe in terra,
Alla Grecia vi tolse, e se l’Italia
Che v’è patria seconda, i doni vostri,
Misera! ostenta e il vostro nume oblia?
Pur molti ingenui de’ suoi figli ancora
360A voi tendon le palme. Io, finchè viva
Ombra daran di Bellosguardo i lauri,
Ne farò tetto all’ara vostra, e offerta
Di quanti pomi educa l’anno, e quante
Fragranze ama destar l’Alba d’aprile.
365E il fonte, e queste pure aure, e i cipressi,
E secreto il mio pianto, e la sdegnosa
Lira, e i silenzj vi fien sacri, e l’Arti.
Fra l’Arti io coronato e fra le Muse,
Alla Patria dirò come indulgenti
370Tornaste ospiti a lei, sì che più grata,
In più splendida reggia e con solenni
Pompe v’onori. Udrà come redenta
Fu per opra di voi, quando sull’Arno
Pose Vesta il suo fuoco, e poi Minerva
375Gli concesse per voi l’attico ulivo.
ite, o Dee; spirate, o Dee; spandete56
La deità materna! e nuovamente
Deriveranno l’armonia gl’ingegni
Dall’Olimpo in Italia: e da voi solo,
380Nè dar premio potete altro più bello,
Sol da voi chiederem, Grazie, un sorriso.
Note
- ↑ * Venere simboleggia la bellezza dell’Universo. (F.).
- ↑ 1-3. Le Grazie, Deità intermedie fra il cielo e la terra, secondo il sistema poelico dell’Autore, ricevono dai Numi tutti i doni ch’esse dispensant agli uomini. Tutta la macchina del Carme è stabilila su questa immaginazione: pero il primo Inno è intitolato Venere, il secondo Vesta, il terzo Pallade. — Seconde il suo sistema storico, le Deità sono anco più benefiche sì a Grecia e all’Italia. - Finalmente, secondo le sue idee metafisiche, la grazia deriva da una dilicata armonia che spira dalla beltà corporale, dalla bontà del cuore e daila vlvacità dell’ingegno, congiunte in sommo grado in una sola persona, e che ingentilisce e consola la vita, educando gli uomini alla idea divina del Bello, al piacero della Virtù ed allo studio delle Arti, che colla imitazione possono perpetuare e moltiplicare gli effetti delle grazie positive e naturali nei pochì che sono così formati di mano dolia Natura. (F.)
- ↑ 4-8. L’armonia arcana della versificazione è un’attitudine indefinibile dell’animo, e natìa come le grazie. — La melodia conviene alla poesia graziosa. — La facoltà pittrice è dote essenziale del Poeta, che nelle combinazioni e ne’ suoni delle parole rappresenta imagini: queste destano affetti, e tanto più efficaci, quanto più nuovi ed improvvisi. Cosi il Poeta ora rappresenta imagini nuove, per destare affetti lieti alla sua Patria contristata dalle vicende politiche. Tale dev’essero lo scopo della Poesia; e Virgilio adornò nelle Georgiche le Arti dell’Agricultura per distorre col linguaggio de’ Numi i Romani dal furore delle guerre civili. (F.)
- ↑ 10. Bellosguardo è poggio vicino a Firenze sulla riva sinistra dell’Arno, dove scriveva l’Autore. (F.)
- ↑ 16-18. Canova l’anno innanzi (1805) aveva consecrato la sua Venere ch’esce dal bagno nella Galleria di Firenze, nel luogo stesso dov’era la Venere de’ Medici. (F.) La Venere di Canova adesso si ammira ne’ Pitti.
- ↑ 20-23. Il medesimo Scultore sta lavorando un gruppo delle tre Grazie. (F). Esso fu terminato nel 1815. Fu commesso dalla Imperatrice Giuseppina, ma se l’ebbe il Principe Eugenio. Poscia lo Scultore lo replicò pel Duca di Bedford, presso il quale tuttavia esiste.
- ↑ 24. La creazione poetica assegna alla fantasia i caratteri ideali, di cui si giovano gli Artefici. (F.)
- ↑ 26. Fidia vantavasi di aver dedotto la sua statua di Giove Olimpio da tre versi d’Omero. (F.)
- ↑ 27. Narrano che la più perfetta fra le opere di questo principe de’ pittori greci fosse la sua Venere anadiomene, cioè uscente dal mare. Fu celebre ancora la sua tavola delle Grazie, che si conservava a Smirne.
- ↑ 29-30. Gli antichi ascrivevano al mare il fenomeno de’ terremoti. (F.) Quindi Nettuno enosigeo, vale a dire scuotiterra.
- ↑ 32-33. L’Universo e la Natura sono guardati dall’uomo con una stupida ammirazione mista a terrore, finchè esso non è ingentilito ed ammaestrato dalle Grazie. (F.)
- ↑ 36. La Bellezza non è amabile nè adorata senza le Grazie; quindi la religione a Venere, dacchè apparì colle sue seguaci. (F.)
- ↑ 45. Citera, isola posta dopo Zacinto, patria datami dal cielo, è l’estrema della Repubblica settinsulare. Zacinto è la sesta. (F.)
- ↑ 48-50. I primi Veneti, che l’Autore chiama suoi padri, furono colonia troiana dopo le ruine dell’Asia. (F.) Virgilio attesta che il troiano Antenore fondò Padova. (Æneid., lib. I.)
- ↑
53-57. Zacinto, secondo Plinio, era celebre per la sua religiono a Diana due secoli innanzi la guerra iliaca, in cui fu punita anco la perfidia di Laomedonte, che aveva ingannato gli Dei da’ quali era stata edificata la sua reggia. (F.) - ↑ 58-63. Teocrito la chiama bella Zacinto, e Omero e Virgilio la lodano per la beltà de’ suoi boschi, e la serenità del cielo. Oggi ha pure agricoltura e commercio, accennati dall’Autore. (F.)
- ↑ 68-77. L’immaginazione ingentilita e rallegrata produce le gentili fantasie; e in Grecia popolò il mare di Ninfe. — La similitudine delle api, dal primo e dall’ultimo verso in fuori, è tolta da Omero, Iliade, II. (F.)
- ↑ 84-91. L’Arte e la coltura danno avvenenza, potere e modestia alla beltá corporale. (F.) Prendi come simboli di questi tre pregi la rosa, il cipresso, albero di poderoso tronco che gode antica fama d’incorruttibilità, e la mammola.
- ↑ 123-124. Arte della caccia, primo stato della umanità. (F.)
- ↑ 125-132. La benevolenza, e l’aiuto reciproco, e l’amore del riposo e della società, affetti ispirali dalla gentilezza del cuore, fanno perfetta l’agricoltura, mantenuta dapprima solo quanto esige la incalzante necessità. (F.)
- ↑ 133-135. Bacco, compiuta la conquista pacifica delle Indie, accompagnato da una grande schiera di Satiri e di Baccanti, tornò in Grecia sopra un carro tirato da tigri, emblema del trionfo da lui riportato su que’ popoli ferini
- ↑ 153-161. Le cerve di Diana al carro di Venere indicano l’arte della caccia che cede a studi più umani. (F.)
- ↑ 162. Iride è presagio fausto di pace e di serenità. (F.)
- ↑ 163. Nell’istmo che congiungeva Citera alla Laconia, e che fa sommerso nel mare, sl spiega il fenomeno di quella specie d’isole vicine al continente. (F.)
- ↑ 178-183. I Selvaggi senza religione ed antropofagi, indomabili dalle Grazie e sterminati a un cenno di Venere, alludono alle nazioni, come ve ne ha nell’India occidentale, che, sdegnando l’agricoltura e le leggi sociali, si vanno disperdendo fra loro, e sono consumate dalla fame e da ogni miseria. Vedi i viaggiatori nell’India occidentale, e intorno al fiume Orenoco. (F.)
- ↑ 180-183. Pare che l’Autore supponga l’uomo naturalmente guerriero: così lo defini altrove (Origine e ufficio della Letteratura); e che questa sua tendenza sia moderata dalla religione, dall’incivilimento e dalle Arti. (F.)
- ↑ 181-183. Qui ed altrove vedesi che l’Autore scriveva nel tempo delle ultime guerre (F.)
- ↑ 196-198. Omero distinse il regno di Messene e di Sparta cogli epiteti di montuoso e concavo di terreni (lliade, lib. 2, nel catalogo). Strabone crede che uno di quegli epiteti accenni al fuoco sotterraneo donde provengono i terremoti. I viaggiatori moderni trovano esatta la descrizione d’Omero, e la spiegazione del geografo antico. I terremoti continuano a far cangiare l’aspetto de’ monti e delle valli in quel paese. (F.)
- ↑ 200-205. Dipinge il paese qual era a’tempi d’Omero, e non quale si vede oggi nella sua topografia; e, quanto a’ costumi, qual era a’ tempi di Leda, quando la corte di Sparta era elegantissima, e vi concorrevano tutti i principi della Grecia. — La sua decadenza nelle arti eleganti è ascritta all’adulterio di Elena, perchè le Grazie sono protettrici delle virtù coniugali. (F.)
- ↑ 206. L’Amore veemente affligge i sentimenti dilicati del cuore, e genera la tristezza, che distrugge la grazia (F.)
- ↑ 213. Gli Spartani, anche ne’ tempi severi della repubblica, sacrificavano alle Grazie. (F.) Anzi è notabile ciò che ne raccontano alcuni moderni viaggiatori, cioè che fra le informi rovine dell’antica Sparta si ravvisa tultora l’ara delle Grazie.
- ↑ 216 Fare fu antica città sul golfo di Messenia, presso l’imboccatura del fiume Pamiso. (Pausania.) È rammentata da Omero nel catalogo delle navi. (Iliad., lib. 2.)
- ↑ 219. L’Eurota, celebre fiume della Laconia che scorreva presso Sparta.
- ↑ 220. Mêssa, città anch’essa della Laconia e, rammentata da Omero.
- ↑ 222-223. Augia, città della Licaonia, è detta amabile da Omero, che la nomina nel catalogo delle navi. Pausania e Plutarco narrano, che vicino ad essa era uno stagno chiamato di Nettuno, ove niano usava pescare per timore di essere trasformato in pesce, secondo la minaccia di un’antica tradizione.
- ↑ 225. Amicla, fu patria di Leda. Omero la rammenta nel catalogo; e, secondo Strabone, era situata venti stadj lungi da Sparta, verso il mare, alle radici del Taigeto.
- ↑ 230. Laa, città pur essa della Laconia, situata fra tre montagne, dieci stadj distante dal mare. (Pausania.) È rammentata da Omero nel catalogo. (Lib. 2, Iliad.)
- ↑ 232. Elo, piccola città marittima al di sopra dell’Eurota, diede il nome alla costa eloa, che il Poeta chiama ricca di pesci. Anco i suoi abitanti andarono all’assedio di Troia. (Iliad., 2.)
- ↑ 233-236. Brisea, città della Laconia appiè del Taigeto, monte celebre per le orgie delle Baccanti. (Pausania. - Omero nel catalogo, Iliad., lib. 2.)
- ↑ 238-239. Alla Focide appartenevano le due città Daulide e Pitone. Questa è più nota sotto il nome di Delfo, ed era situata alla metà del Parnaso, in luogo sassoso e teatrale, come dice Strabone. La prima era posta quasi alle falde dello stesso monte; ed ambedue sono accennate da Omero pure nel catalogo.
- ↑ 240-241. Panopea o Panope, anch’essa nella Focide, era piccola città lungo un torrente assai profondo, che, al dire di Pausania, menava macigni di tal grossezza, che uno solo bastava al carico di una carretta. Ed anco i suoi abitanti andarono alla guerra troiana. (Omero nel catalogo, lib. 2.)
- ↑ 242-243. Anemorea era posta sul confine della Locride, appiè del precipizio del Parnaso, detto Catopterio. Era continuamente bersagliata da’ venti a causa della sua situazione, e trasse il nome da una parola greca (anemòs) significante vento. Cost Strabone, secondo il quale essa sarebbe la medesima che Jampoli. Pausania per altro ne fa due città differenti, e narra che l’ultima fu fabbricata dagli Janti, uno degli antichissimi popoli che Cadmo cacciò dalla Beozia. Omero pure le nomina distintamente nel catalogo. (Iliad., lib. 2.)
- ↑ 244-246. Pindaro nel principio dell’ultima delle Olimpiche celebra il Cefiso, tortuoso fiume della Beozia, come caro alle Grazie, che solevano bagnarvisi. La sorgente del Cefiso era presso Lilea città della Focide, e che trasse il nome dalla Naiade Lilea figlia dello stesso fiume. I suoi abitanti, per onorare il padre di questa ninfa, erano soliti di gettare una pasta sacra nelle sue acque; ed asserivano che pochi momenti dopo la vedevano ricomparire nel fonte Castalio. — Il Poeta chiama il Cefiso fiume divino, perchè, come narra Strabone, le sue onde rendevano oracoli. — Omero nel catalogo annovera Lilea fra le città che spedirono guerrieri all’assedio di Troia.
- ↑ 253. Dorium quidam montem, quidam campum esse scribunt; cujus hoc tempore pars nulla monstratur. Così di Dorio Strabone nel lib. 8. — Anche Omero nel catalogo lascia incerti se debba reputarsi una città o un monte sui confini della Messenia. Il nostro Poeta sembra avere adottato questa ultima opinione. — Nota, o giovine lettore, come le Grazie si velino ora che, dopo aver compartito agli uomini i materiali benefizj, si apprestano a conceder loro anco quelli morali. Principalissimo fra questi ed il più utile alla vita è il conforto nelle sventure, desunto dalla cultura delle Arti gentili; e la Deità lo porge con arcana beneficenza agli spiriti puri e generosi, come vuole che sia accolto da essi e nudrito con sacro pudore. Vedi più sotto i pietosi versi intorno ad ifianea.
- ↑ 254-256. — Trio, città dell’Elide guado dell’Alfeo, come la chiama Omero nel catalogo. L’Alfeo poi nasce nell’Arcadia presso i confini della Laconia, e, dopo avere attraversato l’Elide, si getta nell’Acaia, e quindi in mare. (Strabone.)
- ↑ 260-262. Aspledone fu nomata anco Eudieto, cioè ben situata all’occidente, perchè sulla sera era mirabilmente illuminata dal Sole. (Strabone.) Anch’essa spedì guerrieri a Troia. (lliad., lib. 2.)
- ↑ 263-267. Plutarco asserisce che le pianure d’Orcoméno erano le più spaziose di tutta la Beozia. — Più d’una città in Grecia ebbe tal nome; ma Pindaro nelle Olimpiche, e Omero nel catalogo danno a quella di Beozia l’aggiunto di miniea, da Minia che regnò in quella contrada, e fu padre d’Orcoméno che fondò la città. — Pausania nel sesto libro dice che uno de’ più ragguardevoli edifizi che vedevansi in essa era il tempio delle Grazie, alle quali gli Orcomenii si vantavano di averlo edificato i primi, ancorchè i Lacedemoni contrastassero loro tale onore. Quindi le Grazie avevano il soprannome di Orcomenie.
- ↑ 289. Cloto, la prima delle Parche, cui incombeva di regolare il tempo della esistenza. Il Poeta, considerandola qui come quella che chiamava alla pace de’ sepolti un’amante infelice e cara alle Grazie, sembra aver mirato a quel luogo di Pausania (Attic., p. 33), ove riferisce che presso i Greci, e particolarmente in Atene, avea culto ed ara sotto il nome di Venere urania, o celeste.
- ↑ 297. Imetto, monte dell’Attica presso Atene.
- ↑ 298. Qui e ne’ seguenti versi il Poeta, inesorabile alunno dell’Arte greca e latina, dà un fiero colpo alla scuola boreale. Comunque sieno le opinioni del lettore su questo proposito, certo egli non potrà pon rispettare il voto che questo alto e libero intelletto in ogni occasione volle serbare a favore di una scuola, di cui fu zelatore caldissimo, e di cui anco aumentò i tesori con questo Carme.
- ↑ 306-327. L’Islanda, com’è noto, è una grande isola d’Europa nell’oceano Deucaledonio, e che da taluno pretendesi essere la Thule degli antichi. È famosa per la sterilità del suolo, per le sorgenti calde e sulfuree, per le caverne mefitiche e pel vulcano del monte Ecla, l’Etna del settentrione. — Il Poeta ne fa la principale sede dell’Aurora boreale, che egli appella Erinni, o Furia. — Circa agli stupendi spettacoli che offre questo fenomeno meteorologico, qui maravigliosamente dipinti dal Foscolo, si può consultare, fra gli altri, il Dizionario scientifico etc. di Francesco Pivati, Venezia 1747. - Il lettore intanto, nelle aquile agitate dal muto nembo ec. può ravvisare il Poeta-aquila crucciato per la invasione dei mostri settentrionali nelle alte regioni delle greche e latine Fantasie.
- ↑ 328. Sublime allusione alla troppo celebre ritirata di Russia nel 1812.
- ↑ 337. I fanciullini sono cari alle Grazie. (F.)
- ↑ 340-346. Giano, primo fondatore della civiltà italica e re del Lazio, ove accolse Saturno fuggiasco dal Cielo. Anfitrite, sposa di Nettuno. — Najadi, Ninfe de’ fonti e de’ fiumi, come del Po, ossia Eridano. — Aniene o Anio, oggi Teverone, fiume che scorre nelle campagne di Tivoli. — Aretusa, fontana nell’isola di Ortigia presso la Sicilia.
- ↑ 347. Galatea, Ninfa del mar Sicano cara ad Aci e al ciclope Polifemo. Essa simboleggia la modestia, che, secondo l’Autore, è un raffinamento di un’anima gentile che sente il proprio merito, ma lo vela per non offendere gli altri. (F.)
- ↑ 373-375. Accenna alcune materie dell’Inno seguente.